Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: sfiorisci    08/12/2012    8 recensioni
La chiamavano Fiamma perchè era vivace come il fuoco appena acceso. La chiamavano Fiamma perchè aveva i capelli rossi. La chiamavano Fiamma e lei non conosceva il suo vero nome.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

C’era una volta Fiamma

 
Cammino velocemente fra le vie trafficate della città. Attraverso la carreggiata ad un incrocio correndo con il cappotto slacciato, faccio ancora un altro po’ di strada e sono quasi arrivata a destinazione. Premo ripetute volte il pulsante per far diventare verde il semaforo di un attraversamento pedonale. Dove ho la testa in questo periodo? Se non avessi dimenticato la borsa a casa, ora avrei potuto pagare un taxi, sarei arrivata molto prima… guardo frettolosamente l’ora: le undici e mezzo, ecco, ho la certezza che mi ammazzerà; già si lamenta quando arrivo in orario, figuriamoci quando sono in ritardo di ben trenta minuti…
Finalmente il semaforo diventa verde e attraverso la strada per arrivare dentro la grande casa. La donna giovane che si trova all’ingresso mi sorride e mi dice accompagnandomi verso la sua stanza:
«Meno male che è venuta, signorina. Non sapeva tutte le storie che faceva lui senza di lei…» Ecco, me lo immaginavo, in fondo lui è fatto così, è più capriccioso di un bambino di tre anni. Entro nella sua stanza e lo trovo seduto sul letto con la faccia imbronciata e le braccia incrociate davanti al petto. Appena mi vede gira lo sguardo dall’altra parte e fa la sua solita faccia offesa, sospiro e mi siedo su una sedia accanto al suo letto.
«Sei arrivata, finalmente, pensavo non ti importasse più di me.» Cerca di fare la voce arrabbiata, ma non ci riesce, è felice di vedermi e alla fine gli esce pure un sorriso.
«Stai sorridendo, significa che mi hai perdonato. Sai che non volevo venire in ritardo, solo che ho dimenticato la borsa a casa e non avevo i soldi per prendere un taxi oppure l’autobus.» Gli dico mentre appoggio delicatamente la mia mano sulla sua.
«Ti ho perdonata?» sbuffa lui «Non penso proprio, ci vuole ben altro per farsi perdonare da uno come me.» Sospiro rumorosamente, certo che è prorio fastidioso.
«Che cosa vuoi che io faccia, papà?»
«Mi devi raccontare una storia» mi risponde lui serio. Spero che stia scherzando, quale genitore vorrebbe farsi raccontare una storia dalla propria figlia in una casa di riposo?
«Sei serio? Vuoi davvero che io ti racconti una storia?» gli chiedo
«Certo che sì! Sei mia figlia, Linda, e questa non mi sembra una richiesta tanto assurda, no? Sono solo un povero vecchio che sta in una vecchia casa di riposo… non mi sembra una richiesta eccessiva da fare.» Ecco, il vecchio ci sapeva fare ancora. Mi ricordo che fin da quando ero piccola lui usava questa psicologia per ottenere ciò che voleva: faceva venire agli altri un sacco di sensi di colpa.
«Guarda che io ti avevo detto ci venire a vivere a casa con me Marco e Luca, ma tu non hai accettato, quindi non dare la colpa a me» lui mi guarda con i suoi occhi verdi. Un tempo mio padre era un uomo meraviglioso: aveva i capelli rossi ricci e due grandi occhi verdi, faceva impazzire tutte le donne, poi con il passare degli anni i suoi capelli diventarono sempre di meno e si tinsero di bianco, mentre i suoi occhi si spegnevano.
«Ora non voglio parlare di questo. Ti prego raccontami una storia, una sola. Non una di quelle classiche, ma una storia dolce, triste e allo stesso tempo anche allegra, per favore, fammi felice.» Non lo avevo mai sentito parlare in quel modo.
