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Autore: Cassandra Morgana    10/12/2012    1 recensioni
Sullo sfondo chiaroscurale di un'Accademia d'Arte Drammatica con troppe maschere da indossare e una posta in gioco che sale, tre ragazzi si incontrano.
Elena vince il proprio mal di vivere grazie a un'amicizia speciale, al ritrovato coraggio di gestire i conflitti e a un forte altruismo; si scontra con Isa, la sua nemesi, voce contraria e complementare che cerca di tessere una storia opposta.
Andrea, ragazzo ambiguo e dalla lingua affilata, vuole recuperare la stima di chi, troppo tardi, si è reso conto di amare.
Gabriele imbroglia la propria depressione fumando spinelli, nutre sentimenti ambivalenti verso Andrea e gioca da burattinaio.
Tra pettegolezzi sussurrati, volontà opposte in rotta di collisione, ambizioni frustrate, gelosie, complotti sotterranei, storie di ordinaria omofobia, dark enigmatici, musicisti irascibili, ex amanti, amicizie inossidabili e amori taciuti, in una storia in cui ognuno vuole far sentire la propria voce, resta solo stabilire chi sia Cleopatra e chi il serpente che le insidia il seno.
[Storia sesta classificata e vincitrice del premio "Stile e scrittura più originale" al contest Chi è normale non ha molta fantasia - La storia più originale su EFP, indetto da Butterphil]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il bacio dell'aspide ~ la serie'
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Capitolo 50

Ultimatum

 

 

La folgorazione è arrivata nel preludio apparentemente innocuo di un pomeriggio pieno di prove e lezioni da scoppiare. Sospira, Andrea, la luce abbacinante che gli solletica le palpebre; si stringe a Gabriele, le dita che giocano a intrecciarsi alle sue. Chiude gli occhi, quando lui gli scosta una ciocca ribelle dalla faccia e gli sfiora le labbra in punta di dita.

Ecco. Adesso posso anche morire, perché sei tu, e non vedo nient’altro.

Dividersi il dopo-pranzo e una panchina arroventata dal sole con una versione inedita di Gabriele – non sul piede di guerra, non scazzato e sospettoso, non pronto a staffilarlo a suon di risposte acide –, è una di quelle cose che valgono la pena di emergere dalle lenzuola ogni fottuta mattina senza salutare il mondo con imprecazioni di rito. Gabriele che continua a sorridergli, a centellinare le parole e circondarlo con le braccia.

La mattinata è scivolata via tra il vuoto di parole, l’euforia galoppante e lo stomaco in gola. Tra apatia e voglia di scoppiare a ridere senza motivo, lo stomaco che urla pietà per carenza di zuccheri dopo una notte di sesso da incorniciare. Ma la nausea gli sigilla le labbra solo al pensiero di mandar giù una briciola – l’odore dolciastro della sala mensa per poco non l’ha fatto sboccare. Avrebbe vomitato l’anima nel primo angolo lungo la sua corsa forsennata fuori da quella stanza caotica e affogata di luce, e avrebbe ripreso a ridere come un invasato, il cervello sprofondato sotto le suole delle Converse e mille luccichii astrusi davanti agli occhi.

Dottore, un tranquillante. Per cavalli. Adesso.

Non era pronto all’impatto tossico con ciò che sta fuori, a ripiombare nel suo incubo di carta velina con Gabriele che gli allaccia una mano intorno alla vita e garantisce per lui; ma quando il mondo chiama, non si cura che tu sia sull’orlo della follia, e c’è poco da dire e da procrastinare. L’Accademia chiedeva la sua presenza di allievo modello, divisa tra chi lo vede ancora come un dio e chi lo farebbe secco senza pensarci troppo.

Nicoletti Andrea, presente. Cos’è cambiato rispetto a ieri? C’è Gabriele che ti prende e ti scuote e si prende cura della tua follia. Porti qualche semplice domanda sarebbe stato impensabile fino a stamattina, perché la mente si incarta su sé stessa, incespica nelle parole e manda in corto circuito il sistema. Fino a mezz’ora fa non saresti stato in grado di sillabare il tuo nome.

La spalla di Gabriele a un soffio dalla sua è l’unico appiglio, il lasciapassare tra la realtà e il sogno che imperversa davanti a lui, fotogrammi casuali di quella notte che gli si affastellano nella mente: vietato scostarsi di un millimetro, poco importa che l’incubatrice del tuo delirio sia a due millimetri da te.

