~ 7°_ Breakeven ~
Ad Emilia, perché parte del capitolo la dobbiamo solo
a lei.
«Mi dispiace, mi dispiace davvero tanto».
«Com’è successo? Cosa… cosa…».
«Una complicazione imprevista. Ha avuto un
collasso ed è morto prima che riuscissimo a capire che cosa stesse andando storto.
È stato troppo repentino per poter intervenire».
La donna abbassò la testa, annuendo mentre
il corpo tremava e si appoggiò al marito che, shoccato,
guardava ancora di due medici davanti a lui come se si aspettasse altro, come
se fosse convinto che da un momento all’altro avrebbero sorriso, dicendo che
era tutto uno scherzo e suo figlio sarebbe uscito dalla sua camera sulle
proprie gambe, con il suo meraviglioso sorriso e delle scuse imbarazzate per lo
spavento.
Sì, aspettava anche lui quella scena, poco lontano dai genitori
della vittima. Si aspettava di vederlo da un momento all’altro e tanto gli
sarebbe bastato. Niente di eclatante, nulla di eccessivo. Solo vederlo e
sarebbe stato di nuovo bene.
Ma non succedeva. I medici rimanevano seri,
la porta della stanza chiusa. L’aria in quel corridoio troppo bianco cominciava
a mancare e l’unica soluzione possibile sarebbe stata quella di scappare.
Scappare, dove la verità non avrebbe mai
potuto raggiungerlo, dove il dolore non avrebbe fatto male, dove le speranze
non sarebbero state vane. Perché se non sapeva, se non glielo avessero detto,
per lui non sarebbe stato vero, giusto?
Corse via, senza badare a chi si sarebbe
trovato davanti ed avrebbe travolto. Non si sarebbe fermato fino a che non
sarebbe stato al sicuro. Anche se non sapeva dove lo sarebbe stato davvero. La
luce pallida di una giornata nuvolosa lo colpì in modo violento, accecando gli
occhi e costringendolo a continuare a camminare a testa bassa, senza davvero
vedere dove andasse.
In un attimo fu a terra, senza sapere bene
come fosse caduto – non che gli importasse, poi. Il ginocchio bruciava in modo
fastidioso e anche il braccio su cui era caduto faceva male. Tentò di
rimettersi in piedi con difficoltà, ma gli bastò arrivare a mettersi in ginocchio
per sentire un dolore lancinante alla testa. Chiuse forte gli occhi e portò una
mano alla fronte, accorgendosi che doveva averla sbattuta sull’asfalto, perché
perdeva sangue.
Sangue. La sola vista fece girare tutto ciò
che lo circondava. Non che di solito gli desse fastidio, ma adesso la sola
vista era quasi insopportabile.
«Oddio…», sussurrò stravolto.
E’
colpa tua. È il suo sangue. E continua a scorrere per colpa tua: passa il tempo
e non stai facendo nulla per lui. Lo stai uccidendo, lentamente.
Si prese la testa tra le mani perché gli
sembrava stesse per esplodere. A corto di fiato non poté fare altro che
accasciarsi senza forze per terra, il freddo che lo stordiva. Magari avesse
potuto portare via anche il dolore che stringeva il suo petto.
La
sensazione di cadere nel vuoto, come se si fosse lanciato dal tetto della
Dalton, lo colpì togliendogli il fiato e svegliandolo di botto, come se fosse
impattato col materasso da chissà quale altezza. Spalancò gli occhi, spossato,
i viscidi rimasugli di un sogno troppo vivido che lo sporcavano, e l’unica cosa
che desiderò fu dimenticare: il tentato suicidio, l’esplosione al McKinley, il
coma di Thad, le sue parole, il suo viso, la sua e la propria assenza.
Dimenticare tutto, estraniarsi, tornare ad essere il ragazzo superficiale e
distaccato che era sempre apparso. Questo gli sarebbe bastato, ma probabilmente
era chiedere troppo.
Le
lacrime uscirono con disperazione dagli occhi, unica valvola di sfogo in quella
assurda situazione e gli diedero parvenza di stare meglio, di svuotarsi mentre
soffocava i singhiozzi nel cuscino.
*
Cooper
Anderson tornò dalla sua corsa mattutina quando l’orologio non segnava ancora
le 7:00. Aprì lentamente il portoncino di casa e lo richiuse cercando di non
fare rumore – anche la scorsa notte, nonostante ormai fosse passata una
settimana dall’incidente al McKinley, Blaine aveva faticato a prendere sonno,
addormentandosi poi solo poco prima dell’alba. Per nulla al mondo avrebbe
rischiato di svegliarlo.
Con
il passo felpato che aveva imparato al corso di recitazione, attraversò il
corridoio per arrivare in camera sua e prendere un cambio prima di andare a
farsi una doccia, ma quando entrò rimase spiazzato. Blaine era in ginocchio
davanti al suo armadio, stringeva qualcosa tra le mani e tutti i cassetti della
stanza erano aperti.
«Credevo…
credevo che fossi andato via… E non poteva essere vero… perché me l’avevi
promesso, che saresti rimasto con me… e allora ho pensato che se la tua roba
era ancora qui, voleva dire che dovevi esserci anche tu…».
Il
balbettio del suo fratellino riscosse il maggiore dal lieve stato di trance in
cui era finito per lo stupore di quella scena; gli si avvicinò lentamente, da
dietro, per poi inginocchiarsi ed abbracciarlo.
«È
così: non ti lascerò da solo, Blaine. Ero solo… andato a fare una corsa…», lo
rassicurò, ed il minore gli si strinse contro.
Cooper
sussultò: un improvviso bisogno di piangere gli aveva attanagliato la gola.
Avrebbe dovuto aspettarselo, dopotutto: non poteva di certo credere che
sarebbero bastati pochi giorni per sistemare le cose tra loro, fare sì che
avesse completa fiducia in lui e nelle sue parole, come se quegli anni di
lontananza semplicemente non fossero esistiti. Eppure ci aveva sperato. Per un
attimo aveva pensato che con Blaine il peggio fosse passato, che il resto
sarebbe stato solo in discesa. Illuso. Mentre lo stringeva tra le braccia, capì
di essere solo un povero illuso: chissà se Blaine sarebbe mai riuscito a
perdonarlo del tutto.
Quando
gli parve di essersi calmato e che anche suo fratello stesse meglio, si azzardò
a lasciarlo andare, per alzarsi. Blaine non fece una piega, ma si mise in piedi
lentamente, stringendo a sé un maglioncino di filo blu. Cooper lo guardò
interrogativo.
«Lo
avevi l’ultimo giorno che ti ho visto… prima che partissi per il college»,
sussurrò il riccio «Lo ricordo perché io e la mamma lo avevamo scelto insieme.
Doveva essere il mio regalo per la tua partenza, non so se te l’ho mai detto…».
Gli
occhi del maggiore luccicarono, velati di nuove lacrime.
«Sì,
lo so. Per questo è lì, per questo l’ho portato con me. Lo porto sempre con
me».
Stavolta
fu Blaine a sorprendersi. Lo sapeva? L’aveva sempre saputo e l’aveva portato
con sé?