«Guarda che è già tanto se conosco qualche storia classica, figuriamoci se devo pure inventarmela… sai che non ho molta fantasia!» gli dico.
«Avanti, scommetto che una storia così la conosci. Può essere anche una cosa accaduta veramente… basta che abbia le caratteristiche che ti ho detto prima. Su, Linda, ho molta fiducia in te, dei miei figli sei quella che mi assomiglia più di tutti, scommetto che puoi capire le richieste di un vecchio come me.» Nonostante sia vero che sono quella che gli assomiglia di più sia caratterialmente che di aspetto fisico, non riesco proprio a comprenderlo.
«No, in realtà non ci riesco, papà.» Il suo sguardo si spegne e fissa il letto dove è seduto.
«Sai, pensavo che tu avessi fantasia, che tu fossi capace di sorprendermi: ricordo che quando eri piccola tutti ti chiamavano in un modo strano per la tua vivacità, ma forse ora non te ne ricordi più.» Invece me lo ricordo eccome. Quel nome che mi avevano dato era una parte di me, una parte importante, forse a più importante in assoluto.
«Va bene, avrai la tua storia» lo accontento alla fine. Vederlo così inerme mi fa male, specialmente se penso che è stato lui ad insegnarmi tutto, ad essere sempre la mia guida, la mia fonte di ispirazione… il mio tutto.
«Fia…»
«No!» mi interrompe bruscamente lui.
«No cosa?» gli chiedo.
«Tutte le storie cominciano con “C’era una volta.”» mi dice lui.
«Beh, questa è una storia un po’ strana. Non comincia con c’era una volta ed è narrata in prima persona.»
«Cosa? No! Voglio una storia per bene, io!»
«Senti, questa è la mia storia, o così oppure non se ne fa nulla.» gli dico con aria di sfida, non può mica averle vinte tutte!
«Va bene, hai vinto tu, ma dimmi almeno il titolo di questa storia.» ci rifletto un attimo. Che nome posso dargli? Sicuramente non uno troppo complicato, ma nemmeno un troppo semplice, altrimenti a papà non piacerebbe.
«C’era una volta Fiamma.» dico infine. Lui, sentendo quel nome spalanca gli occhi e balbettando mi dice di iniziare a raccontare.


 
«Fiamma, Fiamma!» mi sentii chiamare «Fiamma, dove diavolo ti sei cacciata?» era la voce di mio padre. Ero nel luogo in cui lavorava lui, un grosso stanzone con molte scrivanie sulle quali era posto un computer e un telefono; nella stanza non c’erano donne, ma era piena di uomini che strillavano e che si passavano informazioni fra di loro.
«Eccomi qui, papà.» gli dissi comparendogli davanti.
«Quante volte ti ho detto che non ti devi allontanare dalla mia scrivania? Quante?» mio padre non si arrabbiava mai, neanche quando cercava di fare il padre responsabile.
«Non è colpa mia, ma Barbie e Ken volevano fare la luna di miele vicino alla scrivania di quel signore grasso.» dissi indicando un uomo piuttosto in carne dalla parte opposta della stanza, vicino alla finestra «Là c’è la vista panoramica e loro volevano una luna di miele romantica» dissi mostrandogli le due Barbie che avevo in mano. Dato che non avevamo molti soldi erano le uniche due che avevo perciò quella che mi sembrava più brutta faceva il maschio: le avevo tagliato tutti i capelli e scarabocchiato la faccia.
«Tu sei tutta matta, sai? Comunque davvero, non allontanarti mai più che se viene qui tua nonna e non ti trova vicino a me comincia a sgridarmi come se fossi di nuovo tornato piccolo. Sai, è una gran palla, tua nonna.» mi disse mentre con la sua mano mi accarezzava dolcemente la testa spettinando i miei indomabili ricci rossi. Era anche quello uno dei motivi per cui mi chiamavano Fiamma: avevo i capelli rosso fuoco  il viso tempestato di lentiggini. Per non parlare del fatto che non stavo ferma nemmeno un minuto, correvo, saltavo, giocavo, ridevo, scherzavo… ero vivace proprio come la fiamma di un fuoco appena accesso.
