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Autore: margheritanikolaevna    08/12/2012    10 recensioni
Dal capitolo terzo: " “Ascoltami” disse Stella, con voce improvvisamente ferma “C’è una cosa che devi sapere: io non sono chi pensi che sia. Non sono la persona che credi di conoscere”.
La poliziotta era consapevole che un solo gesto avrebbe persuaso Mac più di mille parole, che lui avrebbe tenacemente bollato come sciocche credenze popolari, impossibili da credere: per questo, lesta come un fulmine s’impossessò della pistola che il collega teneva alla cintola e prima che lui - interdetto da quel gesto inaspettato - riuscisse a muovere un muscolo puntò l’arma verso il proprio petto ed esplose un colpo".
Racconto primo classificato al Goth Contest, indetto da CarmillaLilith su efp
Questo è il link: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10338285
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mac Taylor
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Grazie a coloro che hanno iniziato a leggere questo racconto; a meiousetsuna, Lubylover, Avah, al fantastico Magic Mike e ai suoi addominali, a CarmillaLilith e a celtics per le loro parole così gentili. Spero che questo capitolo, più tipicamente CSI, vi piaccia.
La location e alcune battute, come quella iniziale, sono riprese dal fumetto di CSI NY "Delitto di sangue".
Buona lettura!
 
 
 
 

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 Capitolo primo
 
Las Vegas sarà pure la “città senza orologi”, ma New York è quella che non dorme mai! Puoi ordinare sushi alle quattro del mattino, sbronzarti alle cinque e comprare sesso o droga a ogni ora del giorno e della notte…”
Stella spense la radio, facendo tacere d’improvviso la voce gracchiante dello speaker, e si passò una mano sul viso; sospirò profondamente e dovette chiamare a raccolta tutte le scarse energie che la nottataccia appena trascorsa le aveva lasciato in corpo per aprire lo sportello e scendere dall’auto. Era tornata a casa tardissimo, dopo aver accompagnato Mac in ospedale ed essersi sincerata che non avesse subito nessuna grave lesione, e come se non bastasse aveva anche dovuto stilare il rapporto sull’aggressione che lei e il collega avevano subito.
Però non era stata la mancanza di sonno a lasciarla così stravolta e stordita - giacché a quella si era abituata già da molto tempo - bensì la visione che l’aveva visitata verso l’alba e il cui solo ricordo bastava, ancora adesso che i terrori della notte si erano dissolti alla luce piena del giorno, per mozzarle il respiro e renderle terribilmente difficile concentrarsi sul lavoro che l’attendeva.
Avrebbe anche dovuto inventarsi una storia valida per spiegare come fosse riuscita a  mettere in fuga quei bastardi; certo, per fortuna poteva contare sul fatto che Mac non avesse visto nulla e che nessuno degli aggressori avrebbe mai raccontato la verità. Del resto, se pure l’avessero fatto, chi avrebbe mai prestato fede alle chiacchiere di tre balordi strafatti di crack?
Già - considerò Stella, sforzandosi di reprimere ancora una volta l’ansia atroce che l’attanagliava dalla sera prima, schiacciandola come sotto il peso di un oscuro presagio di sventura - in fondo poteva sperare che la cosa passasse sotto silenzio e fosse presto dimenticata. Sarebbe tornata alla sua vita consueta di instancabile detective della Scientifica di New York e ciò che era accaduto sarebbe stato archiviato come una brutta avventura senza gravi conseguenze.
E poi cosa c’era di meglio, per tornare alla normalità, di una chiamata urgente sulla prima scena del crimine della giornata?
Stella prese la valigetta col suo kit, chiuse l’auto e raggiunse a passo svelto Don Flack, il quale la stava aspettando per accompagnarla sul luogo dove, alle prime luci dell’alba, era stato trovato il cadavere di una giovane donna brutalmente assassinata.
Il collega le rivolse un sorriso e, posandole affettuosamente una mano sul braccio, le domandò in tono preoccupato: “Stella, come ti senti? Abbiamo saputo cosa vi è successo stanotte: certo che tu e Mac avete avuto fortuna, sarebbe potuta andare molto peggio!”.
La donna si strinse nelle spalle, ma ricambiò il sorriso del poliziotto.
“Anche lui è già tornato al lavoro come se nulla fosse: credo che nemmeno un incontro con Jack lo squartatore lo convincerebbe a prendersi una giornata di riposo!” continuò Don.
“È vero” rispose lei, senza smettere di camminare “evidentemente quei tre erano drogati o ubriachi, perché è bastato che mi qualificassi e tirassi fuori la pistola per farli scappare a gambe levate”.
“La terribile detective Stella Bonasera” la canzonò l’altro, socchiudendo gli occhi color del mare “Il terrore dei criminali di New York City: molto meglio per me essere dalla tua parte…”.
Stella sorrise, iniziando finalmente a rilassarsi e ripetendo ancora una volta a se stessa che restare in quel posto, insieme a quelle persone che per lei rappresentavano quasi una famiglia, era stata la decisione migliore della sua vita.
  
