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Autore: Ever Lights    09/12/2012    5 recensioni
«Bella, io sono davvero cambiato, credimi.», farfugliò confuso, e si sarebbe anche inginocchiato davanti a me se non avesse tenuto così tanto al suo orgoglio.
«Mi dispiace, ma è troppo tardi.»
Mentalmente, chiusi dietro a un portone tutti i ricordi che avevo con lui. Li imprigionai dietro alle sbarre, li cancellai e feci di tutto per eliminarli. Dovevano sparire, così come doveva farlo lui.
«Non ho più tempo per tutto questo. Non fai più parte della mia vita da quel giorno.»
Mi allontanai, lasciandolo lì. Presi fra le braccia mia figlia, la mia unica ancora di salvezza, e non mi guardai più indietro, chiudendo definitivamente quel capitolo della mia vita che tanto mia aveva fatto male e che ora non meritava nemmeno di essere considerato.
Sarei stata meglio, ne ero sicura, se lui fosse scomparso per sempre, lasciandomi finalmente vivere come avrei dovuto fare da sempre.

A Simona, Bianca, Camilla e Aurora. Loro sanno il perchè.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Jacob Black, Nuovo personaggio, Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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One Step Closer


One Step Closer
Capitolo due: Come nelle favole... o quasi.



Attaccai la cornetta del telefono, respirando a fondo. Alle mie spalle, Evelyn strillava giocando con Jacob… Una dolce musica per il mio povero mal di testa.
Mi ripetei mentalmente di stare calma, di non scoppiare a piangere istericamente oppure di rompere qualcosa… ma non trovavo nessuna valida opzione per non uscire di nuovo di casa, andare a riacciuffare Sam e strozzarlo con le mie stesse mani.
La rabbia mi scorreva nelle vene come veleno, mi bruciava i polsi, mi rodeva lo stomaco e il fiato mi raschiava i polmoni.
«No, zio Jake! Non farmi il solletico! Basta!»
La mia vita stava procedendo come avevo sempre desiderato: in sei anni, non c’era mai stata interferenza da parte sua, anche se fino ai primi mesi di vita di Evie avrei voluto vederlo tornare indietro e scusarsi, per poi diventare una famigliola felice, come quella della pubblicità.
Ma dopo tutto quel tempo, non aveva senso chiedere perdono. Cosa era cambiato per lui?
Io, di sicuro, ero cresciuta e avevo imparato dai miei stessi errori, ma mia figlia non potevo considerarla tale: era stata la più grande svolta della mia vita. Sembrava un piccolo passo della mia esistenza, ma mi aveva insegnato a essere più forte: per me, per lei. Per entrambe.
Se io ero debole, anche lei lo sarebbe stata, e non si meritava una vita del genere. Doveva essere felice, spensierata e senza inutili pesi sulle spalle, come tutte le bambine della sua età.
Per sei anni quella era stata la mia filosofia, non l’avevo trasgredita e ora vedevo crollare le fondamenta di quell’idea che mi ero creata. Vedevo tutto andare a rotoli, non mi rimaneva più nulla, neanche la manina di mia figlia da stringere.
Sospirai profondamente, scrollando il capo. Più ci pensavo e più stavo male al pensiero che davvero Sam potesse portamela via, ma non l’avrebbe fatto perché l’avrei protetta come avevo sempre fatto.
Cercai di tornare indietro con la mente, provando a ricordare come stavo bene fino a un’ora prima, con il desiderio della mia bambina di andare al mare, con i sorrisi sulle labbra e le centinaia di idee per la testa. Era tutto normale, ordinario, come poteva esserlo ogni giorno della mia vita.
Mi girai e trovai Evelyn che lottava contro Jake sul tappeto del salotto. Ridevano felici, senza pensieri che li importunavano. Jacob tornava bambino ogni qualvolta stava con Evie: sembrava quasi che lei avesse un filtro speciale per tornare alla gioventù, ma il ragazzo in realtà non ne aveva bisogno. Insomma, non era così vecchio, aveva solo sei mesi in più di me, ma aveva sempre lo spirito del fanciullo.
«Mamma, zio Jake vuole mangiarmi!», strillò la bambina, dimenandosi dalle braccia del mio migliore amico. Le sorrisi per poi iniziare a fargli il solletico: era il suo tallone d’Achille, esattamente come me. Un’altra somiglianza fra noi.
«Smettetela voi due! Basta!», implorò, agitandosi come se avesse avuto le convulsioni, anche se ci mancava davvero poco che le avesse, talmente tanto rideva.
«No, se non mi prometti che non mi mangerai!»
«Lo giuro, lo giuro!», rise ancora, e smisi nel momento in cui il suo viso assunse una sfumatura simile al bordeaux.