«Hai visto Marco, ultimamente?» mi chiese mio padre.
«No, è una settimana che non lo vedo più. L’ultima volta che l’ho visto mi ha detto che cercava un posto tranquillo per comporre musica.» dissi facendo spallucce. Marco era mio fratello maggiore, aveva dodici anni più di me dato che era il figlio della prima moglie di mio padre ed era da poco diventato maggiorenne credeva di poter fare tutto ciò che voleva.
«Ah, quel ragazzo! Ispirazione, come no! Sicuro sarà andato a cercare qualche bella ragazza… guarda, Fiamma, ne sono più che sicuro.»
«Di sicuro avrà preso dal padre.» dissi mentre continuavo a pettinare la mia bambola.
«Fiamma, ma cosa dici?» mi chiese lui mentre mi guardava incredulo.
«Dai, papà, me l’hai detto tu che quando eri giovane ogni giorno avevi una ragazza diversa, che ti stancavi subito delle tue fidanzate e che le tradivi spesso, poi non ti lamentare se Marco è diventato come te.» lui mi guardò un attimo intensamente. Molte volte mi chiesi perché non potevo avere gli occhi verdi come i suoi, non mi piacevano i miei marroni.
«Cosa c’è qui? Un tenero momento padre-figlia? Non è che ti vorrei interrompere per cose più importanti, tipo il tuo lavoro.» disse una voce acida alle spalle di papà. Era il signor Mitizzi, il capo di papà. Era un uomo stupido e che si scaldava facilmente durante le liti, per questo era da tutti chiamato “La miccia”.
«Che c’è, hai finito gli uomini da rimproverare e per questo lo stai facendo con me? Sai che non devi mai provocarmi, questa stupida agenzia fa avanti solo grazie a me.» gli rispose mio padre a tono. Papà lavorava in un’agenzia che programmava le scommesse. Davano le quote, facevano le schedine, conoscevano gli aggiornamenti su tutti gli sport e creavano spesso sistemi vincenti. Fornivano una specie di consulenza per i giocatori d’azzardo, era una lavoro in cui si faticava molto e si guadagnava poco, ma papà diceva che farlo lo riempiva di soddisfazione.
Mitizzi non disse nulla, si limitò a lanciare un’occhiataccia di fuoco a papà e poi andò a sgridare qualche altro dipendente. Alla fine del turno di lavoro di papà tornammo a casa. Abitavamo su un piccolo appartamento, al secondo piano di un condomino che puzzava di muffa, nonostante la nostra casa fosse abbastanza accogliente. Cenammo con gli avanzi del giorno precedente e poi papà iniziò a bere. Lo faceva sempre dopo una giornata di lavoro intensa, spesso però si ubriacava un po’ troppo e iniziava a raccontarmi cose non proprio adatte per una bambina di sei anni. Nonostante questo mi faceva sempre ridere, trovavo buffissimo il modo in cui mi raccontava le sue avventure, con tutti i suoi commenti personali.
«Vedo che ancora non sei ubriaco» disse mia nonna entrando in cucina. Era la mamma di papà, ma lo odiava a morte, se possibile più di tutte le ex di papà.
«Qualcosa da ridire?» le chiese lui.
«A volte non capisco come tu possa chiedermi certe cose… Ah, se solo fosse qui la mamma di Fiamma, quella santa donna! E tu che te la sei fatta scappare come un coglione!» gridò lei.
«Nonna, le parolacce non si dicono. Se dici le parolacce vai all’inferno quando muori.» le dissi tranquillamente guardandola negli occhi. Magari mio padre non era una persona eccellente, ma mi aveva insegnato l’educazione di base.
