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Autore: Alchbel    11/12/2012    5 recensioni
La soddisfazione che stava provando in quel momento, il sentire il potere che scorreva nelle sue vene come fosse sangue, il sorrisetto superiore che restava stampato sul viso come marchio della sua essenza: Sebastian Smythe non era mai apparso tanto raggiante mentre camminava per i corridoi della Dalton con fare maestro nonostante stesse in quella scuola da meno tempo della maggior parte dei ragazzi che incontrava.
Thadastian - Klaine - Niff e chi più ne ha più ne metta :D
Partendo da "On my way" e provando ad inserire qualcosa di un po' diverso, una nuova long ^^
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Sebastian Smythe, Thad Harwood
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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~ 7°_ Breakeven  ~

 

Ad Emilia, perché parte del capitolo la dobbiamo solo a lei.

 

 

«Mi dispiace, mi dispiace davvero tanto».

«Com’è successo? Cosa… cosa…».

«Una complicazione imprevista. Ha avuto un collasso ed è morto prima che riuscissimo a capire che cosa stesse andando storto. È stato troppo repentino per poter intervenire».

La donna abbassò la testa, annuendo mentre il corpo tremava e si appoggiò al marito che, shoccato, guardava ancora di due medici davanti a lui come se si aspettasse altro, come se fosse convinto che da un momento all’altro avrebbero sorriso, dicendo che era tutto uno scherzo e suo figlio sarebbe uscito dalla sua camera sulle proprie gambe, con il suo meraviglioso sorriso e delle scuse imbarazzate per lo spavento.

Sì, aspettava anche lui quella scena, poco lontano dai genitori della vittima. Si aspettava di vederlo da un momento all’altro e tanto gli sarebbe bastato. Niente di eclatante, nulla di eccessivo. Solo vederlo e sarebbe stato di nuovo bene.

Ma non succedeva. I medici rimanevano seri, la porta della stanza chiusa. L’aria in quel corridoio troppo bianco cominciava a mancare e l’unica soluzione possibile sarebbe stata quella di scappare.

Scappare, dove la verità non avrebbe mai potuto raggiungerlo, dove il dolore non avrebbe fatto male, dove le speranze non sarebbero state vane. Perché se non sapeva, se non glielo avessero detto, per lui non sarebbe stato vero, giusto?

Corse via, senza badare a chi si sarebbe trovato davanti ed avrebbe travolto. Non si sarebbe fermato fino a che non sarebbe stato al sicuro. Anche se non sapeva dove lo sarebbe stato davvero. La luce pallida di una giornata nuvolosa lo colpì in modo violento, accecando gli occhi e costringendolo a continuare a camminare a testa bassa, senza davvero vedere dove andasse.

In un attimo fu a terra, senza sapere bene come fosse caduto – non che gli importasse, poi. Il ginocchio bruciava in modo fastidioso e anche il braccio su cui era caduto faceva male. Tentò di rimettersi in piedi con difficoltà, ma gli bastò arrivare a mettersi in ginocchio per sentire un dolore lancinante alla testa. Chiuse forte gli occhi e portò una mano alla fronte, accorgendosi che doveva averla sbattuta sull’asfalto, perché perdeva sangue.

Sangue. La sola vista fece girare tutto ciò che lo circondava. Non che di solito gli desse fastidio, ma adesso la sola vista era quasi insopportabile.

«Oddio…», sussurrò stravolto.

E’ colpa tua. È il suo sangue. E continua a scorrere per colpa tua: passa il tempo e non stai facendo nulla per lui. Lo stai uccidendo, lentamente.

Si prese la testa tra le mani perché gli sembrava stesse per esplodere. A corto di fiato non poté fare altro che accasciarsi senza forze per terra, il freddo che lo stordiva. Magari avesse potuto portare via anche il dolore che stringeva il suo petto.

 

La sensazione di cadere nel vuoto, come se si fosse lanciato dal tetto della Dalton, lo colpì togliendogli il fiato e svegliandolo di botto, come se fosse impattato col materasso da chissà quale altezza. Spalancò gli occhi, spossato, i viscidi rimasugli di un sogno troppo vivido che lo sporcavano, e l’unica cosa che desiderò fu dimenticare: il tentato suicidio, l’esplosione al McKinley, il coma di Thad, le sue parole, il suo viso, la sua e la propria assenza. Dimenticare tutto, estraniarsi, tornare ad essere il ragazzo superficiale e distaccato che era sempre apparso. Questo gli sarebbe bastato, ma probabilmente era chiedere troppo.

Le lacrime uscirono con disperazione dagli occhi, unica valvola di sfogo in quella assurda situazione e gli diedero parvenza di stare meglio, di svuotarsi mentre soffocava i singhiozzi nel cuscino.

 

*

 

Cooper Anderson tornò dalla sua corsa mattutina quando l’orologio non segnava ancora le 7:00. Aprì lentamente il portoncino di casa e lo richiuse cercando di non fare rumore – anche la scorsa notte, nonostante ormai fosse passata una settimana dall’incidente al McKinley, Blaine aveva faticato a prendere sonno, addormentandosi poi solo poco prima dell’alba. Per nulla al mondo avrebbe rischiato di svegliarlo.

Con il passo felpato che aveva imparato al corso di recitazione, attraversò il corridoio per arrivare in camera sua e prendere un cambio prima di andare a farsi una doccia, ma quando entrò rimase spiazzato. Blaine era in ginocchio davanti al suo armadio, stringeva qualcosa tra le mani e tutti i cassetti della stanza erano aperti.

«Credevo… credevo che fossi andato via… E non poteva essere vero… perché me l’avevi promesso, che saresti rimasto con me… e allora ho pensato che se la tua roba era ancora qui, voleva dire che dovevi esserci anche tu…».

Il balbettio del suo fratellino riscosse il maggiore dal lieve stato di trance in cui era finito per lo stupore di quella scena; gli si avvicinò lentamente, da dietro, per poi inginocchiarsi ed abbracciarlo.

«È così: non ti lascerò da solo, Blaine. Ero solo… andato a fare una corsa…», lo rassicurò, ed il minore gli si strinse contro.

Cooper sussultò: un improvviso bisogno di piangere gli aveva attanagliato la gola. Avrebbe dovuto aspettarselo, dopotutto: non poteva di certo credere che sarebbero bastati pochi giorni per sistemare le cose tra loro, fare sì che avesse completa fiducia in lui e nelle sue parole, come se quegli anni di lontananza semplicemente non fossero esistiti. Eppure ci aveva sperato. Per un attimo aveva pensato che con Blaine il peggio fosse passato, che il resto sarebbe stato solo in discesa. Illuso. Mentre lo stringeva tra le braccia, capì di essere solo un povero illuso: chissà se Blaine sarebbe mai riuscito a perdonarlo del tutto.

Quando gli parve di essersi calmato e che anche suo fratello stesse meglio, si azzardò a lasciarlo andare, per alzarsi. Blaine non fece una piega, ma si mise in piedi lentamente, stringendo a sé un maglioncino di filo blu. Cooper lo guardò interrogativo.