Mi misi in ginocchio, stringendo Evelyn al mio petto, mentre ancora ridacchiavamo tutti e tre assieme. Abbracciarla rendeva tutto ancora più reale e il pensiero di una sua scomparsa svanì immediatamente, proprio nel momento in cui i suoi capelli sfiorarono il mio collo.
Restammo per qualche minuto così, senza dire nulla, ad ascoltare il silenzio che ci circondava. Era raro poterlo sentire, dati i continui schiamazzi di mia figlia e di Jacob.
Forse pensare a quei momenti felici mi avrebbe aiutato, almeno a cancellare dai miei occhi l’immagine di Sam al parco, con il viso stravolto… Non mi faceva neanche pena, dopotutto quello che mi aveva fatto passare. Non era più il predatore e la mia paura nei suoi confronti era svanita.
«Vado a darmi una sistemata, ci metto pochi secondi.» Baciai la testa di Evelyn e l’affidai alle braccia forti e protettive di Jacob, che l’adagio sul suo petto. In confronto a lei poteva essere il Grande Gigante Gentile, tanto era mastodontico… Evie sembrava occupare solo un angolino della sua spalla.
Avevo un aspetto improponibile, sembrava non chiudessi occhio da giorni. Mi legai i capelli in una coda alta e misi a posto i vestiti che si erano spiegazzati. Almeno Renee non si sarebbe schifata di vedermi in quello stato, sapendo che comunque con una bambina piccola non si poteva essere sempre impeccabili.
Quando tornai in salotto, ebbi appena il tempo di guardare l’orologio che il campanello iniziò a suonare. Accolsi mia madre con tanta foga da lasciarla spiazzata e subito si preoccupò.
«Nonna!» Evelyn saltò letteralmente fra le braccia di Renee, che la stritolò in un caloroso abbraccio.
Dopo che Sam mi aveva lasciato, io e mamma avevamo stretto un legame fortissimo, che in diciotto anni di vita passati assieme non avevamo mai trovato. E anche lei, come tutti gli altri, d’altronde, amava mia figlia in un modo indissolubile.
«Piccola mia!» Più le guardavo così vicine, più vedevo le somiglianze. I capelli di Evelyn catturavano quel riflesso biondo che avevano quelli di mia madre, la pelle dello stesso colore e anche il caratterino, per qualche punto.
«Non ti vedo per qualche giorno che subito mi sembri più grande. Accidenti, devi smetterla di crescere così veloce, amore!»
Risi e lasciai che Evie tornasse sul tappeto da Jake, per poi abbracciare mia madre.
«Grazie per essere venuta.»
«Farei tutto per la mia bambina. Ora però devi raccontarmi, su.»
Ci sedemmo in cucina, lontano da orecchie in quel caso indiscrete. Renee mi fissava confusa, cercando di trarre dal mio sguardo qualche risposta.
Misi a bollire l’acqua per il tè, pensando alle parole adatte da dirle, ma tutte mi sembravano banali e inutili. Non parlavamo quasi mai del mio passato e di quello che era successo, salvo qualche rara occasione, ma era spesso per fare qualche comparazione.
A mia madre non era mai andato a genio Sam, lo trovava un gradasso e un poco di buono, con quella sua faccia da furbo e spaccone. Spesso mi raccomandava di tenere gli occhi aperti e di fare attenzione, e troppe volte avevo sottovalutato il suo consiglio. E quando poi venne a sapere le conseguenze, di primo acchito avrebbe voluto insultarmi, ma qualche secondo dopo aveva capito che ero poco più di una bambina e mi ero ritrovata con un peso troppo grande da portare da sola.
Per quello le ero grata, perché c’era sempre stata e aveva cresciuto a modo suo Evelyn.
«Tesoro, raccontami cosa c’è che non va.»
Sospirai, abbassando il capo e sporgendole la sua tazza di tè. «E’ difficile da spiegare, però…»
«Sono qui per ascoltarti, avanti.»
Presi un respiro profondo e la guardai dritta negli occhi, e mi ci persi. Quell’azzurro così intenso e profondo mi fece capire che ogni cosa che stavo per dire sarebbe stata sciocca e non avrebbe reso minimamente l’idea di quello che avevo provato ritrovandomi davanti a colui che mi aveva abbandonata perché portavo in grembo suo figlio. Come potevo svelarle che era tornato a rovinarmi la vita? O meglio che ci aveva provato ma che l’avevo cacciato definitivamente? Avrebbe capito, o avrebbe interpretato tutto come un gioco da bambini, mettendosi a ridere e infischiandosene?
«Mamma, Sam è tornato, oggi. Ha chiesto di Evie, voleva conoscerla e vederla ma non gliel’ho lasciato fare. Non ha senso tutto questo… Perché torna adesso?»
I suoi occhi si sgranarono di colpo, e fece per dire qualcosa ma si ammutolì.
