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Autore: MmeBovary    08/12/2012    4 recensioni
Ginny aveva amato Harry dal primo momento in cui i suoi occhi di bambina si erano fissati sul suo sorriso timido e sulla sua affascinate e misteriosa cicatrice.
Certo, allora il suo amore aveva la profondità della passione con cui amava le api frizzole, le domeniche mattina nel lettone dei suoi genitori, o il suo cavallo di pezza.
Certo, non conosceva quel ragazzino che di fama, ma già lo adorava e da qualche parte nella sua testolina si era decisa che lui sarebbe stato l’uomo della sua vita.

Essere l'innamorata di Harry Potter per eccellenza non è una vita facile. Specialmente vista la cocciutaggine di lui e i mille ostacoli lungo la via.
Ginny non è tipo da mollare, ma nemmeno lei è indistruttibile...
[Questa fanfic si è classificata seconda su tre al concorso "Harry/Ginny per tutti i gusti" di TelynBia e seconda su ventiquattro al concorso "The Canon Lovers" di @orny@.]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ginny Weasley, Harry Potter, Molly Weasley | Coppie: Harry/Ginny
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Da VII libro alternativo, Più contesti
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Harry si spruzzò un ultimo sbuffo di acqua di colonia e si lisciò la pelle ruvida del mento tra le dita. Le minuscole goccioline profumate bruciarono sulle micro ferite della rasatura appena ultimata e Harry storse il naso in un’espressione di fastidio.
Si sistemò meglio la giacca, poi diede una spazzolata alle maniche con il dorso della mano per eliminare i peli di gatto che ancora gli erano rimasti addosso dall’ultima volta che era andato a visitare Ron e Hermione a casa loro. I due, novelli sposi, avevano appena comprato un grasso micio bianco dal muso schiacciato e la bestiola sembrava intenzionata a perdere peli su qualunque superficie. Harry incluso.
Una volta certo di essere presentabile, Potter uscì dal bagno, mise in tasca la propria bacchetta e tolse dall’acqua un mazzo di fiori selvatici misti che aveva raccolto il giorno prima, appositamente per portarli a Ginny. Facendo una breve lista mentale delle cose che poteva aver dimenticato si preparò a Smaterializzarsi alla Tana, ma poi notò che qualcosa era fuori posto. Appoggiò il mazzo di fiori sul tavolo della cucina e mosse alcuni passi verso la finestra della sala da pranzo, il cui vetro era sempre leggermente aperto per permettere a eventuali gufi di entrare a recapitargli delle lettere.  
Sul davanzale interno della finestra, precariamente posata sul paraspifferi a pois regalatogli da Hermione il Natale precedente, Harry trovò una cornacchia grigia con un’aletta ferita. Quando si avvicinò, la bestiola tremante emise un grido stridulo e indietreggiò goffamente, rischiando di cadere.
“Non avere paura, non voglio farti del male.” – la rassicurò l’uomo, stringendola tra le palme delle mani in modo che non potesse agitare ulteriormente l’ala spezzata.
La depose in una scatola da scarpe con una vecchia felpa perché non avesse freddo e le mise accanto un piattino con dell’acqua.
“Ora devo andare,” – fece sapere alla piccola creatura spaventata, – “altrimenti faccio tardi al mio appuntamento e le ragazze non andrebbero mai fatte aspettare. Ma torno presto a controllare come stai.”
Gli dispiaceva aver iniziato la giornata con quell’avvenimento triste. Un animale ferito non era mai un bello spettacolo e le cornacchie grigie, poi, lo avevano sempre un po’ intimorito, sin da quando Hermione gli aveva raccontato che nella mitologia irlandese la dea della guerra e della morte Babd era solita assumere le sembianze di tale volatile per anticipare oscuri avvertimenti.
Quando si Smaterializzò e riapparve alla Tana, Harry non riusciva a scrollarsi di dosso la sgradevole sensazione che quella cornacchia fosse un brutto presagio.
Salutò la signora Weasley con un leggero bacio sulla guancia infossata dagli anni e dalle tante disgrazie subite, poi si rese conto che gli mancava qualcosa.
“Oh, dannazione, i fiori! Ho dimenticato a casa i fiori che avevo raccolto per Ginny.”
Ecco che infatti la sua giornata andava a peggiorare.
“Tranquillo, caro,” – lo rassicurò Molly, invitandolo ad entrare, – “sono certa che per Ginny non cambi molto.”
Harry sospirò, poi imboccò le scale, dirigendosi a mani vuote al piano superiore verso la camera di Ginny.
  
