Cannella
Cammina sotto la pioggia incurante delle macchine che gli
sfrecciano di fianco schizzandogli fango sui pantaloni della tuta o del freddo
che comincia a entrargli nelle ossa facendolo tremare come una foglia; non gli
importa del telefono che continua a vibrare nella tasca della giacca di pelle o
del mal di testa che gli sta tentando di sfondare il cranio. Incurante di tutto
continua per la sua strada strisciando i piedi sull’asfalto che puzza di cane
bagnato e di argilla. La testa bassa, fissa sui suoi passi.
Pioveva anche quel giorno; Imre era steso sul rimorchio del
pick-up con gli occhi rivolti al cielo. Erano le costellazioni ad attrarlo così
tanto, con un dito per aria contava le stelle e disegnava segmenti accostati
l’uno all’altro come a formare immagini schematiche. Con la testa poggiata
sull’enorme bersaglio impagliato contava il numero di gocce che gli cadevano in
viso. La prima goccia gli aveva centrato l’occhio mischiandosi agli
impercettibili lapilli azzurri nell’iride color pece, la seconda si era posata
sulle labbra dischiuse e alla terza stava già perdendo il conto.
In un attimo le strade si erano fatte fangose, le ruote
scivolavano a vuoto mancando di qualche millimetro l’asfalto, il corpo di Imre
era bloccato tra due sacchi di sabbia, tutto il resto intorno a lui sembrava
impegnato in un vertiginoso ballo con le barriere del pick-up. Ogni sterzata
come un casquet.
E poi. Silenzio. Solo fortissime emozioni tutte in un una
volta, insieme, di corsa, come una fottuta bomba pronta ad esplodergli nel
petto. Non respirava, non vedeva, cieco di colori, cieco di forme, cieco di
quei segmenti dietro al dito ancora puntato verso il cielo. Il panico si era
impossessato di lui e le sue dita non ne volevano sapere di battere un dannato
tempo sul pavimento ferroso del pick-up, in mezzo a quel caos non c’era nulla
che Imre fosse capace di fare per recuperare il controllo di se. E quel boato,
così impercettibile, così lontano, sovrastato da tutto quel silenzio,
contemporaneamente inquietante, come un gigante nascosto da una collina di cui
se ne sente solo l’odore, come una bambina al centro della strada stretta in
una felpa nascosta dal buio della notte.
Ricorda quando, sotto un cielo grigio, si era chiesto cosa
avrebbe pensato suo padre del suo amato legno di ulivo vedendolo mentre
ricopriva la sua salma vestita di tutto punto e avvolta nella croce di Lorena.
Era un legno vivo, diceva, lo sarebbe stato per davvero, prima una piantina
verde da due o tre foglie poi un tronchetto sottile e fragile. Nel giro di poco
tempo la lapide in marmo fredda e anonima era affiancata da un ulivo alto e
nodoso. Ad un Imre bambino era parsa pura magia, ad un Imre ormai adulto
ricorda solo l’immensa e rassicurante presenza dell’uomo che lasciava che si
sporgesse dal finestrino per annusare e osservare e sentire l’aria scorrergli
tra i capelli ed entrargli nei polmoni.
Era rimasto lontano
da tutti: lontano dalle parole del prete pronunciate con estrema lentezza
imitando una dolcezza che mai gli era appartenuta; lontano dal pianto strozzato
di amici e parenti; lontano dall’odore di terra dismessa; lontano dalla pietà,
dalla compassione e da frasi incasellate in uno sguardo dispiaciuto e in un
abbraccio bullonato in un corpo freddo e distante, frasi che non capirebbe.
Eppure per quanto potesse allontanarsi da loro, le loro voci
e i loro dannati cuori battevano più rumorosi che mai in quel silenzio funereo,
Imre non sarebbe mai riuscito a trovare un ritmo confortevole in quel
fastidioso vociare, si sarebbe fatto sopraffare dalle sensazioni, sarebbe
crollato, esploso, si sarebbe lasciato andare. Lo avrebbe fatto per davvero se
non fosse stato per quella goccia che sulla guancia lasciava un solco profondo
e freddo. Prima una, poi un’altra, pioveva ancora. Solo contro un albero, si
era ritrovato a maledire la pioggia a denti stretti, incolpando lei, con tutto
se stesso. Poi ogni goccia era diventata suono ed ogni suono copriva il vociare
sommesso di quella marea di maschere davanti ai suoi occhi, in lei trovava il
ritmo che non era riuscito a creare da solo e lasciava che coprisse da sola
tutto ciò che turbava quel ragazzino nascosto dietro un albero. Imre piano,
piano capiva; capiva di come la pioggia lo avesse protetto dal boato dell’incidente,
capiva come lo avesse preparato goccia dopo goccia a sopportare un dolore più
grande di lui, capiva come restare in vita, come respirare rubando ossigeno
alle molecole d’acqua che gli inondavano i polmoni.