«Non so perché lo abbia fatto, se pensa che adesso Evelyn potrebbe capire e accettarlo… Non lo so, io non lo farò mai, per me non ha importanza la sua motivazione. In sei anni non c’è mai stato e ora non c’è più tempo per rimediare.»
Non disse nulla, continuando a fissarmi basita.
«Mamma, ti prego, di’ qualcosa.», la supplicai, mentre le lacrime cominciarono a scorrere tiepide sulle mie guance. Se neanche lei sapeva cosa rispondermi, eravamo punto a capo. Renée conosceva sempre una risposta, trovava sempre la soluzione più adatta, ma a quanto pareva non aveva idea di cosa fare.
Si alzò e mi strinse fra le sue braccia, cullandomi e sussurrandomi parole all’orecchio per tranquillizzarmi.
«Stt amore, stt. Va tutto bene, non vi farà nulla.», mormorò, accarezzandomi i capelli. Sentivo il suo respiro sulla mia fronte e dopo qualche minuto riuscii a calmarmi ma non del tutto.
«Non può avere alcun diritto su Evelyn, dato che legalmente non ha niente a che fare con lei. Il cognome è il tuo, il padre non l’avevi dichiarato, devi stare tranquilla.»
«Ma sai com’è fatto! È capace di qualunque cosa!»
Mi accarezzò ancora la testa, tenendo le mani sulle mie guance. «Non lo farà perché sa le conseguenze che ne seguirebbero. Non ha la minima voglia né la forza di finire nei guai.»
Annuii e lasciai che mi abbracciasse ancora un po’, prima di asciugarmi il viso con la punta delle dita.
«Puoi… Puoi rimanere a cena? Almeno non mi sento sola.»
Sorrise. «Certo. Dopotutto siete la cosa più importante che ho, dopo tuto padre.»
Quasi come se avesse avuto un radar, la piccola peste in questione sbucò dalla porta, venendoci incontro.
«Maaaamma?»
Quando faceva così, era perché aveva combinato qualche pasticcio, il che non era una novità.
«Che c’è, amore?»
Tese le braccina, aprendo e serrando i pugni velocemente. Era un periodo in cui sempre più spesso mi chiedeva di essere presa in braccio, ma era una coccolona quindi forse era solo una cosa momentanea.
«In braccio.», mormorò e la sollevai, appoggiandola al mio petto. Renée le sorrise, accarezzandole i lunghi capelli castani. Evie posò il viso sul mio seno, tamburellando le dita minute sul mio collo.
«Cosa succede, cucciola?» Attirai di nuovo la sua attenzione e i suoi occhi si fusero con i miei. Evelyn, a detta dei miei genitori, era la fotocopia di me da bambina. I capelli, gli occhi, la forma del viso, il caratterino… Eravamo uguali, ed era un bene visto da dove arrivava l’altra parte del DNA.
Nascose il volto fra i miei capelli, stringendo il mio pullover nel pugno. «Nulla…»
Le pizzicai il fianco fra le dita, e lei ghignò. «Ora me lo dici, mi hai incuriosita.»
«Noooo!», quasi urlò, mostrandomi il suo più bel sorriso. Tenendola con un solo braccio, iniziai a farle il solletico, facendola ridere. I ricciolini scuri ballonzolavano oltre le sue spalle e la bambina inarcava la schiena all’indietro, presa com’era.
«Basta, mamma!»
«Tu allora dimmi cosa c’è che non va, avanti.»
Tornò a nascondersi dove era prima e si mise una manina davanti alla bocca. «Ieri all’asilo Ashley è andata via con il suo papà… Perché io non ho un papà?»
Sgranai gli occhi, colta assolutamente impreparata. Mai prima di allora mi aveva fatto una domanda del genere, e non pensavo l’avrebbe fatto prima di andare alla scuola elementare… Invece si dimostrava sempre più sveglia e superava persino me, sua madre. Bella cosa.
«Amore, perché questa domanda?» Certo, Bella, ottima risposta.
«Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda, mamma.» Cinque anni e già la testa dura come il coccio, esattamente come me… Non per niente si divertiva a ripetere le frasi che spesso usavo io con Jacob, tranne le parolacce, almeno quelle.
«Va bene. Tu rispondi prima a me, però, dai.»
Sbuffò e mi fissò dritta negli occhi, specchio dei miei. Vidi tutta la consapevolezza innocente della sua domanda, ma non potevo raccontarle che suo padre ci aveva lasciato quando lei era ancora un granellino dentro di me. «Perché anche io voglio un papà. Perché non ce l’ho?»
Sospirai, provando a formulare una frase di senso compiuto. Provai a cercare in viso una specie di spinta per risponderle, ma trovai solo il suo sguardo interrogativo.