«Lo avevi l’ultimo giorno che ti ho visto… prima che partissi per il college», sussurrò il riccio «Lo ricordo perché io e la mamma lo avevamo scelto insieme. Doveva essere il mio regalo per la tua partenza, non so se te l’ho mai detto…».

Gli occhi del maggiore luccicarono, velati di nuove lacrime.

«Sì, lo so. Per questo è lì, per questo l’ho portato con me. Lo porto sempre con me».

Stavolta fu Blaine a sorprendersi. Lo sapeva? L’aveva sempre saputo e l’aveva portato con sé?

«Non ti ho mai dimenticato, Blaine. Per quanto possa essere sembrato il contrato ai tuoi occhi, io non ti ho mai messo da parte: hai sempre fatto parte della mia vita, in un modo o nell’altro… e mi spiace così tanto di averti trascurato, vorrei davvero che tu capissi quanto…».

«Ci sto provando, Coop. Dammi solo ancora un altro po’ di tempo», sussurrò il minore: avrebbe davvero voluto non aver paura che ogni volta che suo fratello usciva sarebbe potuto essere per non tornare, ma la paranoia lo attaccava spesso, non poteva farci molto per ora.

«Mi… mi accompagneresti da Kurt?», chiese poi.

«Ma certo! Corri a vestirti!», acconsentì Cooper, facendogli notare che era ancora in pigiama.

 

«Sì, tesoro, tutto come al solito... non ci sono stati cambiamenti particolari. Non so se esserne sollevato o meno», sospirò Burt Hummel, reduce da una notte insonne, a vegliare sul figlio.

«Ma hanno detto che risponde a determinati stimoli dolorosi e che le pupille sono in parte recettive, è solo questione di tempo, tesoro: si risveglierà», cercò di incoraggiarlo, come sempre Carole.

Burt annuì. Sì, aveva fiducia in suo figlio, tutta la fiducia del mondo, ma cominciava a chiedersi per quanto avrebbe parlato con Kurt senza essere risposto, quante altre notti avrebbe passato al suo capezzale, quante altre volte avrebbe dovuto ascoltare le stesse parole incoraggianti di sua moglie. Sospirò leggero. Quello che davvero lo spaventava era il non sapere per quanto sarebbe riuscito ad andare avanti. Certo, abbandonare suo figlio al momento era inconcepibile, ma sapeva anche che il tempo logora le persone e non poteva fare a meno di chiedersi se sarebbe stato lì anche nel caso peggiore, nel caso in cui Kurt non si fosse più svegliato, o se il dolore sarebbe stato troppo forte per sopportare una cosa simile. Il non sapere come avrebbe reagito alla cosa lo terrorizzava.

«Passi da casa adesso?», chiese la moglie in un sussurro.

«Sì… appena Cooper e Blaine saranno qui, vengo».

Non avrebbe voluto, ma come al solito le parole del fratello di Blaine erano state persuasive e categoriche: sarebbero stati entrambi lì, quindi lui avrebbe potuto riposarsi un po’.

Pochi minuti dopo che ebbe salutato Carole, il viso pallido del ragazzo di suo figlio apparve dal corridoio. Con passo svelto arrivò davanti alla stanza di Kurt e fu sufficiente uno sguardo tra i due per parlarsi. Erano sette giorni che andavano avanti così le cose, per la precisione. Sette giorni che a loro parevano nello stesso momento attimi e secoli destinati a non passare più.

Blaine si gettò tra le braccia di Burt quasi con bisogno quella mattina e l’uomo dovette capire che c’era qualcos’altro che l’aveva turbato, perché lanciò uno sguardo serio a Cooper. Il maggiore degli Anderson sospirò lentamente e scosse la testa, senza aggiungere nulla, così che Burt si trovò semplicemente a stringere più forte a sé il riccio.

«Se dovesse esserci qualsiasi novità-».

«Sarà il primo a saperlo, signor Hum- Burt», concluse per lui Blaine, ancora indeciso su come chiamarlo, nonostante avesse avuto il permesso di farlo da tempo.

L’uomo annuì un’ultima volta, stringendo la spalla del ragazzo, prima di andare via, lasciando il solito sguardo di monito a Cooper. Loro due non avevano mai parlato davvero da quando si erano trovati in quella situazione, semplicemente perché non ne avevano mai sentito il bisogno effettivo. Era un tacito accordo di protezione e sostegno reciproco che andava avanti da giorni sempre allo stesso modo. Burt era grato del fatto che da simili genitori erano comunque cresciuti due ragazzi d’oro come quelli.

Blaine fece qualche passo avanti, fermandosi davanti alla porta bianca, come era già successo nelle mattine precedenti. Vi poggiò contro la fronte e chiuse gli occhi per qualche istante, facendosi forza. Non che non avesse il coraggio di entrare, ma l’impatto con Kurt, ancora in quel letto, così lontano nonostante fosse bloccato a pochi passi da lui, era sempre tremendo.

Riaprì gli occhi con lentezza, ma allo stesso tempo con fermezza, ed abbasso la maniglia fredda, entrando nella stanza. La prima cosa che lo accolse fu il “bip” ritmico dei macchinari che monitoravano il suo ragazzo, poi il restante silenzio della stanza.

Si guardò intorno per qualche istante, come a volersi accertare che fosse tutto come l’aveva lasciato la sera precedente, poi prese una sedia e si accostò a Kurt sorridendogli e lasciandogli un bacio a fior di labbra prima di sedersi.

«Stamattina Coop mi ha spaventato. Ho forse sono stato io a spaventare lui. Resta il fatto che, nonostante sia qui con me da una settimana, alle volte ho ancora paura che vada via. Lo so, sono un idiota a pensarlo perché davvero ho perso il conto delle volte in cui mi ha detto che sarebbe stato con me… ma di tanto in tanto succede qualcosa, anche solo una minima cosa e penso che se ne sia andato, come se mi aspettassi che succeda da un momento all’altro… Sono una persona orribile vero? Mio fratello mi chiede scusa e mi fa da balia ed io do di matto ogni volta che non c’è, quasi non vedessi l’ora di constatare che se n’è andato per davvero per piangermi addosso».

Blaine aveva smesso di sentirsi in qualche modo stupido per tutte le volte che, in fondo, parlava da solo in quella camera d’ospedale. Una parte di sé credeva che Kurt potesse in qualche modo ascoltarlo, anche se non riusciva ancora a comunicarglielo; un’altra parte semplicemente aveva bisogno di parlare, sfogarsi, e Kurt era stato il suo migliore amico per così tanto tempo che restava la sola persona con cui volesse parlare, anche in quelle condizioni.

Alzò la testa, concentrandosi sul viso calmo del suo ragazzo e sorrise lieve: il coma lo sfiorava senza riuscire a togliergli però la bellezza leggiadra che lo aveva lasciato senza fiato da quel primo momento sulle scale; il pallore leggermente più accentuato lo faceva sembrare fragile ma allo stesso etereo, come se non appartenesse veramente a quel mondo. Blaine non sapeva quando quel pensiero smettesse di affascinarlo per cominciare a spaventarlo.