«Tesoro, lo so, ma contro tuo padre non vale.» disse lei accarezzandomi dolcemente il volto con le sue mani rugose. «Contro di lui puoi dire tutto, che tanto qualsiasi cosa tu dica sarà poco.» disse aggiungendo poi altre frasi poco carine sul conto di mio padre. Di solito, quando il papà e la nonna litigavano io prendevo le difese di papà, ma quella sera non avevo voglia, così mi chiusi nella mia camera, mi misi il pigiama, mi lavai i denti e mi misi sotto le coperte. Non avevo sonno, ma volevo che papà e nonna credessero che stessi dormendo, così che sarebbero andati da un’altra parte a litigare. Prima la nonna aveva parlato della mia mamma. La nonna parlava sempre bene della mamma, la chiamava santa donna, dispensatrice di amore, ragazza amorevole e tutti altri nomi simili, ma io non l’avevo mai conosciuta. Papà non mi parlava mai di lei, perché l’argomento lo faceva soffrire: l’unica volta che mi disse qualcosa fu quando era ubriaco; mi disse che lui l’aveva amata da morire e che lei l’aveva lasciato appena dopo ero nata io, perché non si sentiva “libera” con una figlia a carico . Sapevo che il mio vero nome me lo aveva dato lei, anche se tutti ora mi chiamavano Fiamma. Non sapevo nemmeno come mi chiamavo, eppure Fiamma mi piaceva un sacco, mi rispecchiava, rispecchiava la mia anima frenetica.
Il giorno dopo mi svegliai e seduto sul mio letto trovai Marco.
«Marco!» gli dissi abbracciandolo. Noi due eravamo molto legati, lui essendo il fratello maggiore con parecchi anni più di me mi viziava in continuazione.
«Fiamma, come stai?» mi chiese lui. Aveva qualcosa di strano, la sua voce era tesa.
«Io bene. Guarda mi è caduto un dente e papà mi ha dato dei soldi.» gli dissi mostrandogli la finestrella che avevo in bocca.
«Come mai papà ti ha dato dei soldi?»
«Ha detto che i genitori insegnano ai figli che esiste il topino dei denti, ma così lui direbbe una bugia e dato che le bugie insieme alle parolacce ti mandano all’inferno, lui ha preferito dirmi la verità.» dissi guardando Marco tutta soddisfatta. Il suo viso si rabbuiò ancora di più.
«Senti, riguardo a papà… devo dirti una cosa, ma non ti piacerà. Lui è dovuto andare via e per un po’ di tempo non potrai rivederlo più, nessuno potrà vederlo per un po’.» mi disse Marco.
«Come mai?» gli chiesi io «È per caso malato?»
«No, è solo che… vedi è una cosa difficile da spiegare ad una bambina. Ti basti sapere soltanto che lui ti vuole bene, però non potete vedervi. Poi oggi andrai a conoscere tua madre.»
«Cosa?» gli chiesi scioccata.
«Già, so che forse per te non è una bella cosa… però pensa che lei è tua madre, lei ti vuole bene.»
«No!» dissi strillando «Lei non mi vuole bene, papà me ne vuole! Lui è stato con me tutti questi anni, lui mi ha chiamato Fiamma, lui mi ha fatto sempre le trecce come Pippi calze lunghe tutte le mattine, lui mi portava con sé al lavoro per non farmi stare a casa da sola… papà mi vuole tanto bene, mamma no e io non la voglio vedere, non voglio sapere chi è lei! Non mi interessa, io voglio solo il mio papà!» le lacrime iniziarono a scendermi lungo le guancie e Marco mi abbracciò ancora più forte.
«Fiamma, devi capire che tutte le madri del mondo amano le proprie figlie, anche se a volte tutto sembra indicare il contrario.»
«Non mi interessa! Lei mi ha abbandonato! Ha abbandonato me e il mio papà e per questo non voglio vederla, non voglio conoscerla, ti prego Marco, ti supplico, ti scongiuro, portami dal mio papà…» sentivo le lacrime cadermi calde lungo le guance fino ad arrivarmi in bocca: erano salate.