«Amore…»
«Evelyn, perché non vieni con nonna? Voglio farti vedere cosa ti ho comprato.»
Mia figlia si dimenticò di quello che mi aveva chiesto appena sentì quelle parole. Ringraziai solo con un’occhiata mia madre, che mi aveva tirato fuori da un pasticcio che era solo momentaneo, perché ero sicura che presto Evie sarebbe tornata alla carica con i suoi perché.
Tutto ciò che disse – o meglio: strillò, Evelyn fu «Sì!», prima di sparire in salotto fra le braccia di mia madre.
Sospirai, guardando fuori dalla finestra nel tentativo di vedere la situazione da un’altra ottica.
«Bells, tutto ok?»
Mi girai e Jake mi guardava con aria sconcertata. Gesticolai, come a sminuire la cosa, e assentii appena. «Sì, solo un po’ di mal di testa.»
Annuì e si avvicinò al fornello, osservando dentro le pentole che Renée aveva precedentemente preparato con la cena mentre io parlavo con Evelyn.
«Jake?»
«Eh?»
«Stai bene?», gli chiesi, notando come stava rigido al mio fianco. Non gli succedeva mai, o se avveniva era per un motivo in particolare.
«Sì…»
«Sicuro?»
«… No.»
Sorrisi leggermente, squadrandolo. «Dai, cosa c’è che non va? Devi farmi qualche domanda?»
«Cosa ci faceva oggi Sam al parco?»
Però, che schietto…
«Ecco…» Era la giornata delle domande e delle risposte, senza dubbio. E anche a lui ora avrei dovuto dire cosa diavolo aveva combinato quel deficiente di Sam sei anni prima… come se fosse stato facile.
«Bella, non voglio che tu mi racconti balle, intesi? Dimmi la verità, solamente questo.»
Ancora una volta il mio sguardo si posò sulla strada che si vedeva dalla finestra. La neve formava una distesa infinita, senza un punto di fine, e si disperdeva all’orizzonte incontrando gli alberi spogli.
«Okay… Sam è tornato per Evelyn. È il suo padre biologico, colui che mi ha messo incinta e poi se n’è andato spudoratamente. Contento, adesso?»
Non ricevetti risposta e contai fino a dieci. Allo scoccare del termine, mi girai e trovai un Jacob pietrificato e inorridito, probabilmente per ciò che aveva fatto Sam, il suo amico, o forse perché in sei anni avevo taciuto la verità.
«Cosa? Stai scherzando?»
Sbuffai, incrociando le braccia al petto. «Eh certo, secondo te non mi ricordo con chi ero andata a letto? Jake, Sam è davvero suo padre.»
«Perché non me l’hai mai detto?»
Abbassai il capo, e un senso di colpa mi devastò il petto. «Perché pensavo… avevo paura che anche tu non avresti accettato ciò che era successo. Avevo paura che tu cercassi di farlo ragionare e farlo tornare indietro.»
Le sue forti braccia mi strinsero di nuovo, e mi ritrovai ben presto con il viso schiacciato contro il suo petto.
«Perdonami se non te l’ho mai detto… Sei arrabbiato con me, ora?»
Scosse il capo sopra il mio, cullandomi. «Un po’, ma ti sono grato per non avermelo detto, perché sennò gli avrei spaccato la faccia. Comunque certo che ti perdono, Bells.»
Alzai lo sguardo e gli sorrisi, prima di staccarmi e di tornare in salotto da Evelyn, che giocava sul tappeto con Renée.

«Amore, devi mangiare!»
Evie scosse ancora il capo, allontanando il piatto da sé. «No! Non le voglio!»
Sbuffai, infischiandomene degli sguardi preoccupati di mia madre e Jacob quando brandii la forchetta e la portai verso la boccuccia di mia figlia.
«Dai, tesoro.»
«Nooo! Non mi piacciono le verdure!», strillò, con il viso imbronciato. Sospirai e non capii il perché del suo comportamento: non faceva quasi mai storie sul cibo, ma evidentemente c’era qualcosa che non andava nella sua testolina quel giorno.
Sbattei la posata sul tavolo, maledicendo le buone maniere e passandomi una mano fra i capelli. «Evelyn, ora basta! Se hai fame, bene, altrimenti rimani con il pancino vuoto fino a domattina!»
Mi sorpresi del tono cattivo che avevo usato contro di lei, e mi morsi la lingua quando il labbro inferiore prese a tremolare e gli occhi si inumidirono.
«Oh, merda…», mormorai mentre mia figlia scoppiava in un pianto incontenibile. Renée mi fissò sconcertata e quando fece per tranquillizzare la bambina, la fermai con un gesto della mano.