«Non
ti ho mai dimenticato, Blaine. Per quanto possa essere sembrato il contrato ai
tuoi occhi, io non ti ho mai messo da parte: hai sempre fatto parte della mia
vita, in un modo o nell’altro… e mi spiace così tanto di averti trascurato,
vorrei davvero che tu capissi quanto…».
«Ci
sto provando, Coop. Dammi solo ancora un altro po’ di tempo», sussurrò il
minore: avrebbe davvero voluto non aver paura che ogni volta che suo fratello
usciva sarebbe potuto essere per non tornare, ma la paranoia lo attaccava
spesso, non poteva farci molto per ora.
«Mi…
mi accompagneresti da Kurt?», chiese poi.
«Ma
certo! Corri a vestirti!», acconsentì Cooper, facendogli notare che era ancora
in pigiama.
«Sì,
tesoro, tutto come al solito... non ci sono stati cambiamenti particolari. Non
so se esserne sollevato o meno», sospirò Burt Hummel, reduce da una notte
insonne, a vegliare sul figlio.
«Ma hanno detto che risponde a determinati
stimoli dolorosi e che le pupille sono in parte recettive, è solo questione di
tempo, tesoro: si risveglierà», cercò di incoraggiarlo, come sempre Carole.
Burt
annuì. Sì, aveva fiducia in suo figlio, tutta la fiducia del mondo, ma
cominciava a chiedersi per quanto avrebbe parlato con Kurt senza essere
risposto, quante altre notti avrebbe passato al suo capezzale, quante altre
volte avrebbe dovuto ascoltare le stesse parole incoraggianti di sua moglie.
Sospirò leggero. Quello che davvero lo spaventava era il non sapere per quanto
sarebbe riuscito ad andare avanti. Certo, abbandonare suo figlio al momento era
inconcepibile, ma sapeva anche che il tempo logora le persone e non poteva fare
a meno di chiedersi se sarebbe stato lì anche nel caso peggiore, nel caso in
cui Kurt non si fosse più svegliato, o se il dolore sarebbe stato troppo forte
per sopportare una cosa simile. Il non sapere come avrebbe reagito alla cosa lo
terrorizzava.
«Passi da casa adesso?», chiese la
moglie in un sussurro.
«Sì…
appena Cooper e Blaine saranno qui, vengo».
Non
avrebbe voluto, ma come al solito le parole del fratello di Blaine erano state
persuasive e categoriche: sarebbero stati entrambi lì, quindi lui avrebbe
potuto riposarsi un po’.
Pochi
minuti dopo che ebbe salutato Carole, il viso pallido del ragazzo di suo figlio
apparve dal corridoio. Con passo svelto arrivò davanti alla stanza di Kurt e fu
sufficiente uno sguardo tra i due per parlarsi. Erano sette giorni che andavano
avanti così le cose, per la precisione. Sette giorni che a loro parevano nello
stesso momento attimi e secoli destinati a non passare più.
Blaine
si gettò tra le braccia di Burt quasi con bisogno quella mattina e l’uomo
dovette capire che c’era qualcos’altro che l’aveva turbato, perché lanciò uno
sguardo serio a Cooper. Il maggiore degli Anderson sospirò lentamente e scosse
la testa, senza aggiungere nulla, così che Burt si trovò semplicemente a stringere
più forte a sé il riccio.
«Se
dovesse esserci qualsiasi novità-».
«Sarà
il primo a saperlo, signor Hum- Burt», concluse per
lui Blaine, ancora indeciso su come chiamarlo, nonostante avesse avuto il
permesso di farlo da tempo.
L’uomo
annuì un’ultima volta, stringendo la spalla del ragazzo, prima di andare via,
lasciando il solito sguardo di monito a Cooper. Loro due non avevano mai
parlato davvero da quando si erano trovati in quella situazione, semplicemente
perché non ne avevano mai sentito il bisogno effettivo. Era un tacito accordo
di protezione e sostegno reciproco che andava avanti da giorni sempre allo
stesso modo. Burt era grato del fatto che da simili genitori erano comunque
cresciuti due ragazzi d’oro come quelli.
Blaine
fece qualche passo avanti, fermandosi davanti alla porta bianca, come era già
successo nelle mattine precedenti. Vi poggiò contro la fronte e chiuse gli
occhi per qualche istante, facendosi forza. Non che non avesse il coraggio di
entrare, ma l’impatto con Kurt, ancora in quel letto, così lontano nonostante
fosse bloccato a pochi passi da lui, era sempre tremendo.
Riaprì
gli occhi con lentezza, ma allo stesso tempo con fermezza, ed abbasso la
maniglia fredda, entrando nella stanza. La prima cosa che lo accolse fu il
“bip” ritmico dei macchinari che monitoravano il suo ragazzo, poi il restante
silenzio della stanza.
Si
guardò intorno per qualche istante, come a volersi accertare che fosse tutto
come l’aveva lasciato la sera precedente, poi prese una sedia e si accostò a
Kurt sorridendogli e lasciandogli un bacio a fior di labbra prima di sedersi.
«Stamattina
Coop mi ha spaventato. Ho forse sono stato io a spaventare lui. Resta il fatto
che, nonostante sia qui con me da una settimana, alle volte ho ancora paura che
vada via. Lo so, sono un idiota a pensarlo perché davvero ho perso il conto
delle volte in cui mi ha detto che sarebbe stato con me… ma di tanto in tanto
succede qualcosa, anche solo una minima cosa e penso che se ne sia andato, come
se mi aspettassi che succeda da un momento all’altro… Sono una persona orribile
vero? Mio fratello mi chiede scusa e mi fa da balia ed io do di matto ogni
volta che non c’è, quasi non vedessi l’ora di constatare che se n’è andato per
davvero per piangermi addosso».
Blaine
aveva smesso di sentirsi in qualche modo stupido per tutte le volte che, in
fondo, parlava da solo in quella camera d’ospedale. Una parte di sé credeva che
Kurt potesse in qualche modo ascoltarlo, anche se non riusciva ancora a
comunicarglielo; un’altra parte semplicemente aveva bisogno di parlare,
sfogarsi, e Kurt era stato il suo migliore amico per così tanto tempo che
restava la sola persona con cui volesse parlare, anche in quelle condizioni.
Alzò
la testa, concentrandosi sul viso calmo del suo ragazzo e sorrise lieve: il coma
lo sfiorava senza riuscire a togliergli però la bellezza leggiadra che lo aveva
lasciato senza fiato da quel primo momento sulle scale; il pallore leggermente
più accentuato lo faceva sembrare fragile ma allo stesso etereo, come se non
appartenesse veramente a quel mondo. Blaine non sapeva quando quel pensiero
smettesse di affascinarlo per cominciare a spaventarlo.
«Sai,
stamattina mi ha chiamato Mercedes, mentre venivo qui. Mi è sembrata stanca
dalla voce, ma ha detto di stare bene e che sarebbe passata a trovarti nel
pomeriggio. Le manchi… manchi a tutti, Kurt. A me in modo tremendo. Perciò – a
costo di diventare ripetitivo e rompiscatole, perché so che puoi sentirmi,
spero che tu possa – ti prego, ti prego
svegliati. Insomma, prenditi il tempo che ti serve, ma torna da noi, da me».