Adesso, mentre apre il cancello in ferro battuto, non
capisce come la pioggia possa permettere a quella voce di arrivargli dritta
nelle orecchie, limpida più che mai.
Can-Nel-La.
In quel cafè ci saranno scarse una quindicina di persone,
ognuno di loro aspetta che la pioggia smetta di cadere giù dal cielo per poter
rientrare in casa, ogni tanto qualcuno tenta anche di uscire fuori per
ritornare dentro con l’ombrello rotto e il cappotto bagnato. Allora si
avvicinano al bancone e ordinano una
tazza di thè caldo o di cioccolata fumante.
C-A-N-N-E-L-L-A.
Una macchia scura si muove nel buio e cattura la sua
attenzione. Quando un paio di alogeni illuminano il suo viso ad Abigail va di
traverso il thè. Chiama la cameriera senza mai lasciarsi sfuggire la figura che
cammina a capo chino sotto la pioggia incessante. Le chiede un thè caldo da
portare via. Lei la guarda di traverso e getta un occhio alla tazza fumante tra
le mani di Abigail; sei davvero sicura che tu lo voglia da asporto? Sembra
chiederle ma qualcosa le impedisce di parlare, forse il buon senso. Intanto
Abigail si alza e con le spalle poggiate al bancone osserva Imre fermarsi
davanti al cancelletto in ferro battuto del cimitero.
“Ecco a te, e buona fortuna!”
Il profumo del thè gli arriva chiaro nelle narici e Abigail
sussurra. L’ultima flebile parola pronunciata a fior di labbra prima di gettarsi
nel silenzio della pioggia.
CANNELLA.
Lo chiama e lui si ferma, con la mano poggiata sulla
ringhiera arrugginita, si volta e incrocia il suo sguardo. Le sue dita sono
ferme, strette nella morsa della tuta ormai completamente bagnata, la sua voce
bloccata all’interno dell’esofago. Solo i loro occhi si muovono, si studiano,
si cercano anche.
Privi delle loro parole, come segnali di fumo strozzati dal
vento, non riescono a trovare nelle dita e negli occhi dell’altro ciò che aveva
permesso a entrambi di conoscersi a vicenda, di scoprirsi e di smascherarsi.
Nudi, senza le proprie armi; nudi, con indosso solo i loro sguardi. Persi l’uno
nell’altro senza riuscire a trovare via d’uscita. Solo domande, infinite
domande senza risposte, risposte che la pioggia si prende e porta via
nascondendole nel suo silenzio, nel suo elenco impercettibile di molecole di
vita.
Ciò che vedono non è ciò che sentono, la pioggia si è
portata via il ritmo di lui e i sussurri di lei, come per costringerli a
trovare un altro modo per capirsi, un modo più umano, più naturale come l’uso
della parola per esempio.
Imre prende dalle mani di Abigail la tazza di thè che gli
sta offrendo e la porta alle labbra intorpidite dal freddo. Non batte ciglio,
le pupille ancora incastrate in quelle di lei, troppo impegnate a cercare
qualcosa che non sia pioggia o silenzio, per la prima volta vorrebbe che la
pioggia smettesse di scendere copiosa ridandogli indietro il suo martellante
ritmo.
Un ulivo si annoda su una lapide anonima e fredda al centro
del cimitero. Di fianco c’è una fossa enorme che attende di essere abitata,
un'altra anima data in pasto ai vermi e all’umidità.
“E’ mio padre.”
Abigail non chiede, Abigail aspetta che sia lui a continuare,
spinto dallo stesso motivo che lo aveva indotto ad aprirsi con lei.
“E’ morto quando avevo undici anni, era l’unica persona che
mi restava. Sai, non ho mai conosciuto mia madre, credo fosse una roba tipo
circense, una di quelle persone che non sai se restano e per quanto tempo.
Diceva che era bellissima e che faceva dei giochetti col fuoco niente male, non
me n’è mai fregato niente in verità, mi fregavano le stelle invece. Sempre col naso all’insù
sdraiato nel rimorchio del pick-up, quello su cui sei salita anche tu, a
contare le stelle. Se ci penso mi viene da ridere, riesci a immaginarmi? Con la
testa su un sacco di farina e il dito puntato per aria a caccia di mosche.”
Abigail in realtà ce lo vede, un bimbo dalla testa rossiccia
a caccia di mosche. In quegli occhi sarebbe stato capace di contenere di tutto,
anche il cielo se fosse stato lontanamente possibile.
“Beh, pioveva e una bambina è sbucata dal nulla, mio padre
ha sterzato e la macchina ha cozzato contro un albero, è stato scaraventato
fuori dal finestrino, per metà credo. Aveva la testa penzoloni ricoperta di
sangue e gli occhi ancora aperti per lo spavento. Almeno è quello che mi hanno
detto, non ricordo nulla di quello che è successo, non ricordo come siamo andai
a finire addosso a quell’albero, non ricordo il viso di quella bambina e non
ricordo come fossi arrivato davanti la porta della mia camera. Ricordo solo le
stelle, il mio dito puntato verso il cielo e le gocce che mi cadevano negli
occhi.”