«Vieni qui, su…» Presi il corpicino di Evelyn fra le braccia, facendola sedere sulle mie ginocchia. Nonostante fosse arrabbiata con me, posò la testa sul mio seno e iniziò a inumidirmi la maglia; le carezzai dolcemente i capelli, sussurrandole una nenia all’orecchio: solitamente si calmava in quel modo, ma non potei dire la stessa cosa in quel momento. Fu ben difficile arrestare le sue lacrime e solo dopo ben dieci minuti di cantilena, coccole e abbracci sentii il suo respiro tornare regolare.
«Allora?», le chiesi piano, asciugandole le guance piene con i polpastrelli. «Vogliamo farla sì o no questa pappa?»
Non dissentì e si sedette comoda sulle mie gambe, per poi sporgersi verso il tavolo e afferrare la forchetta che poco prima stavo impugnando io.
«Brava, cucciola…» Le baciai una tempia e la imboccai, parlottando con Jake e mia madre. Da quel momento Evelyn non fece più i capricci e rimase tranquilla a godersi il caldo delle mie braccia. Riuscì a tenere gli occhietti aperti per tutta la cena, fatto abbastanza strano perché ultimamente crollava sul piatto… Jake aveva uno strano effetto su di lei, quasi come se riuscisse a farla… scaricare, ecco, in qualche modo.
Quando mia madre la prese in braccio, nel momento dei saluti, le diede un bacio sulla guancia con fatica, per poi pretendere di tornare da me.
«Se hai bisogno di qualunque cosa, tesoro, sai dove trovarmi.», mi disse Renée, baciandomi la guancia.
Annuii, sorridendole. «Domattina papà viene a prendere Evelyn, ché io arrivo dopo dal lavoro… Me la porta in ufficio, vero?»
«Sì, se vuoi però può rimanere con noi, non è un problema.»
Scossi il capo, osservando mia figlia che stava appollaiata sul mio petto, crogiolandosi nel tepore. «No, anzi penso che Angela sarà felice di farla scorrazzare un po’. Allora ci sentiamo domani.»
Le aprii la porta e la salutai un’ultima porta, prima che sparisse nell’oscurità e nel bianco della neve.
Evie sbadigliò fra le mie braccia e andai a sedermi in salotto, dove Jacob guardava distrattamente la TV. Come se fosse stato una calamita, nell’attimo esatto in cui posai la schiena contro il divano, Evie si fiondò fra le braccia di Jake, che fu ben accetto ad accoglierla.
Sorrisi di quel quadretto, perché Jake era la figura maschile più importante, dopo Charlie, per Evelyn, e ogni giorno gli dimostrava quanto bene potesse volergli.
«Sai, diavoletto, che non mi è piaciuto come ti sei comportata a cena?», le borbottò lui, con aria di rimprovero, anche se sotto sotto sapevo che non voleva veramente sgridarla.
Gli occhi di Evie si posarono su quelli del ragazzo, cercando di chiedere perdono. «Scusami, zio Jake…»
Per risposta, Jacob le carezzò i capelli e le diede un buffetto sulla guancia. «Fa niente, però non voglio che tratti così la mamma, intesi?»
«E anche la mamma è stata un po’ cattiva, stasera…», sussurrai io, infilandomi nel discorso, e posai il mento sulla spalla del mio migliore amico. «E per questo voglio chiederti scusa, cucciolo.»
Mia figlia si sporse di più verso di me, quasi fino a scivolare, e mi schioccò un bacio sulla guancia, per poi sbadigliare.
«Ho tanto sonno, mammina.», mormorò, e Jake me la adagiò sul petto. Evelyn si accucciò, come di consueto, addosso a me, con la testolina sul mio seno e le braccia in grembo. Le accarezzai le guance, posandole un bacio leggero sulla testa.
Senza fare tanto rumore, Jacob ci salutò entrambe, facendo due coccole a Evie, e se ne uscì come se fosse stata casa sua, ma per certi versi lo era davvero, dato che spendeva quasi la metà della giornata da noi.
«Vieni, andiamo a nanna, amore.»
Spegnevo e accendevo le luci dei locali che attraversavo, e quando raggiunsi la cameretta di Evelyn, c’era solo la piccola abat-jour a rischiarire la stanza.
Dolcemente, aiutai la mia bambina a infilarsi il pigiamino e a mettersi sotto le coperte. «Hai freddo?», le chiesi, vedendo come tremava da sotto il piumone.
«No, mamma, ma mi abbracci?» La sua voce cominciava ad impastarsi con il sonno, e i suoi occhietti iniziarono a socchiudersi, ma quella sua richiesta arrivò ben chiara alle mie orecchie. L’accontentai, stringendo il suo corpicino fra le mie braccia, scaldandolo.
«Ora va meglio?», sussurrai, e lei annuì appena. «Ora fai la nanna… Domattina dovrai svegliarti presto.»