«Sai, stamattina mi ha chiamato Mercedes, mentre venivo qui. Mi è sembrata stanca dalla voce, ma ha detto di stare bene e che sarebbe passata a trovarti nel pomeriggio. Le manchi… manchi a tutti, Kurt. A me in modo tremendo. Perciò – a costo di diventare ripetitivo e rompiscatole, perché so che puoi sentirmi, spero che tu possa – ti prego, ti prego svegliati. Insomma, prenditi il tempo che ti serve, ma torna da noi, da me».

Una lacrima scese sul viso di Blaine che la scacciò velocemente, sorridendo, come se non fosse mai esistita. Prese la mano di Kurt tra le sue e sospirò piano. Sapeva che si sarebbe svegliato, ne era cecamente convinto e avrebbe atteso – solo, il non sapere quanto gli toglieva il fiato.

«Allora è vero…»

Una voce tremante – una diversa dalla sua – interruppe il silenzio e fece voltare di scatto Blaine verso la porta. Sulla soglia, lo sguardo sconvolto che fissava il letto, c'era Dave Karofsky, l'ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere. Il riccio sussultò, quel lieve sorriso che era riuscito a mettere su per Kurt svanì e nonostante i “progressi” fatti nei confronti di quello che era stato uno dei bulli del suo ragazzo, Blaine non riuscì a non provare un'improvvisa rabbia per quella – a suo parere – inopportuna presenza.

«Che diavolo ci fai qui?».

Il ragazzo sussultò, come se solo in quel momento si fosse accorto realmente della presenza dell'altro. Lo guardò per qualche istante senza battere ciglio né proferire parola.

«Ho sentito... ho sentito dell'esplosione e del fatto che alcuni ragazzi fossero stati ricoverati… Ho saputo che Kurt era qui…», si giustificò Dave facendo qualche passo in avanti. Blaine non gli staccò gli occhi da dosso, innervosito.

«Che cosa ci fai qui?», chiede ancora, più freddo.

«Volevo vederlo, sapere come stesse».

Era vicino al letto, ora, troppo vicino, così vicino da poterlo toccare e Kurt non si sarebbe spostato, non avrebbe fatto nulla per impedirlo.

«Non voglio che tu sia qui».

La freddezza con cui il riccio pronunciò quelle parole bloccò l’altro che alzò per la prima volta gli occhi su di lui, dimenticandosi di Hummel. Lo guardò fisso, quasi si stesse chiedendo perché fosse lì, perché lo stesse interrompendo: era venuto per Kurt, solo per Kurt, non certo per il suo ragazzo. Poi ricordò: aveva scelto lui, Kurt aveva scelto Blaine. Ecco perché era lì con lui. Questo era quanto, però. Il suo compito non doveva andare oltre.

«Non l’ho chiesto a te, se non sbaglio», si difese con forza «Sono qua per Kurt, perché tengo a lui».

Per Blaine fu troppo. Teneva a lui? Teneva a Kurt, al suo Kurt?!

«Tieni a lui?!», gridò senza riuscire a controllarsi «Tieni a Kurt? E dimmi, tenevi a lui anche quando lo sbattevi contro gli armadietti, quando l’hai spaventato a tal punto da fargli cambiare scuola? Anche allora ti importava come stesse?!».

«Ho smesso di essere quella persona».

«E hai la presunzione di credere che questo cancelli ogni cosa! Come se potessimo semplicemente tirarci su un bel colpo di spugna e tutto tornasse alla normalità, giusto? Non funziona così, Karofsky!».

«Non m’interessa quello che pensi tu, Anderson. Kurt mi ha perdonato, ha detto che potevamo essere amici».

«Solo perché lui è troppo buono. Tu non hai idea del male che gli hai fatto, non hai idea di come si sia sentito, solo a causa tua. Potrai essergli amico, potrà averti concesso questo, ma non credere che ti abbia perdonato: nessuno può perdonare una cosa del genere».

«Lui sì».

«Ti sbagli. Kurt ha solo deciso che non gli importa, ha solo deciso di darti una seconda possibilità e tu l’hai sprecata tentando il suicidio. Hai minacciato lui per mesi e non hai retto neanche una settimana ed ora vieni qui a dire che ti ha perdonato – come tu perdoneresti quelli che ti hanno spinto a tentare una cosa del genere? Continui a ferirlo. Kurt era sconvolto dal tuo gesto, credeva che fosse colpa sua-»

«Ma non è stata colpa sua!»

«Credeva che se avesse risposto alle tue chiamate da stalker forse non avresti provato ad ammazzarti. Si sentiva in obbligo verso di te e tu non hai fatto altro che farlo stare male, ancora. Quindi non venirmi a dire che tieni a lui. Non è vero».

Dave era così sconvolto da quelle parole che ci mise qualche istante in più del necessario per rispondere.

«Non hai il diritto di parlarmi così. Forse non saprò come si è sentito Kurt, ma tu non sai come mi sono sentito io. Non sai che cosa ho provato, non sai che cosa provo. Stai solo sparando sentenze che neanche capisci».

«So che cosa si prova. So che cosa si prova ad essere ferito e so che cosa si prova a cedere. E soprattutto so che cosa si prova a stare accanto alla persona che ami senza poter far nulla per aiutarla. So che Kurt è stato male – per molto tempo – e che gran parte della colpa è tua, quindi non ti permetterò di andare oltre. Ora vattene».

Karofsky si sentì punto sul vivo. Aveva fatto state male Kurt. Lo sapeva, ma sentirselo dire aveva un altro effetto. Improvvisamente si sentì un verme e per quanto avrebbe voluto battersi per difendere la propria posizione, capì che Blaine aveva ragione, più ragione di lui quanto meno.

Si disse che non sarebbe finita così, che avrebbe parlato con Kurt non appena si fosse svegliato, ma quella mattina desistette ed uscì dalla stanza, come aveva chiesto Blaine – ma non perché lo avesse chiesto lui.

Il riccio lo guardò andare via, mentre ancora fremeva per la rabbia e poi tornò a concentrarsi sul suo ragazzo. Se fosse stato sveglio probabilmente non gli avrebbe permesso di cacciarlo così, ma non era sveglio, quindi toccava a lui proteggere entrambi.

 

*

 

Muoversi tra i corridoio della Dalton era una cosa che, dopo una settimana, gli risultava così odiosa che se non avesse avuto impegni da rispettare si sarebbe semplicemente accasciato in un angolo per il resto della sua vita, senza più fare un passo.

Ma ovviamente Jeff non poteva permetterselo: aveva le lezioni, i Warblers, la preoccupazione per Thad che lo tormentava anche se il ragazzo stava migliorando e di lì a qualche giorno lo avrebbero dimesso. E poi c’era Nick.