Gabriele…

- Allora… resti? – glielo chiede come un’implorazione.

Ammicca, una lacrima che gli riga la guancia, a furia di fissare la distesa di granito arroventata davanti a sé. Voglia di piangere, di ridere senza fermarsi a respirare, di correre fino a stramazzare al suolo. Tutto contemporaneamente. Lo stomaco che continua a pungere, come la scheggia acuminata che un giorno Gabriele ha deciso di conficcargli tra le costole. E brucia.

- Andre, sono qui. Non scappo – Gabriele lo osserva da dietro gli occhiali scuri: sembra un po’ meno sconvolto, ma le sue mani continuano a indugiare, le parole a disperdersi nell’aria.

Non scappi più, adesso. Perché non ne avresti nessun motivo. A cosa serve tergiversare?

- Dicevo… in camera. Con me – la fatica ad articolare frasi di senso compiuto è tanta da mandargli in fumo il cervello: deve concentrarsi sulle labbra che si muovono, sulla lingua che modella i suoni.

Uno scoppio di risa. Leggero, volatile.

- Ci tieni proprio…

- Sì – Andrea sbatte le palpebre, dissipando la nebbia residua fino a mettere a fuoco tutte le gradazioni di realtà – È lì che sono cominciati i guai. Ti avevo quasi cacciato…

- Non mi avevi cacciato – Gabriele si avvicina, il braccio buttato a caso intorno alle sue spalle – Me ne ero andato io. Dopo… quella discussione.

Se mi rinfacci di nuovo che sono andato a letto con Neri, che ti ho insultato in pubblico e pure in privato, giuro che ti raddrizzo il naso con un pugno. Non adesso. Non adesso, idiota.

Gabriele gli scosta un ricciolo dalla faccia con una naturalezza che non ricorda di avergli mai visto. Smette di intrecciare le dita alle sue e gli sfiora la guancia accaldata. La vera prova del nove, paradossalmente, è lui che gli prende il volto tra le mani e incastra le labbra alle sue – una frazione di secondo, nessun permesso scritto, nessuna protesta annacquata a diluire lo slancio. Un attimo e la tensione sale, diventa insopportabile sulla pelle ed evapora in un sussulto liberatorio. È ufficioso e ufficiale, carico di tutte le sue paturnie, della leggerezza con cui Gabriele gli fa scivolare una mano dietro la nuca.

Non andare in iperventilazione adesso. Cazzo, Andrea: ci siete solo voi.

Se svieni, attiri l’attenzione, e l’idillio si spezza, inquinato dai perché e dai percome, dalla gente che si ficca in mezzo e scalpita per dare un’interpretazione alla rinfusa. Se schiudi le labbra e lo folgori con un bacio da manuale, l’atmosfera diventa torrida. Se smetti di respirare, soffochi.

Qual è stato il momento preciso in cui hai imparato a dosare l’ansia, palleggiartela da una mano all’altra fino a renderla evanescente; quand’è che hai imparato a baciare un ragazzo e a gestirtene il carico emotivo, a fare l’amore, a ricondurre i sentimenti a un’equazione semplificabile?

Professor Lastella, dove cazzo sei, quando servi? Sei tu che mi hai insegnato tutto. Ad andarci giù di lingua senza rendere il tutto l’anticamera di un porno. A comprimere le emozioni sotto lo sterno e godermi una pomiciata da film come la cosa più naturale del mondo, anche quando qualcuno ci guarda.

Non lo è e non lo sarà mai, finché ci sei tu. Le tue labbra che guizzano sulle sue e fremono per accoglierlo. E il respiro viene meno, le labbra si tendono e trema tutto, tra un sussulto infinito e una risata soffocata. Ridete entrambi, perché non resta che godervi un po’ di sano relax e fottervene di tutto, di loro che occhieggiano, che origliano e mormorano, le labbra schermate tra le dita.

Non sarà sempre così. Domani vi sveglierete e scoprirete che è la stessa merda cucinata in altra salsa. Vi sveglierete e farete i conti con la vostra boccia di vetro che va in frantumi e vi catapulta di nuovo tra i vostri simili.