Una
lacrima scese sul viso di Blaine che la scacciò velocemente, sorridendo, come
se non fosse mai esistita. Prese la mano di Kurt tra le sue e sospirò piano. Sapeva
che si sarebbe svegliato, ne era cecamente convinto e avrebbe atteso – solo, il
non sapere quanto gli toglieva il fiato.
«Allora è vero…»
Una
voce tremante – una diversa dalla sua – interruppe il silenzio e fece voltare
di scatto Blaine verso la porta. Sulla soglia, lo sguardo sconvolto che fissava
il letto, c'era Dave Karofsky, l'ultima persona che
si sarebbe aspettato di vedere. Il riccio sussultò, quel lieve sorriso che era
riuscito a mettere su per Kurt svanì e nonostante i “progressi” fatti nei confronti
di quello che era stato uno dei bulli del suo ragazzo, Blaine non riuscì a non
provare un'improvvisa rabbia per quella – a suo parere – inopportuna presenza.
«Che
diavolo ci fai qui?».
Il
ragazzo sussultò, come se solo in quel momento si fosse accorto realmente della
presenza dell'altro. Lo guardò per qualche istante senza battere ciglio né
proferire parola.
«Ho
sentito... ho sentito dell'esplosione e del fatto che alcuni ragazzi fossero
stati ricoverati… Ho saputo che Kurt era qui…», si giustificò Dave facendo qualche passo in avanti. Blaine non gli staccò
gli occhi da dosso, innervosito.
«Che
cosa ci fai qui?», chiede ancora, più freddo.
«Volevo
vederlo, sapere come stesse».
Era
vicino al letto, ora, troppo vicino, così vicino da poterlo toccare e Kurt non
si sarebbe spostato, non avrebbe fatto nulla per impedirlo.
«Non
voglio che tu sia qui».
La
freddezza con cui il riccio pronunciò quelle parole bloccò l’altro che alzò per
la prima volta gli occhi su di lui, dimenticandosi di Hummel. Lo guardò fisso,
quasi si stesse chiedendo perché fosse lì, perché lo stesse interrompendo: era
venuto per Kurt, solo per Kurt, non certo per il suo ragazzo. Poi ricordò:
aveva scelto lui, Kurt aveva scelto Blaine. Ecco perché era lì con lui. Questo
era quanto, però. Il suo compito non doveva andare oltre.
«Non
l’ho chiesto a te, se non sbaglio», si difese con forza «Sono qua per Kurt,
perché tengo a lui».
Per
Blaine fu troppo. Teneva a lui? Teneva a Kurt, al suo Kurt?!
«Tieni
a lui?!», gridò senza riuscire a controllarsi «Tieni a Kurt? E dimmi, tenevi a
lui anche quando lo sbattevi contro gli armadietti, quando l’hai spaventato a
tal punto da fargli cambiare scuola? Anche allora ti importava come stesse?!».
«Ho
smesso di essere quella persona».
«E
hai la presunzione di credere che questo cancelli ogni cosa! Come se potessimo
semplicemente tirarci su un bel colpo di spugna e tutto tornasse alla
normalità, giusto? Non funziona così, Karofsky!».
«Non
m’interessa quello che pensi tu, Anderson. Kurt mi ha perdonato, ha detto che
potevamo essere amici».
«Solo
perché lui è troppo buono. Tu non hai idea del male che gli hai fatto, non hai
idea di come si sia sentito, solo a causa tua. Potrai essergli amico, potrà
averti concesso questo, ma non credere che ti abbia perdonato: nessuno può
perdonare una cosa del genere».
«Lui
sì».
«Ti
sbagli. Kurt ha solo deciso che non gli importa, ha solo deciso di darti una
seconda possibilità e tu l’hai sprecata tentando il suicidio. Hai minacciato
lui per mesi e non hai retto neanche una settimana ed ora vieni qui a dire che
ti ha perdonato – come tu perdoneresti quelli che ti hanno spinto a tentare una
cosa del genere? Continui a ferirlo. Kurt era sconvolto dal tuo gesto, credeva
che fosse colpa sua-»
«Ma
non è stata colpa sua!»
«Credeva
che se avesse risposto alle tue chiamate da stalker
forse non avresti provato ad ammazzarti. Si sentiva in obbligo verso di te e tu
non hai fatto altro che farlo stare male, ancora. Quindi non venirmi a dire che
tieni a lui. Non è vero».
Dave era così sconvolto da quelle parole che ci mise
qualche istante in più del necessario per rispondere.
«Non
hai il diritto di parlarmi così. Forse non saprò come si è sentito Kurt, ma tu
non sai come mi sono sentito io. Non sai che cosa ho provato, non sai che cosa
provo. Stai solo sparando sentenze che neanche capisci».
«So che cosa si prova. So che cosa si
prova ad essere ferito e so che cosa si prova a cedere. E soprattutto so che
cosa si prova a stare accanto alla persona che ami senza poter far nulla per
aiutarla. So che Kurt è stato male – per molto tempo – e che gran parte della
colpa è tua, quindi non ti permetterò di andare oltre. Ora vattene».
Karofsky
si sentì punto sul vivo. Aveva fatto state male Kurt. Lo sapeva, ma sentirselo
dire aveva un altro effetto. Improvvisamente si sentì un verme e per quanto
avrebbe voluto battersi per difendere la propria posizione, capì che Blaine
aveva ragione, più ragione di lui quanto meno.
Si
disse che non sarebbe finita così, che avrebbe parlato con Kurt non appena si
fosse svegliato, ma quella mattina desistette ed uscì dalla stanza, come aveva
chiesto Blaine – ma non perché lo avesse chiesto lui.
Il
riccio lo guardò andare via, mentre ancora fremeva per la rabbia e poi tornò a
concentrarsi sul suo ragazzo. Se fosse stato sveglio probabilmente non gli
avrebbe permesso di cacciarlo così, ma non
era sveglio, quindi toccava a lui proteggere entrambi.
*
Muoversi
tra i corridoio della Dalton era una cosa che, dopo una settimana, gli risultava
così odiosa che se non avesse avuto impegni da rispettare si sarebbe
semplicemente accasciato in un angolo per il resto della sua vita, senza più
fare un passo.
Ma
ovviamente Jeff non poteva permetterselo: aveva le lezioni, i Warblers, la
preoccupazione per Thad che lo tormentava anche se il ragazzo stava migliorando
e di lì a qualche giorno lo avrebbero dimesso. E poi c’era Nick.
Nick
era il suo più grande problema e il fatto che mai si sarebbe sognato di poter
formulare una simile affermazione era forse la cosa che lo destabilizzava di
più. Perché Nick non era più lui, non era il suo Nicky, per quanto agli altri
apparisse fin troppo uguale a sempre.