***
 
“Chi l’ha trovata?” chiese Mac Taylor al poliziotto in uniforme blu, il quale lesse la risposta dal taccuino dove aveva annotato tutti i dettagli.
Il detective era accovacciato accanto al corpo di una ragazza di circa venti anni: stava distesa sul terreno intriso di sangue, le braccia e le gambe divaricate in una posa scomposta, i vestiti a brandelli che rivelavano la brutalità di un’aggressione incredibilmente feroce, gli occhi spalancati e ciechi nel volto già livido.
Dal corpo senza vita esalava un odore ferroso di sangue rappreso che, mescolato con quello della sudicia terra smossa e dell’erba calpestata, avrebbe fatto rivoltare lo stomaco a chiunque non fosse abituato ad avere a che fare quotidianamente con la morte.
Ma la cosa più terribile erano le ferite: profondi segni di graffi e morsi le ricoprivano la schiena, il busto e il viso, mentre uno squarcio netto alla gola lasciava pochi dubbi su quale fosse stata la causa della morte.  Tutto intorno al cadavere i cespugli e l’erba apparivano calpestati, mentre sul terreno umido di brina si scorgevano molte impronte, con ogni probabilità quelle dei primi soccorritori.
“Una coppia che faceva jogging nel parco all’alba” rispose il giovane poliziotto, cercando di non guardare il corpo se proprio non era strettamente indispensabile.
“Dove sono adesso?” chiese il tenente, raddrizzandosi e levando gli occhi al cielo.
Appariva vigile e concentrato come sempre e l’unica traccia dell’aggressione della notte prima era una vistosa medicazione che gli copriva la nuca, sporgendo dal colletto del cappotto grigio di panno.
Trasse un sospiro e si guardò intorno: la sua attenzione era stata fino a quel momento tutta dedicata alla ragazza morta e un brivido lo attraversò nell’istante in cui si rese conto che si trovavano all’interno dello Stuyvesant Square Park, esattamente dalla parte opposta rispetto al lato dove lui e Stella si erano fermati la notte prima e dove erano stati aggrediti.
Era un poliziotto troppo esperto per credere alle coincidenze, ma allo stesso tempo gli sembrava del tutto inverosimile che i due episodi potessero essere in qualche modo collegati.
“Ehi, Mac, quei due sono piuttosto scossi” la voce di Don Flack, che nel frattempo lo aveva raggiunto, lo strappò da quelle considerazioni, costringendolo a focalizzare di nuovo le sue capacità di analisi sull’omicidio appena avvenuto “Li ho fatti allontanare perché non vedessero; dicono di non aver toccato niente e di avere chiamato subito il 911 e la polizia”.
“Stella sta parlando con loro in questo momento. Non abbiamo trovato documenti e non ha il portafogli” aggiunse il detective “Però se si è trattato di una rapina è senza dubbio la più feroce che io abbia mai visto!”.
Mac annuì lentamente.
“Secondo te è stato un animale a farlo?” chiese Don, fissando con aperto disgusto il corpo.
“Senza dubbio” ribatté l’altro “Ora resta da chiarire se si è trattato di un animale a due o a quattro zampe…”.
“Abiti a brandelli, lacerazioni al viso e alle braccia e carotide perforata, con conseguenti getti di sangue arterioso sui cespugli e sul terreno circostante” considerò Lindsay Monroe, china sul cadavere.
Si avvicinò di più e rigirò le mani della morta tra le sue, infilate nei guanti bianchi di lattice “…eppure sulle mani non ci sono né sangue, né ferite da difesa”.
“Già, questo è strano” fece il tenente, in piedi alle spalle della collega “la vittima ha subito una brutale aggressione che è durata di sicuro alcuni minuti eppure, nonostante questo, non abbiamo rinvenuto nessuna evidente ferita da difesa. Controlleremo i residui sotto le unghie, ma non credo che ci sarà granché”.
“Forse vuol dire che tutto è avvenuto troppo rapidamente o con troppa energia perché lei potesse tentare una reazione?” chiese Danny Messer, tirando fuori dal suo kit l’occorrente per prelevare campioni del suolo e della vegetazione.
Mac scosse lentamente il capo.
“Non mi sento di dirlo, per adesso” rispose con voce ferma “L’unica cosa chiara al momento è che, mancando segni di trascinamento o impronte evidenti, è probabile che sia morta qui”.
“In effetti c’è del sangue sul terreno” disse Don.
“Sì, ma a giudicare dalle ferite che le sono state inferte - e in particolare da quelle alla gola - dovrebbe essercene una quantità molto maggiore” osservò Lindsay.
“Dobbiamo ancora interrogare i due che hanno trovato il corpo” concluse Mac “Don, occupatene tu: da’ una mano a Stella, ascoltateli e verificate se ciò che dicono può portarci a considerare qualche elemento che non ci è balzato subito all’occhio”.