Siete due ragazzi – non sarà mai normale, non per loro, non per la soluzione acida in cui siete immersi fino agli occhi, con cui dovete fare i conti: non evapora via, se fingete che non esista. Siete Andrea Nicoletti e Gabriele Derossi, il feuilleton ambulante. C’è lui, alto, bello e sputtanatissimo; ci sei tu, il voltagabbana effeminato riccioli d’oro dalle movenze da ubriaco.

Non sarete mai i teneri fidanzatini che si scambiano frasi prevedibili da romanzo d’appendice. Non sarete mai il copione già scritto, le cui varianti si contano sulle dita di una mano, e allora diventa un gioco indovinare le combinazioni, le possibilità, e farvi stampare in fronte il francobollo che più vi si addice.

Non è l’amore a scoppio ritardato che manda a gambe all’aria il tuo mondo e dà un valore a tutte le incognite. È rimirare il sangue che ci avete sputato e riviverlo ogni giorno, rimettere tutto in gioco ogni minuto che passa.

 

Sei strano, Gabriele. Non mi hai ancora dato dell’imbecille, non hai detto nulla di fraintendibile; hai preso l’iniziativa e non ti sei schifato per un bacio plateale. Continui a giocare da funambolo, qualunque cosa pensino loro: siamo io e te, niente di speciale, niente che possa immobilizzare l’allegro uditorio. Una variabile impazzita tra mille possibili.

 

Non siete soli. Una decina di metri in linea d’aria, la panchina addossata al muro di cinta, un cono d’ombra strategico tra l’edera aggrappata al muro e il cestino dei rifiuti. Alberti distoglie lo sguardo e scuote il capo, “che ti dicevo?”; Barbie siliconata salta su come se qualcuno le avesse pizzicato il sedere, e aguzza le antenne; Isa riprende a fissarvi con occhi di metallo, indecifrabili come una condanna da maturarsi nel tempo, “cazzo, allora avevi ragione, Alessandro; è la conferma”.

Stanno insieme. Nicoletti è finocchio. Derossi ride e si gode i suoi novantadue minuti di applausi, perché si è scopato il più bello e può urlarlo in faccia a tutti: ha vinto dove voi avete fallito.

Andrea si scosta i capelli dalle spalle, la consapevolezza come una doccia fredda dopo una giornata di tepore liquefatto nelle ossa; la folgorazione dell’ultimo minuto vergata a fuoco negli occhi gelidi di lei. Perché il problema di Isa è che non ha mai capito un cazzo: c’è sempre andata a naso, schifosamente sicura di sé, così fiera dei propri colpi di genio da convincerne chiunque. Gli altri, prima che lei stessa. Come succede quando non si è capito un cazzo e si ignora il nocciolo duro della questione, e si sposa fino in fondo un ragionamento campato in aria che prima o poi, per miracolo, a furia di distorcere la realtà, diventa l’unica verità. Per qualcuno, ma non per lui: può continuare a giocarsela attimo dopo attimo e a vedere che effetto farà su di loro.

Isa stritola la lattina vuota tra le dita rossosmaltate – una forza insospettabile per una ragazza graziosa e minuta come lei – e centra il cestino di metallo con un tiro d’alta precisione, un clangore improvviso che fende l’aria. Forse voleva attirare l’attenzione dalla sua parte.

Andrea stringe la mano intorno a quella di Gabriele nello spazio ridotto tra la panchina e la propria gamba piegata, un intreccio segreto che gli strappa via un battito e minaccia di scollargli di dosso la sua camicia di forzata neutralità.

Quando imparerò a fare i conti con la tregua apparente?

Si aspettava un segnale da lei, un cedimento. Un girare sui tacchi con il disgusto che le tracima dalle labbra, una smorfia impercettibile, una piega all’angolo della bocca; una minima variazione di colore sulle guance, perché quello mica lo controlli.

Invece no: Isa lo osserva con una faccia indecifrabile, quella che lui ha imparato a temere, i lineamenti distesi di una bambina che gioca. Abbozza un sorriso compiaciuto, “vedi che avevo ragione?”, lo sguardo che indugia qua e là e abbraccia tutto senza afferrare niente e senza farsi incastrare. Niente di speciale, nessuna resa dei conti-bis, nessun terremoto annunciato.

Forse perché di Elena non c’è traccia, e di solito è lei, la sua presenza maliziosa, a farle saltare i nervi. Elena che ricuce lo strappo, che riesce dove lei ha fallito, che aleggia tra loro come una strana presenza e sbroglia le trame: non le è mai andato giù. Che Loria gli abbia tirato fuori ciò che una volta sarebbe stato compito suo.