Il
biondo sbuffo, appoggiandosi al muro del corridoio e riprendendo fiato. I
medici erano stati chiari: avrebbe dovuto muoversi quanto meno possibile e con
l’ausilio fisso delle stampelle per favorire la guarigione della gamba, ma la
verità era che non ce la faceva ad andarsene in giro in quel modo. Sarebbe
stato come avere i riflettori puntati continuamente addosso ed un indicazione
al neon che diceva “superstite devastato” e quella era la sola cosa di cui non
aveva affatto bisogno. Non voleva attenzioni, non voleva sguardi di pietà a
parole di conforto.
Rivoleva
la sua vita, i suoi amici, il suo Nick. Perché lui sembrava essere il solo a
non accorgersi della scritta al neol e dei riflettori
– con o senza le stampelle.
«Jeff!
Siediti qui!».
La
voce squillante di Cameron attirò la sua attenzione e il ragazzo camminò con
lentezza e, per quanto non avesse voluto, zoppicando vistosamente fino al posto
in mensa che il Warbler gli aveva tenuto.
Una volta a farlo era Nick.
Sospirò,
mentre si sedeva e non poté non notare lo sguardo leggermente preoccupato di
Richard. Gli sorrise, stanco ma consapevole che se non l’avesse fatto avrebbe
scontato una seria punizione – un interrogatorio senza fine sul “come ti senti”
di cui avrebbe sicuramente fatto a meno. Non ce l’aveva con lui, anzi: Richard
era carino a preoccuparsi, o anche solo a notare che le cose non andavano affatto
bene, ma dopo una settimana di domande era stanco di continuare a mentire a se
stesso e a lui dicendo che per quanto non stesse bene le cose si sarebbe
sistemate a breve. Perché era ovvio che non sarebbe successo.
«Come
va la tua gamba?», chiese Flint per interrompere lo strano silenzio che era
sceso non appena Starling si era seduto.
«Bene»,
mentì quello «Tra un paio di giorni devo farmi sostituire i punti, ma magari li
tolgono definitivamente».
Tutti
annuirono più o meno sollevati, alcuni dando delle pacche sulla spalla del
diretto interessato. Jeff però non aveva occhi che per Nick, che dal canto suo
non aveva detto nulla, ma stava anzi guardando da tutt’altra parte, come se non
fosse interessato alla cosa.
Una volta a Nick sarebbe importato.
«Ragazzi,
pensavo, perché dalla prossima riunione non improvvisiamo qualcosa?».
La
domanda di Nick sorprese tutti. Sebastian si lasciò scappare un sorrisetto.
«Non
so...», intervenne James «Con Thad ancora in ospedale e Jeff che non può
ballare...»
«Che
lagna, signori!», si lamentò il capitano dei Warblers «Per quanto ancora
andremo avanti con questo atteggiamento di impasse?
Insomma basta! Diamoci una svegliata!».
«Potevamo
morire tutti!», si oppose con forza Nicholas, esprimendo lo sconcerto generale
per parole tanto irrispettose «È un miracolo il fatto che siamo tutti qui a
parlarne e ti ricordo che Thad, il tuo
compagno di stanza, ha seriamente rischiato di non farcela! Solo perché tu
non ti interessi di nient’altro che di te stesso non vuol dire che dobbiamo essere
tutti quanti stronzi e senza cuore come te!».
Sebastian
sussultò. Avrebbe voluto gridare che si sbagliava su tutta la linea, ma in
fondo quelle parole erano ciò che voleva ottenere, quindi gli andavano bene.
Giusto?
«Il
fatto che l’abbiamo scampata bella non ci autorizza a piangerci addosso e a
ragionare sulla caducità della vita e delle cose umane», ribatté cercando di
essere quanto più fermo e pungente possibile «Questo pomeriggio abbiamo una
riunione alle 4. Sarà meglio che siate pronti a lavorare come sempre»,
consigliò freddamente, alzandosi dal tavolo ed avviandosi.
Si
fermò dopo pochi passi e voltò appena il capo, inquadrando il resto del gruppo
con la coda dell’occhio.
«Ah,
Nicholas: non parlarmi più di Harwood. Sai che le cose sono cambiate», concluse
con un sussurro, prima di andarsene veramente.
Il
resto della squadra si guardò perplesso: Smythe non aveva mai fatto mistero
della poca affabilità di cui era capace e ancora meno del fatto che
fondamentalmente non tenesse a nessuno lì dentro, ma avevano pensato che in un
momento simile anche lui si sarebbe comportato in modo quanto meno umano. Invece, sembrava che la cosa non
lo avesse minimamente sfiorato, anzi era peggio di prima.
Richard
guardò Cameron come se quel gesto bastasse a comunicare. L’altro sorrise con
fare rassicurante, ma annuì perché aveva compreso quello che gli stava dicendo:
qualcosa non andava con Sebastian e se quello era il suo modo di reagire
all’incidente loro capitato, beh, non sarebbe andato avanti per molto prima di scoppiare.
Era lui quello nella fase di impasse.
«Vado
anche io: torno in camera. Non verrò alla riunione: non potrei comunque fare
nulla».
Jeff
ruppe il silenzio con tono sconsolato e senza lasciare che qualcuno dei ragazzi
replicasse si allontanò traballante.
«Si
può sapere che cosa ti ha fatto?», chiese Trent,
ovviamente rivolgendosi a Nick, non appena il biondo fu abbastanza lontano.
Il
diretto interessato sembrò cadere dalle nuvole.
«Cosa…
cosa mi ha fatto?»
«Lo
tratti in modo pessimo da quando siamo tornati!», gli fece presente Jonh «Che cosa è successo?».
«Nulla…
noi… nulla, non è successo nulla», si difese Nick, preso alla sprovvista: non
pensava che se ne fossero accorti, non pensava che fosse così evidente il modo
in cui stava evitando di farsi coinvolgere da qualunque cosa implicasse il suo
compagno di stanza.
«Amico,
qualunque sia il tuo nulla, vedi di
risolverlo alla svelta: Jeff sta male e non permette a nessuno di avvicinarsi»,
consigliò, con una punta di risentimento Richard e tutti gli altri annuirono.
Nick
si sentì mancare il fiato: improvvisamente si sentì in colpa per quello che
stava facendo, per come si stava comportando da una settimana. Aveva chiesto a
Jeff di rimanere quelli che erano, ma in fondo lui stava solo continuando ad
allontanarlo, senza un reale motivo che non fosse la sua codardia.
«I'm
still alive but I'm barely breathing. Just prayed to a god that I don't believe
in, 'coz I got time while she got freedom, 'coz when a heart breaks no it don't
break even».
La
voce sottile di Jeff si espandeva per la stanza, triste. Ormai i ragazzi erano
andati alla riunione e almeno per un po’ sarebbe stato solo in camera per
davvero e non soltanto perché Nick si ostinava ad ignorarlo. Era ironico.
Avevano passato interi giorni a discutere su quanto dovesse essere frustrante
che il proprio compagno di stanza ti ignori ed ora si trovava nella stessa
situazione. Allora i soggetti erano Thad e Smythe, adesso loro due.
Era
così ironico da far male.
Gli
aveva detto che tutto sarebbe rimasto come sempre, gli aveva fatto promettere
che loro due non sarebbero cambiati e poi invece aveva semplicemente cominciato
a far finta che non esistesse. E dannazione, l’indifferenza era davvero la
peggiore delle cose. O forse lo era il fatto che lui sembrasse stare bene...