Posai le mie labbra sulla sua fronte, per il consueto bacio della buonanotte, e mi alzai, ma lei mi fermò. «No! Rimani qui, mamy. Raccontami una fiaba.»
«Va bene…» Presi uno dei primi libri che mi capitò dallo scaffale – La Bella Addormentata, e mi stesi accanto a Evelyn, che subito ne approfittò per farsi stringere.
Non mi interruppe neanche una volta, e quando arrivai alla fine della favola mi accorsi che aveva chiuso gli occhi e teneva il nasino premuto contro il mio petto. Così appoggiai il libro sul comodino e spensi la luce, alzandomi il più delicatamente possibile.
«Mamma?» Diamine, ma non stava dormendo?
«Mh?» Mi voltai verso di lei, e nella penombra riuscii a scorgere il suo visino rivolto verso di me.
«In tutte le fiabe ci sono le principesse che hanno un principe azzurro, e quindi anche da noi ci sono… Ma dov’è il tuo principe azzurro, mamy? Perché non ne hai uno?»
Sorrisi, commossa, e mi risistemai al suo fianco. «Amore… Non lo so, davvero. Magari un giorno lo incontrerò, chi lo sa.»
«Il mio papà non era il tuo principe azzurro?»
Sospirai, pensando a Sam. Lo sembrava, amore, lo sembrava. «No, amore.»
«Perché non è con noi?»
«Perché… Perché non voleva più bene alla mamma, tutto qui. Vieni qui, adesso.»
La strinsi a me, abbracciandola. Non era l’ora adatta a certe domande, ogni risposta sarebbe stata troppo complessa per lei, adesso.
«Ora dormi, ci sono io qui con te.»
Annuì e posò il viso nell’incavo del mio collo. «Ti voglio bene, mamma.»
«Anche io, scricciolo, anche io. Te ne vorrò sempre.»



«Bella!»
Abbandonai sul tavolino i caffè e corsi dall’altro capo dello studio, dove c’era Angela. Ecco di che cosa si trattava il mio lavoro: scorrazzare da una parte all’altra dell’ufficio legale per rispondere alle richieste dei vari avvocati. Era estenuante, e quel giorno le poche ore di sonno non mi aiutarono, tanto che quasi scivolai quando superai la porta.
«Cerca di non ucciderti, Bella!», esclamò la ragazza, ridendo sotto i baffi. «Mi daresti una mano a ordinare queste scartoffie?»
Annuii – non potevo fare altro, e mi avvicinai a lei. Angela era la tipica ragazza della porta accanto, acqua e sapone: i lunghi capelli neri erano raccolti in uno chignon, la pelle olivastra risaltava su quel tailleur chiaro e i tratti tipicamente spagnoli si accentuavano ancora di più con quel trucco. Sul naso, i suoi indimenticabili e insostituibili occhiali.
Era stata lei ad offrirmi il lavoro, un anno prima. Ci eravamo conosciute per caso, ad un convegno sulle ragazze madri, e lei era lì per parlare dei diritti delle donne e dei loro figli… Era stato il suo discorso a toccarmi profondamente, tanto da spingermi a parlarle nonostante la mia insicurezza e vergogna.
Andando avanti nei giorni, avevamo iniziato a conoscerci meglio e quando aveva incontrato Evelyn il nostro rapporto si era rafforzato.
«Sai che c’è un nuovo ragazzo che lavora qui?», disse ad un certo punto, lo sguardo vacuo nel vuoto.
«Davvero?»
«Sì! Si chiama Edward, lavora nello studio del secondo piano… E’ giovane, alto, capelli rossicci, due occhi verdissimi… Un figo da paura, in poche parole.», borbottò, e potei intravedere un filo di bava sgorgarle dal lato della bocca.
«Angy, devo ricordarti che sei felicemente sposata?», ridacchiai, facendola tornare composta.
«Oh, lo so… Ma cavoli, Bella… Se tu lo vedessi!»
Sospirai, scuotendo il capo. «Ora mi hai messo curiosità…»
Mi afferrò forte le mani, con lo spirito di un’adolescente in piena rivolta ormonale. «Devi averne! E’ davvero un bell’imbusto! È arrivato da pochi giorni, ma dicono che abbia tutte le doti per progredire nel suo lavoro.»
Annuii, dando poco peso alle sue parole. Perché diavolo allora ancora non l’avevo visto? Conoscevo tutti i visi dello studio, e di sicuro mi sarei accorta di qualcuno di nuovo… Perché allora non l’avevo notato?
«Ah… Be’, prima o poi avrò l’onore di vederlo anche io, dai.», sussurrai, stringendomi nelle spalle. Lo stesso fece lei, assegnandomi poi un plico pesantissimo di cartelline.
«Le puoi portare nell’archivio al posto mio? Ho ancora un sacco di pratiche da sbrigare.»