Occhiata rapida al cellulare.

Elena, dai, cazzo: rispondi! Perché so cosa dice di te, so che non parla d’altro, e non credo a una sola parola.

Rispondi, dammi un cenno di vita; vieni qui e dimmi come la vivresti al mio posto, come te ne tireresti fuori.

 

* * *

 

Serata appena un gradino sopra il livello di inutilità-standard, atmosfera di scazzo un po’ sopra la media inglese con doppio strato di tensione spalmato alle pareti tipo stucco a presa rapida. Unica soluzione, quando l’adrenalina sale, inghiottire il rospo e masticare accordi su accordi, la chitarra come scudo protettivo; prendere l’angoscia con le pinze e farla cantare, farla ruzzolare fuori fino a trattative concluse. La rabbia vera, quella densa che gratta contro lo sterno, meglio impacchettarla provvisoriamente fuori dalla saletta, perché la concentrazione è un puro fatto di respirazione e meccanica.

Patrizio riprende fiato, si scosta i capelli e si deterge la fronte, le corde vocali provate dopo una mattinata da incubo con la Longoni e un pomeriggio da limbo in sala prove a dieci euro all’ora. Da pazzi. La tinta per capelli dalla modica durata di otto lavaggi scarica che è una meraviglia – una mano di colore prima di sabato, e un Lastella tirato a lucido fino alle unghie dei piedi diventa l’ingranaggio tecnicamente perfetto.

Non ha scollato gli occhi da terra da quando l’ultima nota ha frustato l’aria e ha posato la chitarra: preferisce guadagnare tempo rovistando nelle viscere della borsa malandata tra un lavaggio e l’altro, spillette tintinnanti infilzate qua e là e macchie scrostate di bianchetto e Uniposca che un tempo erano scritte, simboli, dediche, frammenti di passato, dichiarazioni d’amore e di eterna amicizia dei tempi delle superiori.

Un cuore circoscritto a un pentacolo vergato sul fondo della borsa con rapidograph e certosina precisione nei tempi che furono, in ricordo della sua prima volta con Andrea e delle altre che hanno seguito, un’ombra appena visibile, uno strappo vivo che brucia come acido versato in gola. È sempre lì nascosto, latente, uno spillo conficcato nelle carni che vibra a intervalli irregolari, che ti estorce un sospiro, quando pensi che te la porti ancora lì, tatuata addosso, la cicatrice pulsante che ti parla di lui, di Andrea che sorride dietro la cortina di capelli bagnati e ti allunga il flacone del bagnoschiuma, il getto bollente della doccia che gli ruscella sulle spalle, la piega languida della bocca, le palpebre che si socchiudono, quando le tue mani scorrono lungo il disegno candido delle scapole. E il ricordo, lo scarto temporale riprende a bruciare addosso, a friggere come calce viva.

Patrizio ravana nel taschino posteriore della borsa fino a cavarne fuori, con le guance accaldate e una soddisfazione volatile, mezzo pacchetto di chewing-gum gusto dentifricio, aspartame e altre schifezze, per tamponare la botta di malinconia ruminando in tutta calma dubbi e risatine del cazzo nel corso della prossima mezz’ora. È tutto ciò che offre la ditta.

I sussurri alle sue spalle gli mordono la nuca come pensieri sconnessi, l’impronta allusiva scivola nella stanza e accarezza le pareti arancio fluo sotto la luce soffusa di qualche faretto stitico, poster di gruppi più o meno rock più o meno emergenti che occhieggiano qua e là, appesi alle pareti in qualche tempo remoto: qualcuno avrà immerso gli artigli in un contratto stellare, la maggior parte sarà caduta nel dimenticatoio nel giro di quattro serate mal pagate. Vita di merda.

- Epicenter… Epicenter. Suona mica male – Basile schiocca la lingua, rigirandosi le sillabe tra i denti all’ennesimo cambio di nome e rimpasto random della dannata scaletta per sabato.

Schizzato come una molla: il suo benedetto basso l’ha fatto andare da dio, stasera, e ha sudato sette camicie per stare al tempo con le sue evoluzioni. Il prezzo di un’esibizione senza intoppi, con Basile, si traduce in voglia di attaccar briga o crisi d’astinenza da prese per il culo. Oggi è la seconda opzione, domani chissà.