 

~***~

 
Ginny aveva amato Harry dal primo momento in cui i suoi occhi di bambina si erano fissati sul suo sorriso timido e sulla sua affascinante e misteriosa cicatrice.
Certo, allora il suo amore aveva la profondità della passione con cui amava le api frizzole, le domeniche mattina nel lettone dei suoi genitori o il suo cavallo di pezza.
Certo, non conosceva quel ragazzino che di fama, ma già lo adorava e da qualche parte nella sua testolina si era decisa che lui sarebbe stato l’uomo della sua vita. 
 
 
 
“Mamma, perché non posso andare anch’io a Hogwarts con loro? Ti prego!” – chiese quel giorno di settembre di tanti anni prima, con le lacrime che le pungevano gli occhi, tirando la manica di Molly Weasley.
“Ginny, cara, tu andrai l’anno prossimo, non avere fretta. Vedrai che non ti perderai niente di troppo interessante: le solite lezioni, i soliti professori, i soliti esami. Hogwarts non è un posto avventuroso, cara, è solo una scuola.” – la consolò la donna, non sapendo quanto si sbagliasse sulla presunta tranquillità di Hogwarts quell’anno.
Ginny sbuffò. Avrebbe voluto sedersi accanto a Harry Potter sull’Espresso, offrirgli una cioccorana, fargli vedere il quaderno nuovo tutto rosa a calderoni argentati che aveva comprato a Hogsmeade pochi giorni prima, stringere la sua mano, spiegargli tutto quello che non sapeva sul Mondo Magico, diventare la sua confidente. E invece le toccava tornare a casa a fantasticare e a aiutare la madre a lavare i piatti sporchi della colazione che giacevano ancora nel lavandino della Tana.     
 
 
 
Quando aveva saputo che suo fratello Ron era diventato amico di Harry Potter, Ginny non aveva chiuso occhio per la gioia per diverse notti, riempiendo quaderni su quaderni di scarabocchi, cuori, fiori e schizzi di come avrebbe dovuto essere il suo bouquet il giorno delle nozze per risaltare al meglio con il verde chiaro degli occhi di Harry.
Quando era andata a Hogwarts, l’anno successivo, ed era arrivato San Valentino, Ginny non aveva resistito all’idea di mandare a Harry un’infuocata poesia d’amore, scritta di getto in una delle tante notti insonni passate a sognarlo ad occhi aperti.
Ma lui non aveva gradito. Harry si era vergognato di quella confessione e il rifiuto aveva fatto sentire Ginny più insulsa di quanto non riuscisse già a fare il fatto di essere l’ultima di sette figli. L’imbarazzo di Harry non era niente a confronto del dolore che aveva provato lei. Se qualcuno le avesse strappato il cuore per farcirci una Shepard’s Pie sarebbe stato meno umiliante.
Ma poi, Harry l’aveva salvata.
Il ragazzo aveva sfidato un Basilisco per lei, aveva rischiato di morire per lei. Sì, per lei, che era parte della sua famiglia – le avevano detto tutti. E gli anni avevano confermato l’andazzo: come fratello e sorella, sembravano concordare tutti quelli che li conoscevano. Ma Ginny non voleva essere famiglia, non voleva essere la sorellina cui rimboccare le coperte con amore prima di andare a dormire in un’altra camera. No, lei voleva essere la sua confidente, voleva che lui le aprisse il suo cuore e s’innamorasse di lei. Voleva anche essere l’amante lasciva nel cui letto Harry potesse andarsi a infilare quando volesse, sfogando su di lei ogni più basso istinto. Non le importava: avrebbe assecondato qualunque desiderio, soddisfatto qualunque fantasia, purché lui la vedesse con occhi di amante. Voleva solo piacergli in un modo diverso da quello in cui piace un familiare, ma non ci riusciva.
Poi Cho, invece, a Harry era piaciuta da subito.
 