Mentre il poliziotto si allontanava, Danny Messer lanciò uno sguardo angosciato alla moglie e mormorò con voce appena udibile: “Che razza di bastardo figlio di puttana può avere fatto una cosa del genere?”.
Lindsay si strinse al suo fianco e le parole le uscirono di getto, senza controllo: “Mio Dio, era così giovane, la sua famiglia sarà devastata”.
La voce di Mac li costrinse a riprendere il lavoro interrotto: “Concentriamoci solo sulle prove. Danny, tu esamina il perimetro. Io e Lindsay ci occuperemo del corpo”.
“Oh, ecco Stella!” esclamò la giovane detective, tirandosi su per andarle incontro.
La poliziotta avanzò verso gli amici con passo sicuro e un leggero sorriso dipinto sul viso, ma non appena scorse, da dietro le spalle di Mac, il cadavere dilaniato impallidì visibilmente e si bloccò, irrigidendosi all’istante per il terrore.
Il tenente notò il turbamento della collega e le si avvicinò.
“Stella, tutto bene? Hai un’aria strana…” le chiese, osservandola con curiosità e preoccupazione.
Dalla notte prima, quando lei lo aveva accompagnato in ospedale e poi a casa, dopo essere stata rassicurata dai medici che non avesse riportato una commozione cerebrale, non avevano avuto modo di parlare di ciò che era successo. Si era ripromesso di farlo quella mattina in ufficio, giacché c’erano molte cose che non riusciva a ricordare, ma poi c’era stata quell’emergenza che gli aveva impedito di trovarsi a quattr’occhi con l’amica e ringraziarla per avergli - almeno sulla base di ciò che aveva capito - salvato la vita.
“Io…sì” rispose lei, senza riuscire a staccare gli occhi dal corpo e insieme con un’espressione di inesprimibile angoscia dipinta sul volto. Se non si fosse trattato della donna con cui aveva lavorato fianco a fianco ogni giorno negli ultimi dieci anni, esplorando gli abissi più profondi della crudeltà umana, della poliziotta il cui coraggio non avrebbe mai messo in discussione, Mac avrebbe proprio pensato che aveva paura o che la vista del cadavere la disgustava. 
“Non è nulla, è che stanotte ho dormito poco e non mi sento bene”.
Mac la fissò ancora, incapace di nascondere lo stupore per l’insolito atteggiamento della collega e insieme dicendo a se stesso che sì, effettivamente dopo ciò che aveva passato solo poche ore prima era più che comprensibile che fosse ancora scossa. Tutto sommato era una follia che non si fosse presa nemmeno lei un giorno di riposo…
L’uomo sciolse in un lieve sorriso la tensione che li imprigionava e, afferrandola delicatamente per le spalle, le disse: “Facciamo una cosa: tornatene a casa e cerca di riposare, ci vediamo domattina in ufficio. Qui possiamo cavarcela anche senza di te”.
Si sarebbe aspettato qualche resistenza, conoscendo lo stakanovismo della collega, e invece rimase sorpreso quando la vide annuire debolmente e fare subito due passi indietro, incapace di celare l’orrore che le provocava la vista del corpo della ragazza.
“Del resto” continuò Mac, cercando di prendere tempo per studiare le reazioni della donna “darti un giorno libero è il minimo che io possa fare, dopo che stanotte mi hai praticamente salvato”.
“S-sì, va bene” mormorò lei abbassando lo sguardo e arretrando ancora “Ci vediamo domani”.
Non aggiunse altro e si allontanò velocemente come se stesse scappando da una terribile minaccia; l’uomo rimase a guardarla andare via ed ebbe l’impressione che Stella avesse dovuto trattenersi per non mettersi a correre.
Mac Taylor non era uomo facile alla sorpresa - ne aveva viste troppe perché qualcosa potesse ancora sbalordirlo -  eppure in quel momento non poté che notare che Stella Bonasera gli era apparsa, per la prima volta dopo tanti anni, come un’estranea.
Deglutì, serrando le mascelle, e poi si volse verso Danny Messer.
“A te le foto” disse con voce atona. 
Mentre Lindsay Monroe usava lampade con spettro diverso per esaminare il terreno circostante alla ricerca di tracce biologiche e non, suo marito procedeva - inquadratura dopo inquadratura - a prendere primi piani delle ferite, allontanandosi poi di qualche metro per foto panoramiche di tutta la scena del crimine.
Nel frattempo Mac osservava le unghie della vittima, prelevando con un bastoncino dei campioni e riponendoli poi negli appositi contenitori sterili che avrebbe passato al laboratorio per tutte le analisi chimiche del caso.
A un tratto qualcosa attirò la sua attenzione: armato di pinzetta, si chinò di nuovo sul corpo e un istante dopo sollevò verso la luce del sole un lungo pelo scuro.
“Ho trovato un filamento grigio scuro” disse a Lindsay, che gli aveva rivolto un’occhiata interrogativa “non compatibile con i capelli della vittima”.
 