Nick stava bene anche senza di lui e questo lo uccideva perché aveva sempre
pensato di contare qualcosa nella vita del suo migliore amico – altrimenti a
cosa valeva la definizione di migliore
amico? A quanto pareva si era sempre sbagliato. Perché lui si sentiva
morire dentro ogni istante che passava e Nick era con gli altri Warblers a
cantare e ballare come se nulla fosse.
Come
se lui non esistesse.
«What am I supposed to do when the best part of me was always you? What
am I supposed to say when I'm all choked up and you're ok? I'm falling to pieces. I-»
«I'm falling to pieces».
La
voce del biondo si bloccò non appena una seconda prese il suo posto in quella
canzone. Si voltò di scatto per vedere Nick, a pochi passi da lui, il viso
pallido e gli occhi lucidi.
«Sto
cadendo a pezzi, Jeff», sussurrò il bruno, riprendendo il verso della canzone
che gli aveva appena sottratto «Stiamo entrambi candendo a pezzi».
Starling lo guardò come se non potesse davvero credere che
fosse lì, che stesse parlando di nuovo con lui, che ci fosse una speranza per
loro, per mettere le cose a posto. Perché era quello che voleva, giusto? Se era
lì era per sistemare tutto quello che era successo...
O
forse no. Forse era un altro dei suoi inganni, dei suoi maledetti compromessi.
Stavolta però sapeva come difendersi.
«Io
sto cadendo a pezzi, Nick. A te non frega nulla», lo corresse freddo,
alzandosi con sforzo per il movimento improvviso.
Il
bruno annuì senza staccare gli occhi dal compagno di camera: era vero, a lui
non era fregato nulla di Jeff in quella settimana, o almeno aveva fatto di
tutto perché sembrasse così. Ma se solo avesse saputo la verità, se solo avesse
saputo che cosa si agitava in lui, Jeff non avrebbe mai pensato una cosa del
genere. A lui importava, importava terribilmente.
«Sono
stato uno stronzo, hai ragione Jeffie, ma-».
«Jeffie?», gridò il biondo con risentimento – la
rabbia era la sola cosa che sentisse al momento e non sarebbe stato più in
grado di trattenerla «Come osi chiamarmi così adesso? Jeffie non c'è più, lo stai ammazzando, come stai
ammazzando Nicky e la colpa è solo mia perché te lo sto lasciando fare! Sto
lasciando che tu distrugga me e che distrugga il ricordo che ho di te, del vero
te, il te di cui ero innamorato».
Non
avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto mantenere quell'aria incazzata da
sfida, fredda ed impassibile, l'aria che aveva avuto Nick in quei giorni e che
in realtà non era mai appartenuta a nessuno dei due. Eppure le lacrime rigarono
il suo viso prima che se ne potesse rendere conto, mentre stava ancora
parlando. Faceva male dare voce ai pensieri, faceva malissimo.
Nick
trattenne il fiato come se ogni sillaba lo avesse colpito allo stomaco. Non se
l'aspettava. Poteva solo immaginare il male che stava facendo a Jeff, ma non si
aspettava una simile reazione. E poi... aveva detto che era innamorato di lui?
Assurdo, ma in tutto quello sfogo ora era la sola cosa su cui stesse
focalizzando la sua attenzione.
«E
sai cosa mi fa più rabbia? Che io stia qui a deprimermi mentre tu invece te ne
vai in giro come se nulla fosse, come se avessi cancellato in un sol colpo anni
di ricordi e non sapessi più neanche chi sono. Un cuore quando si spezza non
lo fa mai a metà, giusto? È ingiusto, tu sei ingiusto e vorrei che tutto
questo non facesse così male».
«Sei
innamorato di me?».
Jeff
avrebbe voluto ridere e piangere nello stesso momento, ma non ebbe la forza di
fare nessuna delle due cose. Da quanto Nick era diventato tanto idiota?
«Possibile
che io stia gridando da minuti e minuti e tu ti sia concentrato sull'unico dato
inutile di tutta la questione?!».
«Ma
è così, giusto? L'hai detto?», continuò a chiedere il bruno, avvicinandosi
sempre più all'altro.
«Se
non fossi innamorato di te non staremmo qui ad avere questa discussione, io non
starei piangendo, tu non staresti facendo lo stronzo e magari, dico magari,
staremmo ancora parlando come due persone civili, anziché gridare come matt-».
Le
labbra di Nick interruppero la voce arrabbiata e spezzata di Jeff, poggiandosi
sulle sue con leggerezza ed istinto, come se fosse stata la cosa più naturale
ed appropriata da fare in quel momento. Il biondo trattenne il fiato, senza
sapere che cosa fare, fino a che le braccia agirono quasi da sole nell'allontanarlo
da sé.
«Cosa
cazzo pensi di fare ora?», sputò come se lo avesse ferito ancora di più –
perché gli era piaciuta quella sensazione, perché ne aveva sentito la mancanza
nonostante l'avesse provata una sola volta.
«Ti
bacio».
«E
perché lo fai?».
«Perché
sono innamorato di te».
In
quel momento Jeff sentì il tremendo bisogno di prendere Nick a schiaffi. O
magari se stesso. Perché era tutto completamente assurdo e non poteva che
essere uno scherzo di pessimo gusto. Non riusciva a capacitarsi di quello che
il bruno gli aveva detto: non aveva senso! Non aveva senso che anche Nick fosse
innamorato di lui, ma che avesse al contempo deciso di tagliarlo fuori dalla
sua vita, non aveva senso che lo stesse facendo soffrire così...
«Ho
avuto paura. Lo so che sono stato uno stronzo, lo so che ti ho fatto stare
male... ma ho avuto paura che accettare quello che provavi, quello che anche io
provo sarebbe stato troppo. Se ti avessi perso? Sei la sola cosa sicura che
abbia al momento, la sola cosa a cui io possa aggrapparmi senza avere paura e
il fatto che mentre una scuola ci cadeva addosso tu mi abbia baciato è stato
destabilizzante. Ho pensato che se le cose non fossero andate nel verso giusto
non saresti stato più con me, neanche come amico... ed io non posso perderti, capisci?
Non posso. Non credo sarei capace di sopravvivere senza di te».
«Quindi
meglio trattarmi male e ferirmi... logico», sussurrò ancora rabbioso Jeff.
«No,
affatto. Non c'è nulla di logico. C'era solo paura, Jeffie.
C'ero solo io che non sapevo che cosa fare mentre sembrava che tutto mi stesse
cadendo addosso».
«Stava
cadendo addosso a tutti, Nick».
«E
tu non hai avuto paura? Non ti sei sentito al limite, pronto a dare di matto?».
«Sì,
certo che sì! Ma mi sono sentito così perché tu non eri con me!».