«Certo, non c’è problema.», risposi, sorridendole. Uscii velocemente dalla stanza, più che altro perché quel peso immane mi stava distruggendo le mani. Mancava poco all’archivio, quando notai i caffè che avevo lasciato incustoditi.
Decisi allora di finire prima il lavoro assegnatomi da Angela, per poi distribuire le bevande ai colleghi. Tutto quel vai e vieni mi avrebbe scombussolato la testa.
Fortunatamente, quasi tutti i documenti erano disposti per nome e non impiegai molto a disporle nei cassettini appositi.
Tornando indietro, presi a fissare il bracciale che portavo sempre con me, dove c’era una lettera con in mezzo incastonata una pietra rossa, una specie di cuore. Era una E, come Evelyn. Un modo come un altro per portare mia figlia sempre con me, ovunque andassi, per farmi pensare costantemente a lei e immaginare come avrei potuto abbracciarla al mio ritorno a casa.
Senza rendermene conto, finii addosso a qualcosa di grosso e… umano. Pensai fosse il muro, e invece quando mi ritrovai a contatto con qualcosa che stava respirando a pieni polmoni, capii che in realtà non era un oggetto… Ma bensì una persona.
«Oddio, scusami!», quasi strillai, presa alla sprovvista. Quell’uomo mi fissava tramortito, con quei suoi occhi verdi accesissimi. «Scusami, non ti ho visto!»
«Me ne sono accorto…», mormorò piuttosto seccato, osservandosi il petto. Sulla camicia bianca ora c’era stampata una bella chiazza di caffè… Fantastico.
Spalancai la bocca, mortificata, e respinsi l’impulso di strofinare le mani sul tessuto nel tentativo di far sparire la macchia. «Oh, merda.»
«Concordo.», contestò lui, corrugando le labbra in una smorfia di disprezzo, forse nel trattenersi da dire qualche imprecazione.
«Bella? Va tutto bene?» La voce di Angela mi attirò dall’altro capo del corridoio, e quando mi affacciai per vedere il suo volto, notai che mi stava indicando il ragazzo.
«Sì, insomma…», mormorai quando fu abbastanza vicina per notare il pasticcio che avevo appena combinato.
«Edward, vuoi che chieda al signor Smith se ha un cambio per te?» Il signor Smith, uno dei nostri migliori avvocati, non si sapeva perché portava con sé sempre qualche camicia in più… Forse proprio per evitare conseguenze come queste.
«No, ti ringrazio Angela. Ne ho una mia in ufficio.», rispose l’uomo, e solo in quel momento mi ricomposi.
Occhi smeraldini, capelli rossicci, fisico pronunciato… Era lui, il nuovo collega. Il tanto reclamato Edward, il cui cognome ancora mi era sconosciuto.
«Ora, se non vi dispiace, torno al mio lavoro.» Con quella frase, si dileguò da noi due, sfrecciando fino all’ascensore, senza però portarsi dietro il bicchiere di caffè.
«Era…»
«Proprio così, quello era Edward, signorinella. E tu ci sei finita addosso come una palla da bowling contro l’ultimo birillo per fare Spare. Che mossa, ragazza.»
A quel commento, le mie guance presero fuoco, e mi resi conto solo allora di come potevo essere sembrata goffa e poco responsabile agli occhi di quell’uomo.
«Ti giuro che non l’ho fatto a posta. Ero un attimo persa nei miei pensieri, e un attimo dopo mi sono ritrovata addosso a lui.»
«Certo, e io me la bevo?», si mise a ridere, canzonandomi. «Anche tu sei rimasta affascinata da lui, non ne dubito.»
Mi corrucciai e tornammo allo studio. «Stavo dicendo la verità…»
Mi diede bonariamente una pacca sulla spalla. «Ne riparliamo fra qualche giorno, tu che dici? Altro che attimo di smarrimento, per conto mio è bastato un secondo che eri già cotta di lui.»


Se qualcuno mi avesse beccata, mi avrebbe denunciato per molestie personali. Anche perché vista in quel modo la scena voleva dire solo due cose: ero una serial killer oppure una stalker.
Ma in quel caso mi ero prontamente travestita in una stalker professionista, fatto che mai mi sarei aspettata nei miei confronti.
Io, che ero tutta riservata, livello della privacy a livelli mortali, stavo fissando di nascosto, imboscata come un ninja, quel nuovo collega che tanto mi aveva colpita qualche ora prima.
Charlie mi aveva mandato un messaggio che non sarebbe potuto passare in ufficio a portarmi Evelyn, ma l’avrebbe tenuta a casa con lui e Renée, e gli avevo risposto che non ci sarebbe stato problema perché mi sarei trattenuta in ufficio almeno un’ora in più per sbrigare alcune faccende.