- Ma pare il nome di un farmaco. Dalla A allo zinco – conclude.

- Quello era Multicentrum, ignorante – Piani gli affibbia un coppino sulla nuca come una pacca fraterna.

Forse Ettore Moro, che un giorno ringrazieranno per la trovata, ha previsto anche la prossima scossa sismica a ore dodici.

Patrizio azzarda una risatina di circostanza: riempire con spirito di improvvisazione il vuoto di parole che turbina nell’aria, amico, lo stai facendo bene. Perché ci sarebbe tanto da dire e da scavare, ma nessuno pare intenzionato a staccare la lingua dal palato e dalle cazzate di circostanza.

Ma se qualcuno ha innescato la bomba, e l’esplosione è imminente, non resta che contare i secondi che mancano o, se si è abbastanza scafati, improvvisarsi artificieri.

La perla della serata è la dedizione maniacale con cui ognuno si è morso la lingua e ha fatto il suo dovere, senza che gli argomenti-tabù – Thompson, Balducci e camere fottute alla Casa dello Studente – rimbalzassero nella stanza anche per sbaglio: sarebbe stata la fine, e addio prove e addio pace armata.

Patrizio mastica la gomma e finge di smanettare con il cellulare, i gomiti contro le ginocchia e il bordo della sedia che gli taglia in due le chiappe. Hanno finito mezz’ora prima: cinque euro dei dieci pattuiti nuotano in fondo alla tazza del cesso.

Ettore ignora di essere stato appena tirato in ballo, sprofondato in un mutismo assorto. Non si è mai detto fosse un tipo loquace, ma stasera sembra giù di tono: bersaglio perfetto per frecciatine e domande impertinenti, con il peccato mortale di non tenere bordone agli altri due con sane sghignazzate a comando. Pronti, puntare, fuoco.

- Però… bella squadra! – Basile salta giù dallo sgabello, pimpante e ben intenzionato a sfottere a casaccio e far sprizzare la scintilla che movimenti una serata agonizzante – Il club dei depressi al completo: un comico prestato alla musica che fa battute da seminario, un vocalist finocchio con un mazzo di spinaci al posto dei capelli, uno che si chiama Moro ma è biondo…

- E uno che brontola e caga il cazzo dall’alba al tramonto e oltre – lo incalza Piani, il celebre sorrisetto storto tornato in auge sul muso sbarbato di fresco.

- Ragazzi, sul serio! Dovremmo festeggiare e stappare lo champagne. E invece no: le due belle addormentate sembrano a un passo del taglio delle vene. Dico a voi: parlate ora o tacete per sempre – Basile incrocia le braccia sul petto, il peso di tutto il corpo che grava sulla balaustra di metallo.

Allunga un piede, svogliato, sfiorando prima lui e poi Ettore. Se fosse una lumaca, Patrizio si ritirerebbe dentro il guscio, e buonanotte mondo. Anche Ettore si gaserebbe all’idea, se potesse leggergli nel pensiero. Purtroppo per lui, è tanto se legge la data di scadenza dei fagioli in scatola.

Perché non ci lasci in pace?

- Di cosa dovrei… parlare o tacere per sempre? È andata da dio e siamo un branco di strafighi fottuti – Patrizio gli pianta in faccia un sorriso forzato – Le mie corde vocali rinsecchite vanno come un treno, non assomiglio a un citofono strozzato negli acuti, le prove sono belle e finite… Andiamo in pace.

- E tu, amico sfigato? Problemi con la fidanzata? – Basile sogghigna, ignorandolo: la sua vena acidula è tutta per Ettore che tenta di scomparire senza successo, capo chino e capelli biondi che gli spiovono sulla faccia.

- Perché “sfigato”, scusa? – impossibile trattenersi: Patrizio si morde le labbra, serra i pugni contro i fianchi, ma la lingua lo precede con qualche secondo in vantaggio – Che ha fatto di male?

Se la bomba deve esplodere, che lo faccia ora, senza menarla per le lunghe.

Moro continua a tacere nei suoi cinque minuti di vergogna, gli occhi puntati a terra: serata no. Se anche tu mi diventi emo, amico, sei fottuto.

- Vedi un po’ te: è un morto che cammina e suona la chitarra. E poi muore. Non si è mai visto con una ragazza, manco per sbaglio! Davvero, comincio a pensar male… – Basile scoppia a ridere.