Il
bruno non riuscì a reprimere uno scoppio di pianto. Aveva davvero fatto tutto
questo? Fatto del male a Jeff così tanto senza rendersene conto? Ed ora… ora lo
aveva perso… ora non sarebbe stata la stessa cosa… ora…
Jeff
gli alzò il mento e lo guardò dritto negli occhi. Poteva vedere la loro
lucentezza che schiariva il colore delle iridi e non ci pensò per più di
qualche istante prima di baciarlo con lentezza, mischiando le loro lacrime,
lasciando che Nick capisse che era perfettamente
la stessa cosa, che con lui non sarebbe stato mai troppo tardi.
«Jeff…»
riuscì a sussurrare il bruno prima di riprendere le sue labbra morbide tra le
proprie e baciarlo ancora, come se fosse la sola cosa di cui avesse bisogno al
momento.
Si
chiese come avesse fatto fino a quel momento senza, perché quella sensazione di
morbidezza, di stare sospeso mezzo metro da terra, di non riuscire a staccarsi
da Jeff ed avere il cuore così pieno di gioia da poter scoppiare sembrava tutto
ciò di cui avesse bisogno.
«Non
ti ho perso, non ti ho perso, non ti ho perso», si ripeté non appena riuscì la
lasciar andare la sua bocca e lo strinse a sé con forza.
Jeff
poggiò la sua testa nell’incavo della spalla di Nick e si lasciò tenere così:
non l’aveva perso e lui era dannatamente grato per questa cosa. Era il suo
Nicky ora, il suo Nicky…
«Ti
amo…», sussurrò senza rendersene conto subito; quando lo capì, ebbe paura di
aver sbagliato di nuovo.
Il
bruno lo allontanò quel tanto che bastava per vederlo ed annuì, il suo miglior
sorriso messo lì solo per Jeff.
«Ti
amo» ripeté con semplicità, prima di tornare a stringerlo a sé.
*
Sebastian
trattenne a stento un nuovo lamento mentre il medico continuava a disinfettare
la ferita alla mano per mettere nuovi punti. Era più un gemito di nervosismo e spossatezza
per la situazione che per altro – lungi da lui lamentarsi come una femminuccia
per un taglietto – ma l’uomo non smetteva di alzare la testa in sua direzione
ogni volta che non riusciva a contenersi e la cosa lo stava irritando
terribilmente.
«Apra
molto lentamente la mano», gli disse e Sebastian fece quanto gli era stato
detto anche se con riluttanza.
Il
graffio che si era procurato durante il crollo andava dall’indice fin oltre il
polso e nonostante non fosse così profondo da suscitare preoccupazioni, il
medico che lo aveva disinfettato e gli aveva applicato i dovuto punti lo aveva
costretto ad tornare per un controllo ogni due-tre giorni, adducendo come scusa
il fatto che aveva lasciato trascorrere quasi una giornata intera prima di
avere il buon senso di farsi medicare.
«Ora
provi a toccare con il pollice, una dopo l’altra, tutte le dita. Sempre
lentamente», disse di nuovo l’uomo.
Il
ragazzo fece quanto gli era stato chiesto, ma stavolta non riuscì a trattenere
quello che era un vero gemito di dolore, quando provò ad arrivare all’anulare.
«È
normale che le faccia ancora male, ma dopo dieci giorni posso dire che la
cicatrizzazione sta procedendo bene: non ci sono segni di alcun tipo di
infezione e penso proprio che questa sarà l’ultima medicazione di cui avrà
bisogno. Torni tra cinque giorni e toglieremo tutto», concluse soddisfatto il
medico, congedando definitivamente un sollevato Sebastian che quasi scappò
dalla stanza, non appena capì di essere “libero”.
Si
sistemò meglio la giacca del giubbino non appena fu fuori e si avviò
velocemente lungo il corridoio, massaggiandosi la mano quasi senza rendersene
conto. Odiava gli ospedali: erano ciò che lo spaventava di più al mondo – molti
avrebbero detto di sentirsi sicuri tra quelle mura, tra le mani di specialisti
che sapevano cosa stava loro succedendo, ma la verità era che non c’era posto
più vicino alla morte e alla debolezza di quello. Lì era come se la sofferenza
di chi era ricoverato e dei parenti formasse una cappa che avvolgeva ogni cosa:
non importava se avessi davvero un motivo per star male o essere triste, in
quel posto lo saresti stato ugualmente, come per osmosi. E Sebastian non voleva
stare male, non voleva essere triste o fragile, quindi doveva scappare quanto
prima da lì dentro, trovare l’uscita e la salvezza prima che qualc-.
«Trovate il modulo di dimissioni da firmare
alla reception del piano, signori Harwood. Serve solo una firma e poi potrete
portare vostro figlio a casa».
Smythe
non provò neanche a tirare dritto, ma fece qualche passo indietro e si nascose
contro la parete, in modo da intravedere appena gli interlocutori senza essere
visto da loro. C’erano un paio di medici in camice, i signori Harwood e Thad.
Scorgere il suo viso fu più liberatorio di quanto Sebastian avrebbe mai ammesso:
stava bene ed accertarsene di persona era una cosa meravigliosa.
«Alla
Dalton. Non a casa», li corresse il ragazzo, senza lasciare che lo sguardo di
disapprovazione dei genitori sminuisse la sua convinzione «Sono tutti lì:
sapete che a casa non resisterei neanche un giorno».
«Basta
che stai a riposo completo per ancora altri due o tre giorni», si preoccupò di
ricordare uno dei medici.
Thad
sorrise, il viso ancora un po’ pallido che prendeva un po’ di colorito con quel
gesto, e lasciò che il padre lo tirasse a sé con affetto poggiandogli un
braccio sulle spalle. Non sarebbe servito uno psicologo o un indovino per
capire quanto rafforzato fosse uscito il loro legame da quella situazione e
ancora una volta Sebastian provò l’istinto quasi doloroso di intervenire ed
unirsi alla scena.
Mosse
anche qualche passo, prima di fare resistenza su se stesso e fermarsi. Che
diavolo di senso avrebbe avuto entrare in quella scena? Non ne faceva parte,
aveva scelto di non farne parte per il proprio bene ed ora doveva semplicemente
rigare dritto.
Si
scrollò di dosso l’esitazione che lo aveva colto e si decise ad andare avanti
ed uscire da quel posto. Ecco cosa intendeva parlando di ospedali. Ecco perché
li temeva.
«Prima
di andare devo fare una cosa».
Melissa
guardò suo figlio con fare interrogativo, mentre tutti e tre si muovevano per i
corridoi del reparto, moduli firmati in mano, pronti a lasciare quel posto.
«C’è
un mio amico ancora ricoverato qua, ricordate?», spiegò Thad ed entrambi i
genitori annuirono: Kurt, era quello il nome del ragazzo. Lo avevano trovato
tra le stesse macerie di Thad, aveva rischiato di morire come lui ed era ancora
in coma. Avevano anche parlato con il padre una volta e avevano sentito come
proprio il dolore di quell’uomo tanto che alla fine Kevin si era scusato e si
era allontanato – non avrebbe retto ancora per molto.
Erano
passati dieci giorni da quell’incidente, dieci giorni dal ricovero in ospedale
e quel ragazzo non si era ancora svegliato. Nessuno dei due poteva immaginare
che cosa volesse dire aspettare per così tanto tempo che il proprio figlio
aprisse gli occhi.