Nick era il suo più grande problema e il fatto che mai si sarebbe sognato di poter formulare una simile affermazione era forse la cosa che lo destabilizzava di più. Perché Nick non era più lui, non era il suo Nicky, per quanto agli altri apparisse fin troppo uguale a sempre.

Il biondo sbuffo, appoggiandosi al muro del corridoio e riprendendo fiato. I medici erano stati chiari: avrebbe dovuto muoversi quanto meno possibile e con l’ausilio fisso delle stampelle per favorire la guarigione della gamba, ma la verità era che non ce la faceva ad andarsene in giro in quel modo. Sarebbe stato come avere i riflettori puntati continuamente addosso ed un indicazione al neon che diceva “superstite devastato” e quella era la sola cosa di cui non aveva affatto bisogno. Non voleva attenzioni, non voleva sguardi di pietà a parole di conforto.

Rivoleva la sua vita, i suoi amici, il suo Nick. Perché lui sembrava essere il solo a non accorgersi della scritta al neol e dei riflettori – con o senza le stampelle.

«Jeff! Siediti qui!».

La voce squillante di Cameron attirò la sua attenzione e il ragazzo camminò con lentezza e, per quanto non avesse voluto, zoppicando vistosamente fino al posto in mensa che il Warbler gli aveva tenuto.

Una volta a farlo era Nick.

Sospirò, mentre si sedeva e non poté non notare lo sguardo leggermente preoccupato di Richard. Gli sorrise, stanco ma consapevole che se non l’avesse fatto avrebbe scontato una seria punizione – un interrogatorio senza fine sul “come ti senti” di cui avrebbe sicuramente fatto a meno. Non ce l’aveva con lui, anzi: Richard era carino a preoccuparsi, o anche solo a notare che le cose non andavano affatto bene, ma dopo una settimana di domande era stanco di continuare a mentire a se stesso e a lui dicendo che per quanto non stesse bene le cose si sarebbe sistemate a breve. Perché era ovvio che non sarebbe successo.

«Come va la tua gamba?», chiese Flint per interrompere lo strano silenzio che era sceso non appena Starling si era seduto.

«Bene», mentì quello «Tra un paio di giorni devo farmi sostituire i punti, ma magari li tolgono definitivamente».

Tutti annuirono più o meno sollevati, alcuni dando delle pacche sulla spalla del diretto interessato. Jeff però non aveva occhi che per Nick, che dal canto suo non aveva detto nulla, ma stava anzi guardando da tutt’altra parte, come se non fosse interessato alla cosa.

Una volta a Nick sarebbe importato.

«Ragazzi, pensavo, perché dalla prossima riunione non improvvisiamo qualcosa?».

La domanda di Nick sorprese tutti. Sebastian si lasciò scappare un sorrisetto.

«Non so...», intervenne James «Con Thad ancora in ospedale e Jeff che non può ballare...»

«Che lagna, signori!», si lamentò il capitano dei Warblers «Per quanto ancora andremo avanti con questo atteggiamento di impasse? Insomma basta! Diamoci una svegliata!».

«Potevamo morire tutti!», si oppose con forza Nicholas, esprimendo lo sconcerto generale per parole tanto irrispettose «È un miracolo il fatto che siamo tutti qui a parlarne e ti ricordo che Thad, il tuo compagno di stanza, ha seriamente rischiato di non farcela! Solo perché tu non ti interessi di nient’altro che di te stesso non vuol dire che dobbiamo essere tutti quanti stronzi e senza cuore come te!».

Sebastian sussultò. Avrebbe voluto gridare che si sbagliava su tutta la linea, ma in fondo quelle parole erano ciò che voleva ottenere, quindi gli andavano bene. Giusto?

«Il fatto che l’abbiamo scampata bella non ci autorizza a piangerci addosso e a ragionare sulla caducità della vita e delle cose umane», ribatté cercando di essere quanto più fermo e pungente possibile «Questo pomeriggio abbiamo una riunione alle 4. Sarà meglio che siate pronti a lavorare come sempre», consigliò freddamente, alzandosi dal tavolo ed avviandosi.

Si fermò dopo pochi passi e voltò appena il capo, inquadrando il resto del gruppo con la coda dell’occhio.

«Ah, Nicholas: non parlarmi più di Harwood. Sai che le cose sono cambiate», concluse con un sussurro, prima di andarsene veramente.

Il resto della squadra si guardò perplesso: Smythe non aveva mai fatto mistero della poca affabilità di cui era capace e ancora meno del fatto che fondamentalmente non tenesse a nessuno lì dentro, ma avevano pensato che in un momento simile anche lui si sarebbe comportato in modo quanto meno umano. Invece, sembrava che la cosa non lo avesse minimamente sfiorato, anzi era peggio di prima.

Richard guardò Cameron come se quel gesto bastasse a comunicare. L’altro sorrise con fare rassicurante, ma annuì perché aveva compreso quello che gli stava dicendo: qualcosa non andava con Sebastian e se quello era il suo modo di reagire all’incidente loro capitato, beh, non sarebbe andato avanti per molto prima di scoppiare. Era lui quello nella fase di impasse.

«Vado anche io: torno in camera. Non verrò alla riunione: non potrei comunque fare nulla».

Jeff ruppe il silenzio con tono sconsolato e senza lasciare che qualcuno dei ragazzi replicasse si allontanò traballante.

«Si può sapere che cosa ti ha fatto?», chiese Trent, ovviamente rivolgendosi a Nick, non appena il biondo fu abbastanza lontano.

Il diretto interessato sembrò cadere dalle nuvole.

«Cosa… cosa mi ha fatto?»

«Lo tratti in modo pessimo da quando siamo tornati!», gli fece presente Jonh «Che cosa è successo?».

«Nulla… noi… nulla, non è successo nulla», si difese Nick, preso alla sprovvista: non pensava che se ne fossero accorti, non pensava che fosse così evidente il modo in cui stava evitando di farsi coinvolgere da qualunque cosa implicasse il suo compagno di stanza.

«Amico, qualunque sia il tuo nulla, vedi di risolverlo alla svelta: Jeff sta male e non permette a nessuno di avvicinarsi», consigliò, con una punta di risentimento Richard e tutti gli altri annuirono.

Nick si sentì mancare il fiato: improvvisamente si sentì in colpa per quello che stava facendo, per come si stava comportando da una settimana. Aveva chiesto a Jeff di rimanere quelli che erano, ma in fondo lui stava solo continuando ad allontanarlo, senza un reale motivo che non fosse la sua codardia.

 

«I'm still alive but I'm barely breathing. Just prayed to a god that I don't believe in, 'coz I got time while she got freedom, 'coz when a heart breaks no it don't break even».

La voce sottile di Jeff si espandeva per la stanza, triste. Ormai i ragazzi erano andati alla riunione e almeno per un po’ sarebbe stato solo in camera per davvero e non soltanto perché Nick si ostinava ad ignorarlo. Era ironico. Avevano passato interi giorni a discutere su quanto dovesse essere frustrante che il proprio compagno di stanza ti ignori ed ora si trovava nella stessa situazione. Allora i soggetti erano Thad e Smythe, adesso loro due.