***
 
Don Flack era abituato a condurre interrogatori; lo faceva ormai da anni e anzi poteva andare fiero di come riusciva a cavare fuori informazioni utili anche ai più incalliti criminali, alternando battute sarcastiche e osservazioni pungenti.
Quando osservò le facce terrorizzate dei due giovani che avevano trovato il cadavere di Stuyvesant Park, tuttavia, non ebbe bisogno di riflettere a lungo per rendersi conto che tutto il suo repertorio di abile investigatore quella volta sarebbe stato inutile: i due, infatti, erano palesemente sconvolti e sembravano chiedere solo di concludere il più presto possibile l’interrogatorio per potersene tornare a casa e cercare di dimenticare ciò che avevano visto. 
“Io sono Mark Greene” disse il giovanotto, che aveva ancora addosso la tuta da ginnastica sudaticcia “E questa è la mia fidanzata, Elizabeth Corday” .
La ragazza rabbrividì nel leggero completo da jogging nero e mormorò, gli occhi dilatati per lo shock: “È stato terribile, io…”.
Mark continuò, sempre tenendo stretta la giovane: “Mi dispiace, forse avremmo dovuto fermarci e vedere se quella ragazza aveva bisogno di aiuto, invece siamo scappati subito come due bambini in preda al panico”.
Il poliziotto sospirò e rispose: “Non c’è nulla di cui vergognarsi, voi vi siete imbattuti in una scena orribile. Lo sarebbe stata anche per me, vi assicuro”.
“E poi, purtroppo, da quel che abbiamo visto per quella poveretta non c’era più nulla da fare quando l’avete trovata”.
“Cosa ci facevate a quell’ora lì, in una giornata fredda come questa?” chiese, considerato che nulla al mondo l’avrebbe mai persuaso - neppure per tutto l’oro del mondo - a mettere il naso fuori di casa all’alba con un tempo del genere per andare a consumarsi il fiato in mezzo alla nebbia e all’umidità di un parco pubblico.
“Ecco” rispose il ragazzo “io lavoro in una società di assicurazioni e lei è la segretaria di un avvocato: passiamo tutta la giornata in ufficio e questa di fare una corsa al mattino presto è una delle poche occasioni per stare all’aria aperta e trascorrere del tempo insieme. Di solito attraversiamo il parco e poi tagliamo per la Quattordicesima”.
“Una bella scarpinata!” ribatté il detective “E lo fate ogni mattina?”.
“Sì” fece a quel punto Elizabeth “tranne quando nevica”.
“Quindi avete imboccato il sentiero che attraversa il parco” disse Don “e poi cos’è accaduto?”.
“Stavamo correndo da circa un quarto d’ora” rispose la ragazza con voce tremante “era tutto tranquillo: a quell’ora non c’è quasi nessuno in giro e noi ridevamo, scherzavamo, come al solito”.
“Poi a un tratto abbiamo visto una sagoma scura muoversi tra gli alberi e lui ha detto: “guarda lì, deve essere una coppietta in cerca di intimità!”.
“A quest’ora e con questo tempo?” ho risposto io. Ci siamo avvicinati, incuriositi, abbiamo guardato meglio e…”.
A quel punto la giovane s’interruppe, scossa da un ricordo ancora troppo fresco e traumatico per essere rievocato, e si portò le mani al viso.
“Le sue gambe, mio Dio!” gemette.
“Non abbiamo toccato niente” intervenne il fidanzato, stringendo la ragazza ancora di più a sé “E all’improvviso abbiamo visto un’ombra scura provenire da quella direzione”. Indicò verso il lato nord-ovest del parco.
“Sembrava, non so, un cane” aggiunse meditabondo.
“No, era troppo grosso per essere un cane!” gridò Elizabeth, palesemente sconvolta “E soprattutto stava eretto come… come un uomo!”.
“Se quella cosa ha ucciso la ragazza” disse, levando verso il fidanzato il viso rigato di lacrime “Vuoi spiegarmi che razza di cane può mai fare una cosa del genere?”.
 

Luby, c'era un regalino per te, l'hai colto?
  
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