 
 
Una sera, al suo terzo anno, Ginny, tornando verso il castello, vide Harry che girellava tra i sentieri del parco. Il ragazzo la salutò e si accorse che portava in grembo un mazzo enorme di fiori selvatici raccolti ai bordi della foresta e del lago.
“Sono bellissimi.” – le disse, indicando le genziane, i narcisi selvatici bianchi e gialli, i campanellini, le pervinche, i denti di leone, la candida achillea millefoglie, i fragili giunchi e i rametti d’erica viola che si riversavano dalle sue braccia.
La ragazza arrossì, come le capitava spesso, ancora, quando Harry le parlava. Non gli disse che li aveva raccolti pensando a lui, immaginando che fosse stato lui a guidarla verso quella flora spontanea, che gli avesse regalato lui quelle colorate delizie per gli occhi.
“Io… volevo solo qualcosa per dare colore alla stanza.” – balbettò nervosamente.
Anche Harry sembrava titubante riguardo l’essere solo con lei. Ginny lo vide grattarsi nervosamente la nuca e guardarsi intorno, come alla ricerca di un diversivo per togliersi da quel dialogo a quattr’occhi. Certo, anche lui era timido e non se l’era mai cavata troppo bene con le ragazze, ma in cuor suo Ginny sperava che almeno con lei avrebbe potuto sentirsi a suo agio, almeno adesso che la conosceva da quasi quattro anni.
“Come mai eri qui fuori?” – gli chiese, sperando di metterlo a suo agio sviando la conversazione dal romantico soggetto dei fiori.
“Io…” – mormorò il ragazzo, arrossendo vistosamente, – “Io… ehm… dovevo schiarirmi le idee e trovare il coraggio di fare una cosa.”
La ragazza sentì un brivido attraversarle la schiena, come il presentimento irrazionale che qualcosa di importante stesse per accadere.
“Qualcosa che ha a che fare con il Torneo Tremaghi?”
Ginny strinse la presa sui suoi fiori, sentendo che alcuni giunchi iniziavano a scivolare verso il basso, trasportati dal peso della propria infiorescenza, sfuggendole dalle dita. Sperava solo che anche la situazione non le sfuggisse di mano.
“No, cioè, sì, in un certo senso… Ha a che fare col ballo… In realtà forse è un bene che mi sia imbattuto in te.”
La giovane mollò improvvisamente la presa, lasciando che le corolle soffici e delicate del suo raccolto s’infrangessero a terra. Aveva perso il controllo delle braccia quando aveva sentito la parola “ballo.” Che Harry stesse per invitarla ad andare con lui? Perché altro dirglielo? Era là fuori per lei! La stava cercando, la voleva invitare, la voleva stringere a sé tra i volteggi di mille danze!
Si chinò subito a raccogliere i fiori, seguita a ruota da Harry, e si scusò per quel gesto sbadato, giustificandosi con scuse improbabili riguardo l’essersi punta con qualcosa.
“Tranquilla…” – la rassicurò Harry, – “Non sembra che si siano rovinati.”
Le porse la porzione di achillea che aveva raccolto da terra.
L’achillea millefoglie, nel linguaggio dei fiori, simboleggia la cura per un cuore infranto e Ginny si chiese se quello non fosse per lei il momento di veder cicatrizzare le mille ferite che le avevano sconquassato l’anima ogni volta che Harry l’aveva trattata solo da amica.
“Grazie.” – gli sussurrò, – “Ma sbaglio o mi dicevi qualcosa sul ballo e sulla fortuna di avermi incontrata?”
Harry arrossì leggermente.
“Beh, sì… Sai, devo portare qualcuno, per quella storia dell’aprire le danze e, dato che tu sei una ragazza…”
Il cuore di Ginny prese a battere a mille, mentre stringeva le dita attorno al ciuffetto di achillea che le sembrava ancora emanare il calore della mano maschile che gliel’aveva passato.
“…dato che, insomma, magari hai sentito qualche pettegolezzo o che… Non è che magari mi sapresti dire se Cho Chang verrebbe al ballo con me? Vorrei chiederglielo, ma ho paura che possa rifiutare.”
Un conato di vomito acido risalì dallo stomaco di Ginny mentre cercava di mantenere il controllo. Perché tutti dovevano sempre giocare con i suoi sentimenti? Inghiottì il rospo, sperando di poter replicare senza tradire la delusione.
“Io non ne ho idea. Mi dispiace.” – rispose con tono funereo.
Harry notò la sua espressione accigliata. Temette di essere stato indelicato a farle una domanda tanto personale. Magari infrangeva qualche codice femminile di cui lui non era a conoscenza. Cielo, come erano complicate le donne!
“Certo, scusa se ti ho disturbato. Avrei chiesto a Hermione, ma sembra essere in un altro mondo – credo abbia litigato con Ron per non so cosa, quei due stanno diventando peggio di due bambini…”
“Tranquillo. Non c’è problema.” – lo interruppe Ginny.
Voleva solo scappare, gettare quegli stupidi fiori nel lago e andare a piangere fino a sentire il dolore fisico degli occhi che non hanno più lacrime.
“Beh, grazie comunque. Ci vediamo, ok?” – la salutò Harry, con un sorriso imbarazzato, avviandosi verso il castello.
La ragazza rimase immobile, stringendo al seno un mazzo disfatto di fiori selvatici e stritolando tra le dita fino a distruggerla l’infiorescenza biancastra dell’achillea. Perché l’avesse raccolta poi, quella stupida pianta inutile e brutta come un cavolfiore, non lo capiva neanche. Guarire le ferite del cuore… Stupidaggini! La ferita che si era appena aperta era tanto profonda da non vederne la fine.
Gettò i fiori nel lago e corse via senza nemmeno guardarsi indietro.
 