Era così ironico da far male.

Gli aveva detto che tutto sarebbe rimasto come sempre, gli aveva fatto promettere che loro due non sarebbero cambiati e poi invece aveva semplicemente cominciato a far finta che non esistesse. E dannazione, l’indifferenza era davvero la peggiore delle cose. O forse lo era il fatto che lui sembrasse stare bene... Nick stava bene anche senza di lui e questo lo uccideva perché aveva sempre pensato di contare qualcosa nella vita del suo migliore amico – altrimenti a cosa valeva la definizione di migliore amico? A quanto pareva si era sempre sbagliato. Perché lui si sentiva morire dentro ogni istante che passava e Nick era con gli altri Warblers a cantare e ballare come se nulla fosse.

Come se lui non esistesse.

«What am I supposed to do when the best part of me was always you? What am I supposed to say when I'm all choked up and you're ok? I'm falling to pieces. I-»

«I'm falling to pieces».

La voce del biondo si bloccò non appena una seconda prese il suo posto in quella canzone. Si voltò di scatto per vedere Nick, a pochi passi da lui, il viso pallido e gli occhi lucidi.

«Sto cadendo a pezzi, Jeff», sussurrò il bruno, riprendendo il verso della canzone che gli aveva appena sottratto «Stiamo entrambi candendo a pezzi».

Starling lo guardò come se non potesse davvero credere che fosse lì, che stesse parlando di nuovo con lui, che ci fosse una speranza per loro, per mettere le cose a posto. Perché era quello che voleva, giusto? Se era lì era per sistemare tutto quello che era successo...

O forse no. Forse era un altro dei suoi inganni, dei suoi maledetti compromessi. Stavolta però sapeva come difendersi.

«Io sto cadendo a pezzi, Nick. A te non frega nulla», lo corresse freddo, alzandosi con sforzo per il movimento improvviso.

Il bruno annuì senza staccare gli occhi dal compagno di camera: era vero, a lui non era fregato nulla di Jeff in quella settimana, o almeno aveva fatto di tutto perché sembrasse così. Ma se solo avesse saputo la verità, se solo avesse saputo che cosa si agitava in lui, Jeff non avrebbe mai pensato una cosa del genere. A lui importava, importava terribilmente.

«Sono stato uno stronzo, hai ragione Jeffie, ma-».

«Jeffie?», gridò il biondo con risentimento – la rabbia era la sola cosa che sentisse al momento e non sarebbe stato più in grado di trattenerla «Come osi chiamarmi così adesso? Jeffie non c'è più, lo stai ammazzando, come stai ammazzando Nicky e la colpa è solo mia perché te lo sto lasciando fare! Sto lasciando che tu distrugga me e che distrugga il ricordo che ho di te, del vero te, il te di cui ero innamorato».

Non avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto mantenere quell'aria incazzata da sfida, fredda ed impassibile, l'aria che aveva avuto Nick in quei giorni e che in realtà non era mai appartenuta a nessuno dei due. Eppure le lacrime rigarono il suo viso prima che se ne potesse rendere conto, mentre stava ancora parlando. Faceva male dare voce ai pensieri, faceva malissimo.

Nick trattenne il fiato come se ogni sillaba lo avesse colpito allo stomaco. Non se l'aspettava. Poteva solo immaginare il male che stava facendo a Jeff, ma non si aspettava una simile reazione. E poi... aveva detto che era innamorato di lui? Assurdo, ma in tutto quello sfogo ora era la sola cosa su cui stesse focalizzando la sua attenzione.

«E sai cosa mi fa più rabbia? Che io stia qui a deprimermi mentre tu invece te ne vai in giro come se nulla fosse, come se avessi cancellato in un sol colpo anni di ricordi e non sapessi più neanche chi sono. Un cuore quando si spezza non lo fa mai a metà, giusto? È ingiusto, tu sei ingiusto e vorrei che tutto questo non facesse così male».

«Sei innamorato di me?».

Jeff avrebbe voluto ridere e piangere nello stesso momento, ma non ebbe la forza di fare nessuna delle due cose. Da quanto Nick era diventato tanto idiota?

«Possibile che io stia gridando da minuti e minuti e tu ti sia concentrato sull'unico dato inutile di tutta la questione?!».

«Ma è così, giusto? L'hai detto?», continuò a chiedere il bruno, avvicinandosi sempre più all'altro.

«Se non fossi innamorato di te non staremmo qui ad avere questa discussione, io non starei piangendo, tu non staresti facendo lo stronzo e magari, dico magari, staremmo ancora parlando come due persone civili, anziché gridare come matt-».

Le labbra di Nick interruppero la voce arrabbiata e spezzata di Jeff, poggiandosi sulle sue con leggerezza ed istinto, come se fosse stata la cosa più naturale ed appropriata da fare in quel momento. Il biondo trattenne il fiato, senza sapere che cosa fare, fino a che le braccia agirono quasi da sole nell'allontanarlo da sé.

«Cosa cazzo pensi di fare ora?», sputò come se lo avesse ferito ancora di più – perché gli era piaciuta quella sensazione, perché ne aveva sentito la mancanza nonostante l'avesse provata una sola volta.

«Ti bacio».

«E perché lo fai?».

«Perché sono innamorato di te».

In quel momento Jeff sentì il tremendo bisogno di prendere Nick a schiaffi. O magari se stesso. Perché era tutto completamente assurdo e non poteva che essere uno scherzo di pessimo gusto. Non riusciva a capacitarsi di quello che il bruno gli aveva detto: non aveva senso! Non aveva senso che anche Nick fosse innamorato di lui, ma che avesse al contempo deciso di tagliarlo fuori dalla sua vita, non aveva senso che lo stesse facendo soffrire così...

«Ho avuto paura. Lo so che sono stato uno stronzo, lo so che ti ho fatto stare male... ma ho avuto paura che accettare quello che provavi, quello che anche io provo sarebbe stato troppo. Se ti avessi perso? Sei la sola cosa sicura che abbia al momento, la sola cosa a cui io possa aggrapparmi senza avere paura e il fatto che mentre una scuola ci cadeva addosso tu mi abbia baciato è stato destabilizzante. Ho pensato che se le cose non fossero andate nel verso giusto non saresti stato più con me, neanche come amico... ed io non posso perderti, capisci? Non posso. Non credo sarei capace di sopravvivere senza di te».

«Quindi meglio trattarmi male e ferirmi... logico», sussurrò ancora rabbioso Jeff.

«No, affatto. Non c'è nulla di logico. C'era solo paura, Jeffie. C'ero solo io che non sapevo che cosa fare mentre sembrava che tutto mi stesse cadendo addosso».

«Stava cadendo addosso a tutti, Nick».

«E tu non hai avuto paura? Non ti sei sentito al limite, pronto a dare di matto?».

«Sì, certo che sì! Ma mi sono sentito così perché tu non eri con me!».