Patrizio serra le mascelle quasi con dolore: non è cattivo come vuole dipingersi, forse sta punzecchiando per rompere il mortorio, e non è stronzo come si dipinge. Anche se si comporta come una merda e stasera ce l’ha con Moro, che è comunque un essere umano, ha anche lui diritto alle sue oneste vene depressive, ed è pure abbastanza carino da non scaricarle dove capita.

Sogna, Patrizio.

- Pensate un po’: Moro e Piani che dividono la stanza da bravi fratellini – ammicca verso Francesco – Se volete approfittare, non so, fate vobis! Tutto grazie a Lastella aggiusta-tutto che si accolla il fardello – gli soffia, affinando i suoi strali – Volete fare la fine dell’amico Lastella?

- La fine di Lastella!… Lo dici come se fosse una brutta cosa – Patrizio sgrana gli occhi: se riesce a comprimere il tutto nella modalità scherzo-da-frate, forse c’è ancora speranza di uscirne con le palle indenni.

- Oh, taci tu… per carità! – Basile lo guarda storto – Con te che ti trombi l’intrombabile e Moro allergico alla patata, tra un po’ sarò l’unico maschio alfa e rappresentante etero di una band di smidollati. Vedi un po’ te.

Patrizio trasalisce, incassando il colpo: Moro e la sua singletudine indefessa sono pretesti, contorti pretesti per prenderla larga, intrecciare metafore e allusioni e, quando meno te l’aspetti, quando ti ha stordito di chiacchiere, scagliarsi con la grazia di un caterpillar sull’argomento che gli prude sulla lingua da ore.

- Non mi sto trombando nessuno, se vuoi saperlo. Tu hai mai diviso la stanza con un collega munito di pisello senza pensare di saltargli addosso? Io sì: non è difficile, rappresentante etero.

- Ecco – Basile lo squadra da capo a piedi, gli occhi che scivolano con nonchalance da lui a Moro come strani esemplari nel regno dei virus – Siete in due. Moro non ci prova mai con nessuna, e nessuna se lo caga di striscio; tu ti becchi un due di picche persino da Emo- boy… Ragazzi, non so: io inizierei a preoccuparmi.

Patrizio incrocia le braccia sul petto, le labbra strette a raccogliere la sfida: se Basile voleva metterla giù così, spietato, non poteva scegliere un frangente migliore.

- Senti, ti dà fastidio che stia in camera con Alex, vuoi farmelo pesare a suon di prese per l culo?

- No – la faccia di Basile si ricompone in un cipiglio serio – Mi dà fastidio che quello ti rigiri intorno al mignolo, e tu ti ci rincoglionisca dietro.

- Quello ha un nome. E non me lo devo certo sposare.

- Grazie al cielo, qua ‘sta merda non è legale. Per carità! – Basile storce il naso con tutto il disgusto che riesce a comprimere in una manciata di secondi – È strano, però: appena il tuo cucciolo fa qualche cazzata e si mette nei guai, zac, arriva il cavalier Lastella a punire noi malvagi.

- Spero che non sia mai necessario – Patrizio sibila tra i denti, il panico che sale a ondate e gli martella nelle tempie.

 

Ha capito anche lui, accidenti a lui, se ha capito. È così evidente…

Thompson ti piace: negalo, se ce la fai. I fianchi ossuti ai limiti dello scandalo, le scintille improvvise quando si passa la lingua sulle labbra e ammicca al tuo passaggio; le natiche piccole e sode da adolescente e la sua fottuta cintura borchiata a prova di arrapato, stretta pochi millimetri sopra l’inguine; la barretta di metallo infilata nel capezzolo che non aspetta altro che i tuoi denti.

Fa male, cazzo, perché non siete questo, un guazzabuglio di ormoni impazziti e immagini scollegate.

Forse vuoi solo evitare di metterti in gioco, di tuffarti dentro in prima persona, e Basile fa al caso tuo, con la sua lingua assassina che ti riduce a un ammasso decerebrato di testosterone con occhi, braccia e sensi sfasati, a un ragazzino alla prima poppata che smania dietro il succhiatore di lecca-lecca.

E poi pensi ad Andrea che cade in piedi, atterra sui cuscinetti e ha le ossa d’acciaio, perché è riuscito ad andare avanti, lui, è riuscito dove tu continui ad arrancare, a perdere tempo, e allora tutto va a rotoli. Diventa il delirio a senso unico di un pazzo che cammina sulle sabbie mobili e cerca di aggrapparsi a qualcosa.