Però in realtà le avevo terminate in dieci minuti, e avevo colto la palla al balzo. Ero salita al secondo piano, cercando di dare nell’occhio il meno possibile, e mi ero nascosta, aspettando che la maggior parte degli avvocati se ne fossero andati.
Finalmente era giunta l’ora x, e quando mi affacciai per vedere di nuovo il suo volto, lo trovai seduto alla scrivania a parlare al telefono.
Sembrava piuttosto preso dalla conversazione, una mano fra i capelli, la camicia pulita sbottonata, la giacca nera coordinata ai pantaloni abbandonata sullo schienale della sedia. I suoi occhi si era rabbuiati, concentrati a fissare il monitor del computer, le sue labbra si muovevano frenetiche, la sua fronte era aggrottata.
Non potei leggere il suo labiale, ma mi giunse all’orecchio qualche imprecazione e insulto.
Era così bello… Non potei credere al fatto che Angela avesse avuto ragione, mi ero cotta a puntino di lui, senza lasciare traccia a ogni minimo dubbio. Forse me lo si poteva leggere in faccia, nei miei occhi, nei miei gesti… Sapevo che non mi sarei dovuta comportare così, perché avevo una bambina piccola e non potevo ripetere gli stessi errori, e stavo provando ad uscire da quella trappola, ma lui era una specie di magnete che mi attirava verso quel pozzo profondo, e non volevo venire risucchiata di nuovo in quel vortice dove non si vedeva più la luce.
Rividi l’esperienza passata con Sam, e scossi il capo, continuando a fissare attraverso le tapparelle. Se mai fosse successa una cosa del genere con Edward, non volevo andasse a finire nello stesso modo di sei anni prima. Il nuovo collega sembrava tanto una persona affidabile e amorevole…. Ma anche Sam lo era sembrato.
Chiusi per due secondi gli occhi e quando li riaprii scattai sulla difensiva: Edward si era alzato, abbandonando il cellulare sul tavolo, e si stava infilando la giacca. Spense il computer e infilò il telefonino nella tasta interna del vestito.
Uscii dal mio nascondiglio, correndo silenziosamente vicino alla fotocopiatrice: almeno avrei avuto un alibi.
La porta alle mie spalle si aprì e l’uomo la richiuse alle proprie spalle; si guardò un attimo attorno, per poi avvicinarsi sempre di più a me, ma mi accorsi malvolentieri che stava solo buttando una cartaccia nel cestino.
Deglutii rumorosamente e lui si voltò: probabilmente non mi aveva vista.
«Oh… Ciao, non mi ero accorto di te, scusami.»
Mi girai e gli sorrisi, provando a essere il più naturale possibile. «Ho imparato a sbrigare i miei lavori in silenzio.», risposi e lui mi rivolse un sorriso bellissimo e un po’ sghembo che mi fece sussultare il cuore.
«Immagino… Be’, buona serata, allora.»
«Anche a te…», sussurrai, guardandolo andare via. Quando le porte dell’ascensore si aprirono davanti a lui, si volse ancora una volta, sorridendomi timido. Appena fui sicura che non potesse più vedermi, mi rifugiai nel suo studio e trafugai nei cassetti. Ero come una bambina quando le era stato vietato qualcosa ma voleva comunque ottenere ciò che bramava. Io ero nella medesima condizione. Avevo dato dell’adolescente a Angela, ma io mi stavo comportando nello stesso identico modo se non peggio.
Trovai un portachiavi o un oggetto con sopra un cuore e poi una scritta.
Ohana. Famiglia.
Trattenni il respiro e lo strinsi fra le mani, chiudendo gli occhi e ripetendomi che non avrei mai avuto una chance come quella per tenere qualcosa di suo con me, una parte di lui sempre vicino. E un cuore ne era la prova, specchio del mio che mi batteva furioso nel petto mentre continuavo a pensare agli occhi verdi di Edward.




Angolo Autrice:
Dopo una settimana, rieccomi qui! Devo ammettere che sono molto ispirata, e questo aiuta molto!
Che dire? Sono felicissima di aver ricevuto ben 8 recensioni per il nuovo capitolo! (anche se spero che salgano ehehe)
Mi fa davvero capire che tutti i miei sforzi vengono sempre ripagati, in qualche modo <3
Come al solito ringrazio dìtutte le mie amiche pazzoidi sparse per l'Italia per aiutarmi sempre, soprattutto ultimamente che non è proprio un bel periodo per me, ecco.
Agigungo alle persone anche Jess Vanderbilt, che è una grande ragazza dal cuore d'oro <3
Niente... Non so cosa dire. Spero che il capitolo vi sia piaciuto... Per una recensioncina c'è sempre posto :3
Un bacione,
Giulia

   
 
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