 
 
Ginny era tornata in camera e aveva strappato con rabbia le pagine del quaderno coi disegni del suo bouquet ideale, realizzati a dieci anni, aveva dato alle fiamme pagine di diari riempite di cuori, aveva sostituito alla lista dei nomi che avrebbe scelto per i suoi figli la lista dei modi per rendere Cho miserabilmente priva di attrattive: le avrebbe strappato i lisci e serafici capelli neri uno ad uno, le avrebbe fatto cadere i denti, le avrebbe bruciato la morbida pelle giallastra con mille incantesimi, se solo questo fosse bastato a far sì che Harry staccasse gli occhi da lei.
E invece, a Harry tutto era passato da solo, quando Ginny iniziava a rassegnarsi e a ritrovare la lucidità necessaria a capire che forse stava esagerando e non poteva reagire in tale modo se Harry non l’amava. Ginny aveva persino trovato qualcun altro per il ballo e poi anche qualcuno che la chiamasse la sua ragazza. Al quinto anno si era persino dovuta sentir dire da Ron che aveva atteggiamenti troppo “promiscui”. Il colmo dell’ironia, quando lei più di tutte non anelava che una persona sola.
Harry, alla fine, si era deciso a mollare Cho e sembrava persino interessato a lei, quindi come poteva Ginny non rimettere tutto in gioco e non ricominciare a sognare?
Il cuore della ragazza aveva ripreso a battere dopo anni di attesa in cui le era parso che una nera mano glielo stesse frantumando, stringendo sempre più forte ogni volta che Harry la chiamava amica.
C’era stato poi un bacio rubato, nell’eccitazione di una vittoria a Quidditch, che aveva lasciato Ginny con uno strano formicolio in bocca. Non era riuscita a chiudere occhio per diverse notti a seguire. Sentiva un gorgoglio sordo nello stomaco e dei brividi nervosi che le facevano arricciare le dita dei piedi e prudere il naso. Era come essere in preda ad una strana febbre, come essere ubriaca di vita e di gioia e di soddisfazione.  
Ginny aveva rimesso mano ai diari, ridefinito i dettagli dei suoi desideri, affinato la lista delle aspettative, aggiornato la data entro cui si aspettava di essere ufficialmente la fidanzata di Harry Potter.
 
 
 