Il bruno non riuscì a reprimere uno scoppio di pianto. Aveva davvero fatto tutto questo? Fatto del male a Jeff così tanto senza rendersene conto? Ed ora… ora lo aveva perso… ora non sarebbe stata la stessa cosa… ora…

Jeff gli alzò il mento e lo guardò dritto negli occhi. Poteva vedere la loro lucentezza che schiariva il colore delle iridi e non ci pensò per più di qualche istante prima di baciarlo con lentezza, mischiando le loro lacrime, lasciando che Nick capisse che era perfettamente la stessa cosa, che con lui non sarebbe stato mai troppo tardi.

«Jeff…» riuscì a sussurrare il bruno prima di riprendere le sue labbra morbide tra le proprie e baciarlo ancora, come se fosse la sola cosa di cui avesse bisogno al momento.

Si chiese come avesse fatto fino a quel momento senza, perché quella sensazione di morbidezza, di stare sospeso mezzo metro da terra, di non riuscire a staccarsi da Jeff ed avere il cuore così pieno di gioia da poter scoppiare sembrava tutto ciò di cui avesse bisogno.

«Non ti ho perso, non ti ho perso, non ti ho perso», si ripeté non appena riuscì la lasciar andare la sua bocca e lo strinse a sé con forza.

Jeff poggiò la sua testa nell’incavo della spalla di Nick e si lasciò tenere così: non l’aveva perso e lui era dannatamente grato per questa cosa. Era il suo Nicky ora, il suo Nicky…

«Ti amo…», sussurrò senza rendersene conto subito; quando lo capì, ebbe paura di aver sbagliato di nuovo.

Il bruno lo allontanò quel tanto che bastava per vederlo ed annuì, il suo miglior sorriso messo lì solo per Jeff.

«Ti amo» ripeté con semplicità, prima di tornare a stringerlo a sé.

 

*

 

Sebastian trattenne a stento un nuovo lamento mentre il medico continuava a disinfettare la ferita alla mano per mettere nuovi punti. Era più un gemito di nervosismo e spossatezza per la situazione che per altro – lungi da lui lamentarsi come una femminuccia per un taglietto – ma l’uomo non smetteva di alzare la testa in sua direzione ogni volta che non riusciva a contenersi e la cosa lo stava irritando terribilmente.

«Apra molto lentamente la mano», gli disse e Sebastian fece quanto gli era stato detto anche se con riluttanza.

Il graffio che si era procurato durante il crollo andava dall’indice fin oltre il polso e nonostante non fosse così profondo da suscitare preoccupazioni, il medico che lo aveva disinfettato e gli aveva applicato i dovuto punti lo aveva costretto ad tornare per un controllo ogni due-tre giorni, adducendo come scusa il fatto che aveva lasciato trascorrere quasi una giornata intera prima di avere il buon senso di farsi medicare.

«Ora provi a toccare con il pollice, una dopo l’altra, tutte le dita. Sempre lentamente», disse di nuovo l’uomo.

Il ragazzo fece quanto gli era stato chiesto, ma stavolta non riuscì a trattenere quello che era un vero gemito di dolore, quando provò ad arrivare all’anulare.

«È normale che le faccia ancora male, ma dopo dieci giorni posso dire che la cicatrizzazione sta procedendo bene: non ci sono segni di alcun tipo di infezione e penso proprio che questa sarà l’ultima medicazione di cui avrà bisogno. Torni tra cinque giorni e toglieremo tutto», concluse soddisfatto il medico, congedando definitivamente un sollevato Sebastian che quasi scappò dalla stanza, non appena capì di essere “libero”.

Si sistemò meglio la giacca del giubbino non appena fu fuori e si avviò velocemente lungo il corridoio, massaggiandosi la mano quasi senza rendersene conto. Odiava gli ospedali: erano ciò che lo spaventava di più al mondo – molti avrebbero detto di sentirsi sicuri tra quelle mura, tra le mani di specialisti che sapevano cosa stava loro succedendo, ma la verità era che non c’era posto più vicino alla morte e alla debolezza di quello. Lì era come se la sofferenza di chi era ricoverato e dei parenti formasse una cappa che avvolgeva ogni cosa: non importava se avessi davvero un motivo per star male o essere triste, in quel posto lo saresti stato ugualmente, come per osmosi. E Sebastian non voleva stare male, non voleva essere triste o fragile, quindi doveva scappare quanto prima da lì dentro, trovare l’uscita e la salvezza prima che qualc-.

«Trovate il modulo di dimissioni da firmare alla reception del piano, signori Harwood. Serve solo una firma e poi potrete portare vostro figlio a casa».

Smythe non provò neanche a tirare dritto, ma fece qualche passo indietro e si nascose contro la parete, in modo da intravedere appena gli interlocutori senza essere visto da loro. C’erano un paio di medici in camice, i signori Harwood e Thad. Scorgere il suo viso fu più liberatorio di quanto Sebastian avrebbe mai ammesso: stava bene ed accertarsene di persona era una cosa meravigliosa.

«Alla Dalton. Non a casa», li corresse il ragazzo, senza lasciare che lo sguardo di disapprovazione dei genitori sminuisse la sua convinzione «Sono tutti lì: sapete che a casa non resisterei neanche un giorno».

«Basta che stai a riposo completo per ancora altri due o tre giorni», si preoccupò di ricordare uno dei medici.

Thad sorrise, il viso ancora un po’ pallido che prendeva un po’ di colorito con quel gesto, e lasciò che il padre lo tirasse a sé con affetto poggiandogli un braccio sulle spalle. Non sarebbe servito uno psicologo o un indovino per capire quanto rafforzato fosse uscito il loro legame da quella situazione e ancora una volta Sebastian provò l’istinto quasi doloroso di intervenire ed unirsi alla scena.

Mosse anche qualche passo, prima di fare resistenza su se stesso e fermarsi. Che diavolo di senso avrebbe avuto entrare in quella scena? Non ne faceva parte, aveva scelto di non farne parte per il proprio bene ed ora doveva semplicemente rigare dritto.

Si scrollò di dosso l’esitazione che lo aveva colto e si decise ad andare avanti ed uscire da quel posto. Ecco cosa intendeva parlando di ospedali. Ecco perché li temeva.

 

«Prima di andare devo fare una cosa».

Melissa guardò suo figlio con fare interrogativo, mentre tutti e tre si muovevano per i corridoi del reparto, moduli firmati in mano, pronti a lasciare quel posto.

«C’è un mio amico ancora ricoverato qua, ricordate?», spiegò Thad ed entrambi i genitori annuirono: Kurt, era quello il nome del ragazzo. Lo avevano trovato tra le stesse macerie di Thad, aveva rischiato di morire come lui ed era ancora in coma. Avevano anche parlato con il padre una volta e avevano sentito come proprio il dolore di quell’uomo tanto che alla fine Kevin si era scusato e si era allontanato – non avrebbe retto ancora per molto.

Erano passati dieci giorni da quell’incidente, dieci giorni dal ricovero in ospedale e quel ragazzo non si era ancora svegliato. Nessuno dei due poteva immaginare che cosa volesse dire aspettare per così tanto tempo che il proprio figlio aprisse gli occhi.