Nel
corridoio di Terapia Intensiva, la famiglia Harwood riconobbe Finn Hudson che
sedeva distrattamente su uno dei seggioli di fronte la porta della camera di
Kurt. Non si accorse di loro fino a che Thad non lo salutò gentile; solo allora
scattò in piedi salutando a sua volta e sorridendo: il Warbler non lo aveva mai
conosciuto per bene, ma poteva ugualmente notare quanto fosse stanco e agisse
in modo meccanico, quasi tutto quello fosse diventato un abitudine.
«Blaine
è dentro… vuoi entrare?», propose il ragazzo facendo un cenno verso la porta
Thad
esitò qualche istante prima di annuire ed avviarsi: in fondo era andato lì per
vedere Blaine e Kurt, non aveva senso rinunciare in quel momento. Dovette però
ricredersi quando, non appena fu entrato, l’immagine di quelli che un tempo
erano stati suoi compagni di squadra gli tolse il fiato, procurandogli un
capogiro che lo costrinse ad appoggiarsi al muro per non perdere l’equilibrio.
Blaine sentì immediatamente il movimento alle sue spalle e si voltò di scatto.
«Thad!»,
lo chiamò sorpreso, muovendosi verso di lui e prendendolo per le spalle «Ti
senti male?».
Il
Warbler lo guardò per qualche istante prima di abbracciarlo forte – per quanto
il braccio limitasse i movimenti – e non si sorprese nel sentire la presa
stretta con cui il riccio ricambiò il gesto, come se in fondo quello a reggersi
con difficoltà in quel momento fosse proprio lui.
«Siediti.
Come stai?», chiese Blaine non appena fu in grado di lasciarlo andare,
accompagnandolo con attenzione fino alla sedia accanto al letto di Kurt.
Harwood
avrebbe risposto se i suoi occhi non si fossero incollati al viso pallido del
ragazzo steso sul letto in un modo così forte che fu impossibile per lui
concentrarsi su qualsiasi altra cosa che non fosse quell’espressione a metà tra
la calma e il dolore che aveva sul volto Kurt. Perché sembrava semplicemente
dormire, ma tutti – compreso lui – sapevano che non era così.
«Dovrai
odiarmi così tanto, Blaine», sussurrò con voce spezzata.
«Che
cosa stai dicendo?».
Thad
si voltò a cercare gli occhi dell’amico: sapeva che i suoi dovevano essere già
lucidi, ma non importava purché potesse vederlo per bene mentre gli chiedeva la
cosa che forse lo stava tormentando di più da quando era successo tutto quello
– Sebastian a parte.
«Devi
odiarmi. Io sono qua, sto bene, mentre Kurt è in coma e non sappiamo neanche
quando… Eravamo nella stessa stanza, esposti allo stesso pericolo eppure io sto
bene, mentre lui è bloccato in un letto di Terapia Intensiva. Devi per forza
odiarmi, devi esserti chiesto perché a lui e non a me… E hai ragione: è
ingiusto… tutto questo è semplicemente ingiusto ed io vorrei che ci fosse un
modo per-».
Il
ragazzo si bloccò: non che volesse farlo, aveva ancora tanto da dire, ma Blaine
gli si era buttato tra le braccia e aveva cominciato a singhiozzare sulla sua
spalla come un bambino, scuotendo la testa, ma non riuscendo a proferire parola
per l’impeto del pianto. Thad gli accarezzò la schiena, stringendolo a sua
volta non appena ebbe ripreso coscienza di quello che stata accadendo.
«Non
ho m-mai sentito uno d-discorso meno s-sensato di questo. S-soprattutto da te»,
balbettò il riccio, cercando di ricomporsi; quando poté vedere di nuovo il
volto dell’amico, scorse anche su quello qualche lacrima che lo bagnava,
dolorosa.
«Ho
passato questi giorni pensando a come dovevate stare, a come dovevi sentirti e
non riuscivo a togliermi dalla testa l’idea che se avessi fatto qualcosa tutto
questo non sarebbe successo, che magari le cose sarebbe potute andare
diversamente per Kurt… Non sono venuto prima per questo... Non sapevo cosa
fare...».
«Non
c’era nulla che tu potessi fare, Thad. Non potrei mai avercela con te! Anzi…
avrei dovuto venire io a trovarti in questi giorni… ma sai… Non…».
«Lo
so», lo rassicurò Harwood «Non avrei mai preteso una cosa del genere,
considerato tutto... questo. E poi sto bene!».
Blaine
annuì: sì, stava bene, se si escludeva il lieve tremore che lo scuoteva e che
il riccio riusciva a scorgere per quanto Thad sapesse nasconderlo bene e quegli
occhi che lo osservavano in modo così diverso dall’ultima volta che aveva
parlato con lui.
Stava
bene. Stavano tutti bene.
«Ti
hanno dimesso, quindi?», chiese allora, sperando di cambiare argomento ed
alleggerire la conversazione.
«Appena dimesso, sì», confermò con
entusiasmo quello «Finalmente torno alla Dalton!».
Blaine
annuì: poteva capire perché fosse tanto contento. I Warblers erano sempre stati
una famiglia e certo, ora aveva le New Direction, ma
non sarebbero mai stati in grado di sostituirli, non completamente.
«Se
vuoi… potresti venire con me, almeno per stasera, e stare con noi. Ti farebbe
bene uscire un po’…».
Thad
sapeva che Blaine non avrebbe mai accettato, ma non aveva potuto fare a meno di
proporlo: gli occhi stanchi dell’amico sembravano supplicare una pausa che il
cuore non avrebbe mai ammesso di necessitare. Blaine non se ne sarebbe mai
andato da lì, non avrebbe mai lasciato Kurt da solo, nonostante sembrasse terribilmente
vicino al limite.
«No.
Sai che non posso».
«Sì.
Lo so».
Thad
lo abbracciò un’ultima volta, promettendo che sarebbe tornato presto, forse
anche il giorno seguente, e che sicuramente anche gli altri avrebbero fatto
altrettanto: se c’era una cosa su cui avesse mai avuto ragione Sebastian era
proprio che un Warbler non smetteva mai di essere tale.
Il
riccio gli sorrise, stringendolo forte, e lo ringraziò di tutto,
ripromettendosi di chiamarlo per chiedere degli altri, anche se il ragazzo lo
aveva rassicurato sul fatto che, fisicamente, stessero tutti bene. Aveva
ovviamente evitato di menzionargli i propri problemi con Smythe o peggio le
incomprensioni di Nick e Jeff: sarebbe stato inutile e lo avrebbe solamente
fatto preoccupare inutilmente.
Quando
andò via, Harwood non poté fare a meno di sentirsi in colpa, come se stesse
lasciando un compagno indietro e la cosa non lo faceva affatto stare bene.
Blaine invece sospirò, leggermente meno stanco, come se la visita di Thad gli
avesse portato un po’ di vecchia quotidianità ormai persa. Prese il suo posto,
accanto al metto di Kurt, e posò la propria mano sulla sua.
«Thad
è davvero un grande amico. Mi ha fatto bene vederlo…», sussurrò, abbassando
distrattamente lo sguardo, forse per celare un sorriso sincero che gli era
spuntato sulle labbra a quel pensiero.