Una sera di un’estate in cui Harry stava passando alcune notti alla Tana, Ginny uscì a prendere una fresca boccata di aria notturna e si imbatté in lui.
Il Ragazzo Sopravvissuto sedeva su di una larga roccia dalla superficie liscia, immersa in un ondeggiante mare di erba altissima, nutrita dal laghetto che in quel punto circondava casa Weasley e che l’estate aveva ridotto a un acquitrino. La ragazza si avvicinò, bagnandosi i piedi nella melma, scansando le erbacce che le si impigliavano nel pigiama. Avrebbe voluto essere più previdente, aver indossato qualcosa di più carino di una vestaglia, non essersi struccata, non avere i capelli tanto arruffati, ma si dovette accontentare di com’era.
“Harry…” – sussurrò, appena arrivata a sfiorare con la punta delle dita la fredda superficie della roccia.
Il ragazzo si riscosse e la guardò inizialmente con sconcerto, portando la mano alla bacchetta. Una frazione di secondo dopo, però, la riconobbe e la sua espressione si rilassò.
“Ciao, Ginny. Scusa, mi hai fatto paura. Temo di essere un po’ nervoso in questi giorni.”
Lei sorrise, andandosi a sedere al suo fianco.
“Hai ragioni sufficienti per esserlo. Finché questa guerra non sarà finita saremo tutti un po’ nervosi, temo.”
Lui sospirò.
“Eppure, nel mondo c’è anche chi non ha di questi problemi…” – le mormorò, stringendo i pugni attorno ai minuscoli fiori di una pianta acquatica – “C’è pure chi stanotte dorme sogni tranquilli senza sapere che Voldemort esista, chi a sedici anni non ha ancora mai visto morire nessuno, chi non si sente costantemente in pericolo di essere stanato…”
Ginny mise la propria mano su quella di Harry, sperando di tranquillizzarlo.
“Mia madre a volte ti guarda portare sulle spalle il peso del mondo,” – gli rispose – “E poi si rivolge a me, scuote la testa, e mi dice ‘È solo un ragazzo, per amor del cielo, come possiamo pretendere tanto?’ e io la guardo, annuisco per farla contenta, ma non concordo.”
Harry la guardò, incuriosito.
“Non credi che io abbia il peso del mondo sulle spalle?”
Lei sorrise.
“Beh, se così fosse non avresti spalle altrettanto belle diritte, no?” – ironizzò, senza riuscire a non arrossire per il complimento che aveva azzardato, – “Comunque, no, non concordo sul fatto che tu sia ‘solo un ragazzo’ Harry. Io ho fiducia in te, so che sei speciale, so che puoi farcela e che solo tu puoi farcela.”
Lui strinse la mano che sfiorava la sua, facendola tremare.
“Grazie, Ginny, di credere in me più di quanto io stesso non faccia. Non so cosa farei da solo.”
“Ti lamenteresti ancora continuamente, ma non ci sarebbe nessuno a darti retta!” – lo prese in giro Ginny, facendolo ridere.
“Ah, così mi lamento?” – chiese lui, sorridendole con una certa aria di sfida, – “Allora preferiresti che me ne andassi?”
“No!” – esclamò subito lei, prima di riuscire a capire che il ragazzo scherzava.
Lui rise, mentre lei arrossiva fino alla radice dei capelli.
Harry alle volte la faceva sentire ancora la ragazzina imbarazzata che lo aveva salutato ai binari anni prima. Ginny non era una ragazza insicura, lei sapeva quello che voleva, ma quando si trattava di Harry non riusciva a mettere da parte la sua naturale timidezza e alla fine quello che voleva non lo otteneva mai. Infatti, ancora non aveva ottenuto di essere la ragazza ufficiale di Harry Potter.
 
 
 
Harry sembrava non decidersi, non era il momento, doveva vincere una guerra, ma Ginny non avrebbe voluto rinunciare a lui nemmeno per quella guerra. Aveva accettato che lui partisse alla ricerca degli Horcrux, che rischiasse la vita un milione di volte, che si lanciasse verso il pericolo come una stupida falena verso una fiamma irresistibile. Ginny, razionalmente, sapeva ormai che amare Harry voleva dire amare un uomo che forse non avrebbe vissuto oltre l’adolescenza, ma non riusciva a smettere di volerlo e inconsciamente ormai era certa che loro due dovessero stare insieme e si rifiutava di accettare l’idea che in quella guerra Harry avrebbe anche potuto morirci. Ogni volta che il ragazzo sopravviveva a un’altra disavventura tutti mormoravano “Che miracolo” o “Stavolta quasi non c’era da sperarci” ma Ginny non concordava. Per lei era un dato di fatto che Harry dovesse continuare a tornare da lei e non si sarebbe mai stupita finché questo avesse continuato ad accadere. 
Poi, quando Ginny era al suo sesto anno, la guerra vera e propria aveva bussato con le proprie fredde nocche ai cancelli di Hogwarts ed era entrata sgomitando dalla porta principale, invadendo le aule silenziose.
Ginny aveva schivato incantesimi, lanciato maledizioni, superato muri crollati e cadaveri ammassati, tutto avendo in mente sempre e solo una cosa: voleva che tutto finisse per poter avere Harry, per poter avere l’unica e sola vita che aveva sempre voluto.
E poi, era successo quello che era successo…
 
 
 