Nel corridoio di Terapia Intensiva, la famiglia Harwood riconobbe Finn Hudson che sedeva distrattamente su uno dei seggioli di fronte la porta della camera di Kurt. Non si accorse di loro fino a che Thad non lo salutò gentile; solo allora scattò in piedi salutando a sua volta e sorridendo: il Warbler non lo aveva mai conosciuto per bene, ma poteva ugualmente notare quanto fosse stanco e agisse in modo meccanico, quasi tutto quello fosse diventato un abitudine.

«Blaine è dentro… vuoi entrare?», propose il ragazzo facendo un cenno verso la porta

Thad esitò qualche istante prima di annuire ed avviarsi: in fondo era andato lì per vedere Blaine e Kurt, non aveva senso rinunciare in quel momento. Dovette però ricredersi quando, non appena fu entrato, l’immagine di quelli che un tempo erano stati suoi compagni di squadra gli tolse il fiato, procurandogli un capogiro che lo costrinse ad appoggiarsi al muro per non perdere l’equilibrio. Blaine sentì immediatamente il movimento alle sue spalle e si voltò di scatto.

«Thad!», lo chiamò sorpreso, muovendosi verso di lui e prendendolo per le spalle «Ti senti male?».

Il Warbler lo guardò per qualche istante prima di abbracciarlo forte – per quanto il braccio limitasse i movimenti – e non si sorprese nel sentire la presa stretta con cui il riccio ricambiò il gesto, come se in fondo quello a reggersi con difficoltà in quel momento fosse proprio lui.

«Siediti. Come stai?», chiese Blaine non appena fu in grado di lasciarlo andare, accompagnandolo con attenzione fino alla sedia accanto al letto di Kurt.

Harwood avrebbe risposto se i suoi occhi non si fossero incollati al viso pallido del ragazzo steso sul letto in un modo così forte che fu impossibile per lui concentrarsi su qualsiasi altra cosa che non fosse quell’espressione a metà tra la calma e il dolore che aveva sul volto Kurt. Perché sembrava semplicemente dormire, ma tutti – compreso lui – sapevano che non era così.

«Dovrai odiarmi così tanto, Blaine», sussurrò con voce spezzata.

«Che cosa stai dicendo?».

Thad si voltò a cercare gli occhi dell’amico: sapeva che i suoi dovevano essere già lucidi, ma non importava purché potesse vederlo per bene mentre gli chiedeva la cosa che forse lo stava tormentando di più da quando era successo tutto quello – Sebastian a parte.

«Devi odiarmi. Io sono qua, sto bene, mentre Kurt è in coma e non sappiamo neanche quando… Eravamo nella stessa stanza, esposti allo stesso pericolo eppure io sto bene, mentre lui è bloccato in un letto di Terapia Intensiva. Devi per forza odiarmi, devi esserti chiesto perché a lui e non a me… E hai ragione: è ingiusto… tutto questo è semplicemente ingiusto ed io vorrei che ci fosse un modo per-».

Il ragazzo si bloccò: non che volesse farlo, aveva ancora tanto da dire, ma Blaine gli si era buttato tra le braccia e aveva cominciato a singhiozzare sulla sua spalla come un bambino, scuotendo la testa, ma non riuscendo a proferire parola per l’impeto del pianto. Thad gli accarezzò la schiena, stringendolo a sua volta non appena ebbe ripreso coscienza di quello che stata accadendo.

«Non ho m-mai sentito uno d-discorso meno s-sensato di questo. S-soprattutto da te», balbettò il riccio, cercando di ricomporsi; quando poté vedere di nuovo il volto dell’amico, scorse anche su quello qualche lacrima che lo bagnava, dolorosa.

«Ho passato questi giorni pensando a come dovevate stare, a come dovevi sentirti e non riuscivo a togliermi dalla testa l’idea che se avessi fatto qualcosa tutto questo non sarebbe successo, che magari le cose sarebbe potute andare diversamente per Kurt… Non sono venuto prima per questo... Non sapevo cosa fare...».

«Non c’era nulla che tu potessi fare, Thad. Non potrei mai avercela con te! Anzi… avrei dovuto venire io a trovarti in questi giorni… ma sai… Non…».

«Lo so», lo rassicurò Harwood «Non avrei mai preteso una cosa del genere, considerato tutto... questo. E poi sto bene!».

Blaine annuì: sì, stava bene, se si escludeva il lieve tremore che lo scuoteva e che il riccio riusciva a scorgere per quanto Thad sapesse nasconderlo bene e quegli occhi che lo osservavano in modo così diverso dall’ultima volta che aveva parlato con lui.

Stava bene. Stavano tutti bene.

«Ti hanno dimesso, quindi?», chiese allora, sperando di cambiare argomento ed alleggerire la conversazione.

«Appena dimesso, sì», confermò con entusiasmo quello «Finalmente torno alla Dalton!».

Blaine annuì: poteva capire perché fosse tanto contento. I Warblers erano sempre stati una famiglia e certo, ora aveva le New Direction, ma non sarebbero mai stati in grado di sostituirli, non completamente.

«Se vuoi… potresti venire con me, almeno per stasera, e stare con noi. Ti farebbe bene uscire un po’…».

Thad sapeva che Blaine non avrebbe mai accettato, ma non aveva potuto fare a meno di proporlo: gli occhi stanchi dell’amico sembravano supplicare una pausa che il cuore non avrebbe mai ammesso di necessitare. Blaine non se ne sarebbe mai andato da lì, non avrebbe mai lasciato Kurt da solo, nonostante sembrasse terribilmente vicino al limite.

«No. Sai che non posso».

«Sì. Lo so».

Thad lo abbracciò un’ultima volta, promettendo che sarebbe tornato presto, forse anche il giorno seguente, e che sicuramente anche gli altri avrebbero fatto altrettanto: se c’era una cosa su cui avesse mai avuto ragione Sebastian era proprio che un Warbler non smetteva mai di essere tale.

Il riccio gli sorrise, stringendolo forte, e lo ringraziò di tutto, ripromettendosi di chiamarlo per chiedere degli altri, anche se il ragazzo lo aveva rassicurato sul fatto che, fisicamente, stessero tutti bene. Aveva ovviamente evitato di menzionargli i propri problemi con Smythe o peggio le incomprensioni di Nick e Jeff: sarebbe stato inutile e lo avrebbe solamente fatto preoccupare inutilmente.

Quando andò via, Harwood non poté fare a meno di sentirsi in colpa, come se stesse lasciando un compagno indietro e la cosa non lo faceva affatto stare bene. Blaine invece sospirò, leggermente meno stanco, come se la visita di Thad gli avesse portato un po’ di vecchia quotidianità ormai persa. Prese il suo posto, accanto al metto di Kurt, e posò la propria mano sulla sua.