 

La paura di non controllare il prossimo scatto, l’impulso a sciogliere la morsa di gelo che gli strizza lo stomaco, e urlargli addosso, non si sono esauriti. Non con due scuse raffazzonate, la strafottenza di chi crede di avere la verità cucita in tasca, e un bambino terrorizzato che, di fronte al suo aguzzino, negherebbe pure di chiamarsi Alex. Ha finto di mandar giù la loro versione edulcorata, ma non aveva considerato il veleno del sospetto che rimescola il sangue nei giorni a venire.

- Non devi fargli da guardia del corpo, Stellina – Piani si è intromesso nel discorso con il tempismo del falco sulla preda; la faccia pseudo-rassicurante stride con il tono di voce di chi non tollera obiezioni e soprattutto non vede l’ora di mandare il discorso a puttane, congelare la questione prima che gli esploda tra le dita – Thompson sa difendersi benissimo da solo. Ci va mica leggero con le parole: ti provoca, ti ronza intorno, aspetta la tua reazione, e poi va a frignare da mamma Lastella. È orrendo.

È braccato da tutte le parti, ne ha fin sopra i capelli di voi che gli muovete accuse ridicole e lo trattate come merda, e le sue uniche cartucce in canna restano punzecchiare e rispondervi alla cazzo di cane.

- Non ha da temere – Basile cerca di riprendere le redini della situazione con un’occhiata complice a Piani e una manata pseudo-amichevole, la faccia di chi la sa lunga, di chi ha ragione per decreto divino: ha fottutamente ragione, come sempre, vietato stimare l’errore relativo e quello assoluto – Il tuo ragazzino. Tra un po’ si leva dalle palle… Balducci permettendo, e ciao Lastella – ridacchia – Magari è la volta buona che rinsavisci.

- Non è il mio ragazzino – Patrizio serra le dita sul corrimano, la frenesia di rituffarsi nel discorso e riprenderne il controllo; i denti scricchiolano sotto la morsa delle mascelle contratte – Non credo che si leverà dalle palle solo perché a te non va a genio. Ti dà proprio fastidio?

- Diciamo che è una questione di spazio vitale. I posti qua dentro sono contati: o sai il fatto tuo o sei nella merda. Se Thompson non fosse all’altezza - e non lo è - e sbaraccasse fuori dai coglioni, sai che vorrebbe dire? Un elemento inutile in meno, un posto bloccato da un inetto che si libera per magia. Mors tua vita mea, amico. Non me lo sto inventando, è così che funziona, anche se fate gli schizzinosi. E prima lo capirà, il tuo amichetto, meglio andrà il suo soggiorno. Sei un debole? Ti offendi se ti dicono le parolacce? Caz-zi-tuoi. E, per la cronaca, il caro Thompson avrebbe anche frantumato i coglioni con il suo vittimismo. Non è una vittima: ha voluto la guerra? Adesso tira fuori le palle e affronta le conseguenze.

- Vittimismo?! Ma se neanche fiata! Con me, almeno. Fingerò di non aver sentito l’ultima parte, davvero – Patrizio sbuffa e si sistema la chitarra sulle spalle con uno strattone, le dita malferme.

Il peso improvviso dietro la schiena lo scuote dall’escalation di nervosismo come uno schiaffo: se la risposta tarda un decimo di secondo, è fottuto. Basile ha ottenuto la resa incondizionata e il discorso completamente deviato, e lui è lì che prova a reggersi in piedi.

- Ecco, bravo ragazzo. Non pensare troppo, ché ti fa male alla salute. Tanto, vuoi saperlo? Non cambi proprio un cazzo. Pensa piuttosto a sabato, ad azzeccare due note su tre e rimediarmi una performance decente, perché la posta in gioco è bella alta – cinguetta, acido – Lo “Chat Noir”: non era anche il tuo sogno?

Molleggia sulla suola sfondata degli stivali: chiudere con doppio giro di chiave la sfortunata parentesi è l’imperativo categorico, poi via a fingere che tutto vada bene, che non ci siano santi che tengano e ragazzini mitomani con gli occhi truccati, pronti a rovinare la piazza – glielo legge in faccia, nel grumo d’ansia traditore che gli si incunea tra le sopracciglia. C’è l’ansia di deviare l’attenzione. Concentrandosi su Ettore, magari.