Quando Voldermort si presentò a Hogwarts con il cadavere di Harry molte persone emisero gemiti di orrore e paura. Coloro che videro il suo corpo abbandonato al rilassamento della morte, la sua pelle graffiata, la sua mano che pendeva arrendevolmente dall’abbraccio di chi lo trasportava, pensarono con triste rassegnazione che l’inevitabile era finalmente successo e l’illusione si era infranta. In fondo, il bambino sopravvissuto non poteva sopravvivere per sempre…
Quando Ginny vide quello spettacolo luttuoso, la sua reazione non fu la stessa degli altri. Non emise un suono, non un gemito, non un pianto. O se lo fece almeno non se ne accorse, perché in quell’esatto istante in cui si rese conto di avere davanti la fine di tutti i propri sogni la sua mente corse ad un giorno lontano e vi rimase, senza riuscire più a tornare completamente indietro.
Ricordò quella volta in cui aveva trovato una brutta bambola babbana tra le cianfrusaglie che suo padre aveva portato alla Tana, sgraffignandole dai rifiuti dell’ufficio. L’aveva presa e stretta forte e la bambola le aveva sibilato, con voce metallica e altalenante “Ti vog-glio be-e-ne.” Spaventata, Ginny aveva scagliato quell’orrore dalla voce robotica a terra, per poi pentirsene un attimo dopo. Aveva voluto premere ancora quel fragile petto di plastica per ripetere la magia di quelle parole, ma la bambola sembrava essersi rotta e lei non sapeva come aggiustarla e tirarla fuori dal suo silenzio ostile. Allora l’aveva abbandonata di nuovo tra le cianfrusaglie e aveva rinunciato all’idea di poterci fare ancora qualcosa.
Quel giorno, davanti al cadavere immobile di Harry, Ginny si sentì esattamente come quella bambola: qualcosa in lei si spezzò. La sua mente le parve oscurarsi, un sonoro crack all’altezza dello stomaco la fece piegare in due, le sua mani corsero alla gola, dove le mancava l’aria. Per un lungo attimo fu convinta di dover morire.
E, in fondo, perché no? Perché non morire quando ormai tutta la vita come l’aveva programmata lei era diventata un’utopia impossibile condizionata al ritorno in vita di un morto? Se fosse stata ragionevole si sarebbe detta che era folle arrendersi solo per la morte di una persona, dopo aver continuato a vivere nonostante la morte di migliaia; si sarebbe resa conto che la sua vita non doveva necessariamente ruotare attorno al pianeta Potter e che dopo il lutto avrebbe potuto trovare ancora la speranza.
Ma Ginny non era guidata dalla ragionevolezza in quel momento e a ogni scarica di dolore luttuoso che le attraversava il corpo e le toglieva il fiato, la sua mente si faceva sempre più buia e lei scivolava più vicina alla follia.
Voleva continuare a guardare quel giovane corpo inerme, sperando di scorgervi uno sprazzo di vita. Forse Harry ora avrebbe riaperto gli occhi, le avrebbe sorriso, le avrebbe detto che poteva continuare a sperare… Forse poteva essere tutto un brutto sogno…
Voldemort iniziò a parlare – qualcosa sulla codardia di Harry, sulla propria vittoria – Ginny non lo ascoltava e non lo sentiva. Ora era, d’improvviso, completamente furiosa verso quel ragazzo morto che se ne penzolava dalle braccia di Hagrid con aria rilassata. Lui adesso non aveva più problemi, ma aveva lasciato lei con una vita disfatta e nessun piano B. Ginny aveva dedicato a lui tutto l’amore che un’adolescenza può contenere e ora cosa aveva in cambio? Una manciata di ceneri di sogni bruciati da spargere al vento.
I minuti che seguirono furono come un'allucinazione distante. Niente era vero, niente stava succedendo: la sua mente le giocava brutti scherzi. Non stava lottando con Bellatrix, sua madre non l'aveva salvata, Harry non era in quella stanza... No, no, erano tutti sogni, erano tutti stupidi inganni della sua testolina sciocca. Si allontanò dal campo di battaglia, sentendo una tristezza sorda montare ad ogni passo.
Come in trance, si lasciò cadere sul prato vicino alla tomba di Silente, aggrappandosi con le mani ai fragili ranuncoli che si erano arrampicati sul marmo. Strappò manciate di quei fiori, senza rabbia, ma con mestizia infinita. Voleva solo distruggere qualcosa, così iniziò anche a strappare le margherite di campo che erano nate tra l’erba. Tirò via tutti i petali di un fiore in due violente mosse.
M’ama.
Non m’ama.
Non l’amava, no, perché era morto e non poteva più amare nessuno. Ne era sicura.
Passando le mani in grandi forme concentriche fece razzia di tutte le margherite che la circondavano, sradicandole e poi abbandonando i piccoli corpi divelti a morire. Si alzò e ripeté lo stesso gesto in un altro punto e poi un altro ancora, finché attorno a lei, per metri, non vi furono che fiori recisi, erba e nera terra umida.
Ginny si guardò le mani, senza vederle veramente. Qualcosa nel retro della sua mente le disse che erano verdi e nere, che non andava bene, che non potevano essere tanto sporche, che doveva lavarle.
Sciacquati quelle sudice dita, Ginevra, sciacquale… A Harry non piaceresti così sporca…
Le parve di sentire una vocina petulante provenire da un punto indefinito alla sua destra. Si voltò ma non c’era nessuno. La voce era solo nella sua mente.
Eppure, reale o meno, aveva ragione, doveva farlo, doveva lavarsi.
Si alzò e s’incamminò verso il lago. Affondò con le ginocchia nella spessa melma verdastra, mentre si piegava per affondare le mani e tutte le braccia nell’acqua scura. Le foglie affilate dei giunchi le graffiarono la faccia.
Le sue dita sfiorarono qualche viscida alga e una qualche creatura marina le scivolò accanto ai polsi. Ginny non fece caso a niente. Continuò a lavarsi le mani, incessantemente, per ore, mentre al castello la battaglia infuriava, Harry faceva la sua grande ricomparsa e Voldemort veniva sconfitto.
Molly Weasley trovò sua figlia ore dopo, ancora lì, distesa nel fango che piangeva, parlando da sola, e si grattava convulsamente le mani ormai rosse e graffiate, mentre un paio di sanguisughe le succhiavano pacatamente il sangue da un polso.
 