Quando
lo rialzò, un giramento di testa gli tolse il fiato. Le dita di Kurt si erano
mosse, si stavano muovendo proprio davanti a lui. Spalancò gli occhi,
impedendosi di prendere aria. Era tutto un sogno, vero? O una sua
immaginazione, o il primo sintomo della sua follia. Non poteva essere la
realtà, non poteva aver davvero mosso le dita, perché questo voleva dire che…
«Kurt…?
Kurt puoi sentirmi?».
Le
parole, la loro speranza saltò fuori prima che Blaine potesse essere abbastanza
cauto da non alimentare false aspettative. Forse ne aveva semplicemente
bisogno: la voglia di sperare ancora che Kurt potesse davvero svegliarsi era
più forte della paura per la delusione che avrebbe potuto atterrarlo se mai si
fosse sbagliato.
Kurt
mosse ancora la mano.
Quando
Thad Harwood mise finalmente piede alla Dalton, una decina di ragazzi festosi e
con grossi sorrisi lo accolse nel modo più caloroso che potesse immaginare – e
a poco contava se nell’impeto qualcuno gli urtasse il braccio facendogli male:
quegli abbracci, quell’affetto, quel calore gli erano mancati troppo.
«Sono
così felice di vedervi tutti!», esclamò appena riuscì a riprendere fiato, con
le lacrime di commozione che premevano agli angoli degli occhi.
«Ci
sei mancato terribilmente», gli saltò di nuovo al collo Jeff e Thad dovette
chiedersi in che modo riuscisse a nascondere la tristezza che fino a qualche
giorno fa gli aveva confessato nelle continue chiamate.
Gli
bastò guardarlo un secondo di più negli occhi per capire che non stava fingendo
o nascondendo nulla, che aveva semplicemente fatto pace con Nick, che tutto era
tornato a posto, se non meglio. Sorrise verso il biondo mostrandogli di aver
capito e gli occhi che luccicarono per la felicità furono la cosa più bella che
Thad avesse chiesto quella sera. Inutile dire che Nick non fu da meno, anzi:
Harwood si trattenne a stento dal esclamare un grido di vittoria per la
riconciliazione, ricordandosi all’ultimo che se non l’avevano detto a lui,
forse era perché non lo avevano ancora detto a nessuno.
«Scenderò
per cena, ma ora datemi il tempo di salire in camera e mettermi la divisa: non
avete idea di quanto ne abbia sentito la mancanza!», si scusò ad un tratto il
ragazzo, avviandosi infine verso le scale, seguito con lo sguardo da tutti i
suoi compagni.
Thad
osservava ogni cosa con la dovuta attenzione, soffermandosi su ogni particolare
come se fosse la prima volta che li vedeva – e forse era davvero così che si
sentiva, come se stesse vivendo tutto per una seconda prima volta e la cosa lo
entusiasmava ed estasiava come se non ricordasse più nulla e stesse scoprendo
tutto daccapo, con una stretta allo stomaco per lo splendore del posto.
Lentamente, però, i ricordi della vita che aveva vissuto tra quelle mura cominciarono
ad affiorare, impreziosendo le immagini che gli capitavano davanti. Ora c’era Trent che lo svegliava portandogli del caffè fumante dopo
una delle sue nottate di studio dietro la matematica; ora invece Flint
rincorreva Jeff dopo l’ennesimo scherzo che quest’ultimo gli aveva fatto; poi
c’era Cameron e la sua pace serafica che aiutava James a venir fuori da chissà
quale melodrammatico fatto di donne, mentre più avanti poteva riconoscere
perfettamente il momento in cui Andrew si era presentato davanti camera sua
chiedendo asilo politico dopo una lite con Luke.
Erano
tutti lì ed improvvisamente quella nuova prima volta si colorava delle
sfumature migliori dei sui ricordi, fino a che non si trovò finalmente davanti
alla porta della sua camera.
«Ciao! Posso aiutarti?».
Un ragazzo longilineo dai bellissimi occhi
chiari lo guarda sorpreso, prima di sorridere – o sarebbe stato più appropriato
definirlo ghigno? – ed allungare una mano verso di lui.
«Sebastian Smythe, piacere: credo di essere
il tuo nuovo compagno di stanza».
Thad deve trattenere uno sguardo di
disappunto e sfoggiare uno dei suoi migliori sorrisi, mentre stringe la mano di
uno sconosciuto. Non che non ne fosse informato: sapeva che con il
trasferimento di Blaine erano cambiati gli ordini nelle stanze e che lui si
sarebbe trovato con un nuovo ragazzo… ma il fatto che fosse davvero davanti a
lui in quel momento rendeva la cosa più
reale di quel che pensasse.
Sperava solo che si sarebbe trovato bene.
Il
ragazzo sospirò ed abbassò la maniglia della porta, quasi sicuro di trovare lì
Sebastian: in fondo non era andato a salutarlo con gli altri, quindi era
probabile che fosse semplicemente steso sul proprio letto, con fare
indifferente.
Quando
entrò però una cosa lo colpì in modo terribilmente veloce. La stanza era vuota;
e non solo perché effettivamente non vi era nessuno dentro, ma soprattutto
perché mancavano molte delle cose che era abituato a vedere. La chitarra
nell’angolo accanto alla scrivania era scomparsa, così come la parte dei CD
sulla mensola e alcuni libri che occupavano un paio di scaffali accanto ai
letti. Istintivamente Thad aprì l’armadio del suo compagno di stanza, per
trovarlo vuoto come aveva immaginato. Le cose di Sebastian semplicemente non
erano più in quella stanza.
«Avremmo
voluto dirtelo, Thad… ma eri così felice di essere tornato e noi di averti
ancora qui, che non ce la siamo sentiti di rovinare tutto».
La
voce lieve di Nick fece girare il Warbler verso la porta, così da poter
scorgere l’amico, accompagnato da Trent e Jeff.
«Che
cosa è successo?», chiese, nonostante sapesse perfettamente la risposta.
«Smyhte ha cambiato stanza non appena tornato dall’ospedale».
_________________________
*Fa finta che il ritardo con cui pubblica non abbia superato le tre settimane e fila dritta nelle note d’autore senza fare una piega*.
Ma
salve! Ancora una volta non siete riusciti a sbarazzarvi di me! E in più,
finalmente qualcosa ha deciso di andare davvero per il verso giusto! La parte Niff poi, come anticipato, è dovuta alla carissima Emilia,
che dopo avermi minacciata consigliato di far tornare insieme quei due
al più presto, mi ha anche suggerito di farli cantare, trovandomi la meravigliosa
cover di Curt Mega di “Breakeven” degli Script,
di cui mi sono follemente innamorata e che ho infine inserito (era troppo adatta
al momento e al “mio” Jeff per non farlo).
Per il resto… Angst Anderbros che va e viene, la Thadastian che non riesce a riprendersi (e spero che Sebastian sia stato ancora una volta credibile *paura*) e Kurt che forse, invece, qualcosa sta riuscendo a fare.
A
presto. Alch ♥