«Fiamma, so che tu sei solo una bambina, però sei intelligente. So che sai che abbiamo problemi di soldi, per questo stare con tua madre aiuterà sia te che tuo padre…»
«Ma per quanto tempo non potrò più vederlo?» chiedo con voce tremante.
«Ecco, questo non ti piacerà. Non potrai vederlo fino alla tua maggiore età, fino a quando non compirai diciotto anni.»
«C-cosa? È uno scherzo, vero? Non dovrò più vedere il mio papà per tutti questi anni? E io ora come farò?»
«Non lo so, piccola Fiamma, ma devi farcela. Se davvero vuoi bene al tuo papà non pensarci, pensa solo a quando sarà bello quando lo rivedrai di nuovo.»
Marco mi aiutò a preparare tutte le mie cose, non che fossero molte, dentro una valigia e poi mi accompagnò con la sua nuova auto dalla mia mamma. Abitava su una piccola villetta a schiera, con soltanto un piano e il tetto fatto di legno. Marco mi disse che mia madre si chiamava Amanda. Appena Amanda mi vide corse verso di me e mi abbracciò forte, ma io non mi mossi. Per me quella era una donna come tante altre, non era la mia mamma. L’orrore più grande di quel giorno fu con statere che lei aveva i miei stessi occhi: marroni e un po’ a mandorla.
«Su, ora vieni dentro, piccola che ti faccio conoscere il resto della famiglia.» mi disse sorridendo felicemente. Probabilmente lei era felice, ma io sentivo di essere triste senza il mio adorato papà.
«Aspetta, vorrei salutare un attimo Marco…» lei mi lasciò andare la mano e io andai dal mio adorato fratellone.
«Marco, per favore non mi lasciare qui.» sussurrai piano al suo orecchio, lui rise.
«Sono sicuro che ti troverai bene lo stesso.» mi disse prendendomi in braccio. La sua barba punse il mio viso, notai una collana appesa sul suo collo, era particolare, aveva molti ciondoli.
«E questa?» gli chiesi prendendo la collana fra le dita.
«Oh, è la mia nuova filosofia di vita. Ci sono tre ciondoli, la croce che rappresenta la fede e la sofferenza, un cuore che rappresenta l’amore e un uccello che rappresenta la libertà. A me bastano queste tre cose per essere felice nella vita.» le sue parole mi colpirono profondamente, anche perché furono le ultime che io gli sentì pronunciare, non lo rividi più fino al mio diciottesimo compleanno.
«Linda, vieni dentro.» disse Amanda, mia madre, chiamandomi con il mio vero nome. Che brutto che era, preferivo di gran lunga Fiamma.
 
«Allora, ti è piaciuta la storia?» chiedo a mio padre una volta terminato il racconto. Lui non risponde, si limita a fissarmi con gli occhi lucidi.
 «Non lo sapevo, non sapevo che tu avevi fatto tutte queste storie per andare da Amanda, non sapevo che ti mancassi e non sapevo nemmeno che mi consideravi un buon padre… pensavo che tu mi considerassi spazzatura, proprio come tua nonna.» disse lui cercando di trattenere le lacrime.
«No, io ti ho sempre voluto bene, sei stato il miglior padre che una figlia possa desiderare, mi hai insegnato tutto… guarda.» gli dico abbassandomi il colletto della maglietta. Sotto ho tatuati tre simboli: una croce, un cuore e un uccello.
«Ora che ho ventitré anni sono libera di venirti a trovare e di fare ciò che voglio, ho avuto la sofferenza della tua separazione da piccola e ora ho il mio più grande amore, te, papà. Secondo Marco ora io sono felice.» dico piangendo e abbracciando mio padre.
«Sapevo che quel ragazzo era in gamba!» dice ridendo. Rido anche io e per un momento mi sento come se fossi tornata bambina, piccola, nelle braccia possenti di mio padre. Mi sento come se fossi tornata Fiamma.
   
 
Leggi le 8 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: sfiorisci