 
~***~

 
This morning you wake,
a sunray hits your face
smeared makeup as we lay
in the wake of destruction
 
Harry entrò in camera di Ginny dopo aver bussato e non aver ottenuto risposta.
La vide, seduta su di una panca di legno che correva per tutta la lunghezza di un’ampia finestra esposta a est. Intorno a lei c’erano decine di fogli di quaderno scarabocchiati, disegni di bouquet, serie di nomi, deliranti liste di invitati a nozze appena compilate tra cui figuravano Fred, Tonks e Lupin tra tanti altri defunti. Ginny indossava una leggera camicia da notte in raso, vistosamente macchiata di rosso e di verde. Gli stessi colori apparivano sul viso della ragazza in un trucco scomposto che sembrava essere stato fatto in fretta e poi dimenticato sul volto per almeno una notte intera.
Avvolta dalla luce calda del sole mattutino che si alzava, Ginny era intenta a schiacciare ad una ad una, con cura meticolosa, le formiche che si intrufolavano da una fessura fra due travi.  
Harry si avvicinò lentamente, come gli avevano insegnato a fare i medimaghi diversi anni prima, quando Ginny era stata dimessa dal San Mungo come caso di paziente affetta da depressione cronica e psicosi maniacali. Era stato erroneamente ipotizzato che la ragazza avesse subito dei cruciatus durante la battaglia e ne fosse uscita psicologicamente compromessa. Nessun medico avrebbe immaginato che un semplice cuore infranto potesse causare tanti danni.
“Ginny? Sono io, Harry.” – la salutò il giovane, cercando di suonare il più naturale possibile.
Lei inizialmente non dette segno di averlo sentito, poi, non appena lui le si avvicinò ancora di un passo, iniziò a gridare, tappandosi le orecchie con le dita, nere di piccoli corpi di formica spiaccicati.
“Va via! Fantasma maledetto, lasciami in pace! Via! Via! Via!” – urlava la giovane donna, in lacrime, guardando Harry come se fosse un demonio.
Il giovane si ritirò mestamente, tirandosi dietro la porta, dietro cui Molly lo aspettava con aria rassegnata.
“Stavolta non ti ha riconosciuto, vero? Povero caro, mi dispiace, ma non darti la colpa, da stamattina non ha avuto una bella giornata.”
Harry scosse il capo.
“Non mi ha mai riconosciuto, ancora. Continua a credere che io sia il mio fantasma.”
Da anni, da quando quel giorno di maggio qualcosa in lei si era spezzato, Ginny continuava ad essere l’ombra di se stessa, chiusa in un silenzio ostile come quello della vecchia bambola che aveva scagliato a terra anni prima. Alcune sere si vestiva, si truccava come quando aveva sedici anni, disegnava il proprio abito di nozze e lo mostrava orgogliosamente alla madre, ma cinque minuti dopo Molly la trovava riversa tra le lenzuola, col mascara che le colava lungo le guance, mentre singhiozzava “Morto… lui è morto… Stupida, stupida Ginny…”
Ormai era impossibile portarla fuori di casa, talvolta era persino difficile farla mangiare o lavare. Harry avrebbe voluto portarla a vivere con sé, prendersene cura, ma lei rifiutava persino l’idea che lui potesse essere vivo. Così era Molly a prendersi cura della sua bambina e Harry continuava a tornare a trovarla, da anni, portandole quelli che erano una volta i suoi dolci preferiti, mostrandole vecchie foto, offrendole bouquet dei suoi amati fiori selvatici come quello che aveva scordato quel giorno. Sperava di far scattare qualcosa, di risvegliare quella giovane donna di un tempo che giaceva ora sotto una maschera di trucco disfatto, all’apice dell’autodistruzione. Ma i suoi tentativi fallivano sempre miseramente e Harry ormai cominciava a temere che la ragazza che troppo tardi aveva iniziato ad amare fosse persa per sempre e che lui avesse mancato la più grande occasione di felicità mai avuta.
