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Autore: fumiko    26/06/2007    4 recensioni
Questo è un semplice racconto. Mi piace definirlo un esercizio di scrittura, niente di più. Infatti non ha una trama precisa, ma parla solo di un determinato momento di una persona di cui neanch'io so il nome. Lo considero comunque un racconto carino e coinvolgente, così ho deciso di proporvelo. Ditemi cosa ne pensate!
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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-Non sono per niente contenta dei tuoi risultati a scuola. E non lo sono neanche i tuoi professori. Sai cosa mi hanno detto oggi?- parlava con tono calmo. Non era da lei. Di solito tornava dai colloqui urlando, strepitando, sbattendo i piedi, lamentandosi per la mia media del sei; ma questa volta era entrata in casa lentamente, richiudendo con cura la porta dietro di sé. Poi mi aveva chiesto, senza alzare lo sguardo dal pavimento, di sedermi al tavolo, per parlarmi di cosa le avessero detto i professori di me.
Ora mi guardava negli occhi in silenzio. Lasciavano trasparire stanchezza, delusione. Apparivano lucidi, così colpiti dalla luce, lievemente arrossati e gonfi. Aspettava forse una risposta? Provai a parlare, ma non riuscii ad emettere alcun suono. Scossi la testa, portai una mano alla fronte.
Quando rialzai lo sguardo lei se ne stava andando senza far rumore, senza dire una parola. La guardai mentre s’allontanava a testa china.
Mi aveva sempre detto che, se solo avessi voluto, avrei potuto fare grandi cose, sia a scuola che nella vita e che avevo ricevuto un “dono”, che in tanti avrebbero voluto e che sempre in tanti avrebbero sfruttato. Ed io ne ero orgogliosa: quando mi confrontavo con altre persone, ad esempio, quelle rimanevano sempre colpite da me, come se avessero trovato qualcosa che non si sarebbero mai aspettati da una semplice liceale. Ed io sorridevo felice pensando a quel fantastico “dono”, che mi rendeva speciale, migliore degli altri. Lo consideravo una parte essenziale di me, un qualcosa che mi caratterizzava e senza il quale non sarei stata me stessa. Ma ora cosa significava il comportamento di mia madre? Aveva d’un tratto perso la voglia di combattere contro di me. Forse perché s’era resa conto che sua figlia non aveva in realtà nulla di speciale, nessun potenziale, nessun futuro, e si sentiva responsabile, capendo d’aver fallito come educatrice, come madre.
Stufa dell’ambiente che mi soffocava presi la giacca e uscii, cominciando a camminare senza una meta, scegliendo le strade meno frequentate, gli angoli più nascosti e bui. Camminando, passavo in rassegna i ricordi. Tra le lacrime dovetti ammettere di essere stata un’ingenua, perché ero solo una ragazza mediocre, che sarebbe diventata prima una donna mediocre ed infine una vecchia mediocre. Ero una fallita, una persona che non avrebbe mai combinato nulla. Lo ero sempre stata, ma solo ora me ne rendevo conto. Forse le espressioni sorprese non erano dovute alla scoperta di qualche virtù non aspettata, ma all’indignazione per la mia testardaggine, per la mia “testa dura”.
Mi sedetti su un muretto a secco. Le gambe erano doloranti dopo la lunga camminata. Il cielo era diventato più scuro. Era il crepuscolo. L’unica ora in cui giorno e notte si fondono.
Sentii il cellulare suonare. Era mia madre. Mi avrebbe forse chiesto, con la sua voce apatica, dove fossi finita? Ed io cosa le avrei risposto? Di certo non le avrei mai potuto raccontare il mio stato d’animo, quanto e per cosa stessi male. Era qualcosa di così personale, che ad altri sarebbe parso stupido, infantile.
Risposi. Piangeva, gemeva tra i singhiozzi. Era disperata. Chiusi la chiamata.
Spaventata fissai lo schermo del telefono. Cosa poteva essere successo?
Squillò nuovamente. Risposi, pur temendo di sentire il suo pianto. Non sentii alcun gemito, alcun singhiozzo.
- Dove sei?- mi chiese con voce tremante.
- In giro-
- Torna a casa- era ancora agitata      
- Cos’è successo? Perché piangi?-   
- Ti sbagli. Non sto piangendo. Non è successo nulla. Torna solo a casa.- .
 Dopo avermi detto ciò chiuse la chiamata. Mi alzai. Sarei tornata subito a casa, proprio come mi aveva chiesto, ma sapevo che non mi avrebbe mai detto cosa la tormentasse, né io le avrei mai detto cosa tormentasse me. Saremmo entrambe rimaste in silenzio, senza confidarci l’una con l’altra e senza domandare spiegazioni ad eventuali comportamenti strani.
Rincasai che era ormai sera.
Quando si ha un segreto, un dolore che ti squarcia l’anima, è meglio non confessarlo, perché nessuno, a parte te, è in grado di comprenderlo.


FINE
  
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