- Moro, ci sei? – tuba a pochi centimetri dalla sua faccia, sventolandogli una mano davanti agli occhi per assicurarsi che sia ancora nel mondo dei vivi – Pronto? Vuoi aggiungere anche tu la tua pillola di buonismo quotidiana, o possiamo passare alle cose serie?

Ettore scuote le palpebre, a disagio – Patrizio comincia a provare pena per lui che se ne sta lì con il morto davanti, lo scazzo in tasca, l’unico desiderio di essere lasciato in pace, e uno che gli punge le chiappe con uno spillo.

- Eh? – attimo di straniamento – Per me ha ragione Lastella: state esagerando, ne state facendo un’odissea.

- Prego? – Basile scoppia in una risata stridula, seguito a ruota da Piani – Cosa intendi con “esagerare”? – avanza verso di lui, le palpebre ridotte a fessure e il suo ghignetto onnipresente.

Ettore deglutisce a fatica – Patrizio riesce a scorgergli il pomo d’Adamo che va su e giù sotto il guscio della pelle lattiginosa, lo sguardo che vorrebbe schizzare altrove per non lasciarsi sfuggire troppo, ma resta ancorato lì.

Se Moro cede e gli vomita in faccia ciò che pensa, è ammutinamento in piena regola.

Capitano, mio capitano, non sei più il nostro capitano.

- Con Thompson… – sputa fuori – La state facendo fuori dal vaso.

Stringe le labbra, perché Basile ha alzato un sopracciglio e l’ha inchiodato al muro senza alzare un dito.

- Ma che stronzate! Potrai dire che esagero, quando lo vedrai vomitarti qualche litro di sangue sulle scarpe e inciampare sulle proprie budella. Allora sì: avrei esagerato. Ma non mi sembra il caso: gli ho solo fatto notare in maniera giocosa che mi fa cagare ed è meglio che stia alla larga, e che i raccomandati incapaci mi ispirano schiaffi volanti. Problemi?

- Ho capito – Ettore gli posa una mano sulla spalla – Ci vuoi carichi e soprattutto incazzati. Ce la stai mettendo tutta.

Compromesso dell’ultimo secondo, prima che la maionese impazzisca.

- Eccolo. Moro è un bambino saggio. E ora – occhiata strategica verso l’orologio – con permesso, avrei una ragazza che mi aspetta, al contrario dello sfigato e di Stellina, quindi ci vediamo domani. Fate i bravi mentre non ci sono, non accettate caramelle dagli sconosciuti; Lastella, lavati i capelli, ché fai schifo. Buona serata.

Acidità rituale tornata ai livelli standard come per magia. Patrizio tira un sospiro di sollievo, la presa sulla tracolla che stringe fino a segargli le dita, il peso sbilanciato a sinistra che per poco non rotola giù dalla ringhiera. Fruga nella tasca striminzita dei jeans, alla ricerca del suo spiegazzatissimo biglietto dell’autobus.

- Mi dici che ti ha fatto? – si avvicina a Basile, allungando il passo.

- Uh?

- Moro: è tutta la sera che lo tratti da schifo. Non è di compagnia, ma non vedo il motivo…

- Qualcuno gli avrà fregato i Tampax – Basile scuote il capo con l’aria di aver a che fare con sciami di imbecilli – Da’ retta a me: c’è di mezzo qualche ragazzina, e Moro non vuole dirci nulla perché è timido e si vergogna, come i bambini. Lo conosco, gli piace fare l’uomo del mistero.

- Mah… – Patrizio si stringe nelle spalle e lascia cadere il discorso.

Ho bisogno d’aria. Di schiarire le idee.

Accenna un saluto a labbra strette e imbocca l’uscita respirando a pieni polmoni la città intrisa di smog e di bagliori familiari, di luci tremolanti che gli bruciano in fondo alle pupille e insegne al neon in puro stile decadente.

Aria. Frizza sulla pelle il tanto che basta a dissipare lo stress appiccicato addosso come sudore secco.

L’autobus arriva sferragliando, sfila davanti ai suoi occhi come un vascello fantasma: se si sbriga, forse riesce a prenderlo al volo e a rinchiudere i propri casini dietro la porta scorrevole, zoppicare fino ai posti in fondo e cullarsi nella sua pallida illusione fino a destinazione. Anche stavolta.

 

   
 
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