Si smaterializzò a casa sua poco dopo. Per prima cosa si tolse la giacca, sotto cui si sentiva soffocare, poi andò a controllare la cornacchia ferita.
Era morta.
La sua minuscola testa scura giaceva inerme sul bordo del piattino ormai quasi privo d’acqua ma imbrattato del sangue colato dall’ala rotta.
“Neanche te ho saputo salvare.” – mormorò Harry, quasi con disgusto verso se stesso.
Appoggiò il coperchio sulla scatola in cui giaceva la bestiola, ripromettendosi di seppellirla il giorno stesso. Avrebbe voluto seppellire tante altre cose, come il proprio dolore, il proprio rancore, la paura di non poter più avere la Ginny di un tempo.
“Devi solo continuare a sperare, Harry. Continuare a provare. Prima o poi Ginny ce la farà.” – si disse.
Ginny non era morta e lui sperava solo di amarla abbastanza da poterla riportare indietro, farle indossare l’abito che mille volte aveva disegnato, vederla camminare verso l’altare con in mano un bouquet di fiori selvatici, dare ai loro figli i primi nomi sulla lista da lei scarabocchiata su un quaderno rosa decorato da calderoni argentati: James, Sirius, Albus, Lily, Luna…
No, Harry non avrebbe mollato, non avrebbe rinunciato al futuro che poteva avere con lei.
Sorridendo mestamente, si diresse in cucina, dove un mazzo di fiori di campo giaceva in già evidente stato di appassimento. Il giovane uomo afferrò la carta plastificata che lo rivestiva e scaraventò l’intero mazzo nella pattumiera.
Guardò a lungo il mazzo che si afflosciava e alcuni piccoli fiori secchi che si sgretolavano; su tutti troneggiava un grosso ciuffo di achillea millefoglie che ancora una volta aveva fallito nel suo compito di curare un cuore infranto.
“Prima o poi,” – si ripeteva intanto Harry, – “prima o poi.”
 
 
 
~The End
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
NdA. Questa storia ha partecipato a due contest, arrivando seconda a entrambi.
Forse è una What if, o forse no. Ho voluto lasciare un briciolo di speranza alla fine di questa storia triste perché vorrei lasciare il dubbio che forse Ginny possa riprendersi. Magari questa non risulta altro che una breve parentesi di vita, poi lei ritrova la ragione e tutto va avanti come nell’epilogo “19 years later” della Rowling. Why not?
Spero, comunque, che questa visione tragica non vi sembri troppo estrema. So che ho un po’ tirato al limite il personaggio di Ginny, ma la volevo così.
La canzone citata nell’ultima parte è “Love the Way You Lie” di Rihanna feat. Eminem ed era uno dei prompt del concorso per cui la storia è stata scritta.
Ultima nota, il titolo in inglese manca volutamente dell'ausiliare do. La domanda ha un tono informale, come una specie di commento a mezzo tra affermazione e domanda e suona molto meglio in questo modo che con la forma corretta "Do you see the cracks...". Quindi la voglio in questo modo, non mi scrivete che ho sbagliato. 
MmeBovary.





  
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