«Thad è davvero un grande amico. Mi ha fatto bene vederlo…», sussurrò, abbassando distrattamente lo sguardo, forse per celare un sorriso sincero che gli era spuntato sulle labbra a quel pensiero.

Quando lo rialzò, un giramento di testa gli tolse il fiato. Le dita di Kurt si erano mosse, si stavano muovendo proprio davanti a lui. Spalancò gli occhi, impedendosi di prendere aria. Era tutto un sogno, vero? O una sua immaginazione, o il primo sintomo della sua follia. Non poteva essere la realtà, non poteva aver davvero mosso le dita, perché questo voleva dire che…

«Kurt…? Kurt puoi sentirmi?».

Le parole, la loro speranza saltò fuori prima che Blaine potesse essere abbastanza cauto da non alimentare false aspettative. Forse ne aveva semplicemente bisogno: la voglia di sperare ancora che Kurt potesse davvero svegliarsi era più forte della paura per la delusione che avrebbe potuto atterrarlo se mai si fosse sbagliato.

Kurt mosse ancora la mano.

 

Quando Thad Harwood mise finalmente piede alla Dalton, una decina di ragazzi festosi e con grossi sorrisi lo accolse nel modo più caloroso che potesse immaginare – e a poco contava se nell’impeto qualcuno gli urtasse il braccio facendogli male: quegli abbracci, quell’affetto, quel calore gli erano mancati troppo.

«Sono così felice di vedervi tutti!», esclamò appena riuscì a riprendere fiato, con le lacrime di commozione che premevano agli angoli degli occhi.

«Ci sei mancato terribilmente», gli saltò di nuovo al collo Jeff e Thad dovette chiedersi in che modo riuscisse a nascondere la tristezza che fino a qualche giorno fa gli aveva confessato nelle continue chiamate.

Gli bastò guardarlo un secondo di più negli occhi per capire che non stava fingendo o nascondendo nulla, che aveva semplicemente fatto pace con Nick, che tutto era tornato a posto, se non meglio. Sorrise verso il biondo mostrandogli di aver capito e gli occhi che luccicarono per la felicità furono la cosa più bella che Thad avesse chiesto quella sera. Inutile dire che Nick non fu da meno, anzi: Harwood si trattenne a stento dal esclamare un grido di vittoria per la riconciliazione, ricordandosi all’ultimo che se non l’avevano detto a lui, forse era perché non lo avevano ancora detto a nessuno.

«Scenderò per cena, ma ora datemi il tempo di salire in camera e mettermi la divisa: non avete idea di quanto ne abbia sentito la mancanza!», si scusò ad un tratto il ragazzo, avviandosi infine verso le scale, seguito con lo sguardo da tutti i suoi compagni.

Thad osservava ogni cosa con la dovuta attenzione, soffermandosi su ogni particolare come se fosse la prima volta che li vedeva – e forse era davvero così che si sentiva, come se stesse vivendo tutto per una seconda prima volta e la cosa lo entusiasmava ed estasiava come se non ricordasse più nulla e stesse scoprendo tutto daccapo, con una stretta allo stomaco per lo splendore del posto. Lentamente, però, i ricordi della vita che aveva vissuto tra quelle mura cominciarono ad affiorare, impreziosendo le immagini che gli capitavano davanti. Ora c’era Trent che lo svegliava portandogli del caffè fumante dopo una delle sue nottate di studio dietro la matematica; ora invece Flint rincorreva Jeff dopo l’ennesimo scherzo che quest’ultimo gli aveva fatto; poi c’era Cameron e la sua pace serafica che aiutava James a venir fuori da chissà quale melodrammatico fatto di donne, mentre più avanti poteva riconoscere perfettamente il momento in cui Andrew si era presentato davanti camera sua chiedendo asilo politico dopo una lite con Luke.

Erano tutti lì ed improvvisamente quella nuova prima volta si colorava delle sfumature migliori dei sui ricordi, fino a che non si trovò finalmente davanti alla porta della sua camera.

«Ciao! Posso aiutarti?».

Un ragazzo longilineo dai bellissimi occhi chiari lo guarda sorpreso, prima di sorridere – o sarebbe stato più appropriato definirlo ghigno? – ed allungare una mano verso di lui.

«Sebastian Smythe, piacere: credo di essere il tuo nuovo compagno di stanza».

Thad deve trattenere uno sguardo di disappunto e sfoggiare uno dei suoi migliori sorrisi, mentre stringe la mano di uno sconosciuto. Non che non ne fosse informato: sapeva che con il trasferimento di Blaine erano cambiati gli ordini nelle stanze e che lui si sarebbe trovato con un nuovo ragazzo… ma il fatto che fosse davvero davanti a lui in quel momento rendeva la cosa  più reale di quel che pensasse.

Sperava solo che si sarebbe trovato bene.

Il ragazzo sospirò ed abbassò la maniglia della porta, quasi sicuro di trovare lì Sebastian: in fondo non era andato a salutarlo con gli altri, quindi era probabile che fosse semplicemente steso sul proprio letto, con fare indifferente.

Quando entrò però una cosa lo colpì in modo terribilmente veloce. La stanza era vuota; e non solo perché effettivamente non vi era nessuno dentro, ma soprattutto perché mancavano molte delle cose che era abituato a vedere. La chitarra nell’angolo accanto alla scrivania era scomparsa, così come la parte dei CD sulla mensola e alcuni libri che occupavano un paio di scaffali accanto ai letti. Istintivamente Thad aprì l’armadio del suo compagno di stanza, per trovarlo vuoto come aveva immaginato. Le cose di Sebastian semplicemente non erano più in quella stanza.

«Avremmo voluto dirtelo, Thad… ma eri così felice di essere tornato e noi di averti ancora qui, che non ce la siamo sentiti di rovinare tutto».

La voce lieve di Nick fece girare il Warbler verso la porta, così da poter scorgere l’amico, accompagnato da Trent e Jeff.

«Che cosa è successo?», chiese, nonostante sapesse perfettamente la risposta.

«Smyhte ha cambiato stanza non appena tornato dall’ospedale».

 

 

 

 

 

 

 

 

_________________________

*Fa finta che il ritardo con cui pubblica non abbia superato le tre settimane e fila dritta nelle note d’autore senza fare una piega*.

Ma salve! Ancora una volta non siete riusciti a sbarazzarvi di me! E in più, finalmente qualcosa ha deciso di andare davvero per il verso giusto! La parte Niff poi, come anticipato, è dovuta alla carissima Emilia, che dopo avermi minacciata consigliato di far tornare insieme quei due al più presto, mi ha anche suggerito di farli cantare, trovandomi la meravigliosa cover di Curt Mega di Breakeven degli Script, di cui mi sono follemente innamorata e che ho infine inserito (era troppo adatta al momento e al “mio” Jeff per non farlo).

Per il resto… Angst Anderbros che va e viene, la Thadastian che non riesce a riprendersi (e spero che Sebastian sia stato ancora una volta credibile *paura*) e Kurt che forse, invece, qualcosa sta riuscendo a fare.

 

A presto. Alch

 

   
 
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