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Autore: Ghevurah    09/12/2012    4 recensioni
Aveva tredici anni a quel tempo. E non sapeva quante volte avesse già ucciso, perché contarle significava ricordare e ricordare non permetteva di vivere. Di mangiare, di dormire, di parlare. A tredici anni la memoria era un lusso che solo gli innocenti potevano permettersi. A tredici anni era un ANBU.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Itachi
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio
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Disclaimer: Naruto e i suoi personaggi appartengono a Masashi Kishimoto. Nessuno scopo di lucro è qui inteso.

Fanfiction scritta per la V sfida della Staffetta in Piscina, indetta da La Piscina di Prompt, avente come prompt "Guarda in basso dove l'ombra s'addensa".












Per dovere, per natura










  Strinse più che poté le fibbie del dou bianco, troppo largo per lui, troppo largo per un qualsiasi bambino. Abbassò lo sguardo sulla maschera che lo fissava vitrea dal pavimento. I tratti stilizzati di un felino, grotteschi e stranamente infantili.
La guardò per qualche istante, poi allungò una mano e la chiuse sul fodero della katana appoggiata al proprio fianco. La sistemò dietro le spalle come aveva visto fare ad altri.
Strinse il fermaglio che gli raccoglieva i capelli e fece scivolare le dita più su, a sfiorare il tessuto del copri-fronte legato attorno alla nuca. Ne sciolse il nodo e se lo sfilò.
Lo tenne fra le mani, così da poter vedere l’incisione sulla piastra metallica. Tutto ciò che rappresentava lo avrebbe portato addosso come una seconda pelle. La katana, il dou, la maschera avevano marchiato nella loro presenza il significato di quel simbolo.
Appoggiò il copri-fronte a terra, accanto alla maschera. La sollevò e l'avvicinò al viso.
Vide la sua sagoma incavata farsi sempre più nera, mentre gli occhi vuoti del felino si congiungevano ai suoi.
Si mise in piedi.
Il dou era ingombrante, la katana sulle spalle pesava e quando voltava lo sguardo a destra e a sinistra, nel suo campo visivo si insinuava uno spicchio dell’interno maschera, spezzando la visione che aveva della stanza. Ma andava bene così.
Sono un ANBU ora, pensò senza orgoglio.


Li fecero inginocchiare sul tatami, l’uno accanto agli altri. Dissero loro di chinare il capo e abbassare lo sguardo.
Con la maschera legata attorno al viso, Itachi avvertiva il soffio tiepido del proprio respiro sulla pelle e la sagoma rigida della katana premergli addosso, contro il fianco scoperto dal dou.
Quando lo shoji s’aprì di scatto, i passi degli uomini che ne varcarono l'ingresso giunsero alle sue orecchie come i battiti di un secondo cuore. Guardò i loro piedi scalzi calpestare le fibre del tatami, guardò il modo in cui le loro forme entravano a contatto con il pavimento. Sapeva che avevano camminato nel sangue, facendosi largo tra corpi e resti d’ogni cosa, ma ora erano lì, senza nulla a testimoniare una simile storia.
Ci fu un colpo di tosse e una voce roca e bassissima s’alzò nel silenzio.
Disse: siete ANBU ora. Perché non c’era altro modo per iniziare il discorso; s'incominciava da quel nome, scandendolo alla stregua di una preghiera, per poi arrivare a tutto il resto: siete la maschera che indossate, le ombre in cui vivete. Traditori del mondo, se vi sarà ordinato. Assassini di assassini, assassini di innocenti, non ne noterete le differenze.
Itachi non poteva vederli, ma oltre le parole sentiva una manciata di sguardi lambirlo come aliti di belve. Erano la morsa del potere che stritola la coscienza.
Aveva tredici anni a quel tempo. E non sapeva quante volte avesse già ucciso, perché contarle significava ricordare e ricordare non permetteva di vivere. Di mangiare, di dormire, di parlare. A tredici anni  la memoria era un lusso che solo gli innocenti potevano permettersi. A tredici anni era un ANBU.


C’era il tavolo imbandito e sua madre di spalle, in cucina, che scottava spiedi di pesce. C’era suo padre con le braccia incrociate al petto e lo sguardo calmo, soddisfatto. C’era suo fratello con le mani intinte nella zuppa di miso che s’agitava e parlava e gli sorrideva. C’era la notte oltre i panelli dello shoji, sembrava crescere a ogni respiro, pronta a divorare il mondo, e Itachi pensava che avrebbe dovuto essere con lei. Perché lui era l'incarnazione di quell' ombra che, impietosa, travolgeva ogni forma di vita.
Se ne stava lì, invece. Travestito da essere umano, contenendo in un vestito di carne e sangue le vere sembianze della propria natura.
Sono fiero di te, Itachi.
La voce di suo padre si elevò al di sopra di ogni altra. Lui fece un cenno col capo, tanto lieve e composto da essere quasi impercettibile.


 







   
 
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