“La pioggia ti ha protetto.”
Imre la guarda, incredulo. Come fa a capirlo, come fa a
centrare ogni volta il bersaglio con una facilità così estrema? E’ così
dannatamente precisa, è come se passasse il tempo ad ascoltare non quello che
dici ma il silenzio che passa tra una parola e l’altra, come se misurasse i
tuoi respiri e li traducesse in righe mai scritte.
“Protegge anche te. Ti ho vista, sugli spalti. Le tue labbra
immobili. La pioggia ti ha fregato le parole e se le gioca ai dadi insieme al
mio ritmo.”
Sorride vincente ma non riesce a decifrare l’espressione
stampata sul viso di Abigail.
“Io non ricordo nulla Imre. Non ricordo il viso di mio padre
ne il profumo del suo dopo barba, non ricordo mia madre ne l’odore dei suoi
capelli o la sensazione delle sue dita sulla mia guancia. Mi sono ritrovata sul
ciglio di una strada con un bernoccolo in testa e tanta paura in corpo. Ero
dannatamente confusa, mi giravano in testa centinaia di voci, voci senza volto,
atone, anonime. Non riuscivo a pronunciare nemmeno una parola, nemmeno una, non
uno straccio di sillaba. Bloccata. Una sensazione tremenda. Poi, la pioggia.
Sai che significa? Stavo rinascendo, gli odori..non ne avevo mai sentiti di
così forti e i suoni? Era come stare in un fottuto parco giochi. Non sapevo
nemmeno cosa fosse un parco giochi però sapevo che se esisteva qualcosa come
quello che avevo davanti agli occhi in quel momento, allora sicuramente doveva
chiamarsi parco giochi. E’ sempre stato così, da quel momento in poi mi muovevo
per inerzia, sapevo che certe cose andavano fatte in un certo modo ma non
sapevo perché. La pioggia però mi ha dato anche qualcos’altro. Il mio nome. Ero
così sicura di chiamarmi Abigail, me lo sentivo addosso, come un abito
confezionato su misura. Era perfetto e anche confortante.”
Cazzo. Imre capisce, adesso da un nome a quell’ossessione di
catalogare ogni cosa, di tirare fuori nomi, numeri, a volte anche solo lettere
o suoni. E’ come se la mente di Abigail fosse stata mandata al macello con
tutto quello che conteneva, lasciandola sola con un mucchio di resti indefiniti
di pezzi di vita sparsi qua e la. Frame rari e brevi di una lei che non è più
lei. Come una scatola da riempire totalmente, da capo, di una nuova vita che
non è propriamente sua ma che appartiene ad altri. Sono elementi piccoli,
ricordi brevi e per lo più dimenticati, a volte rimossi del tutto e che, però,
rimangono a galleggiare in qualche parte in un punto non ben definito della
pupilla, o magari dell’iride.
“Quindi è per questo che lo faccio, la storia del sussurrare
e tutta quella roba lì che ti aveva tanto incuriosito. Sussurro perché non ne
posso fare a meno, perché ho bisogno di conoscere e capire, ho bisogno di
riempire la testa di qualsiasi cosa che mi spieghi perché faccio determinate
cose o perché abbia bisogno di altre. Tutto pur di non cedere al vuoto. E’
qualcosa di non molto diverso da quella buca.”
Abigail si volta e lo guarda, si avvicina di un passo e
inclina il viso di qualche centimetro mentre un sorriso fa capolino aprendosi
una fessura tra le labbra ormai viola.
“Siamo agli opposti, io e te. Io ho bisogno di sentire e di
essere sopraffatta da ciò che sento, mentre tu..tu cerchi di controllare le tue
emozioni, anch’io ti ho visto, l’altra volta, dal finestrino. Non respiravi
nemmeno, gli occhi puntati sull’arena e il parco giochi che ti soffocava.
Vorrei provare almeno la metà delle sensazioni che sembra mirino ad ucciderti
ogni volta.”
Imre ha smesso di ascoltarla, i suoi occhi grigi, i capelli
rossi, le guance rosee e le labbra viola. Il freddo gli sta entrando lentamente
nelle ossa, eppure il petto brucia in maniera impressionante.
“Forse è possibile”
Non c’è bisogno di altre parole, lo sguardo di Abigail lo
convince del tutto ad annullare la distanza e baciarla con un’urgenza che non
si era accorto di provare, non fino a quel momento, non con quella intensità.
Il volto stretto fra le sue mani, le labbra congelate in un istante, un istante
in cui gli opposti diventano tutt’uno e in cui la pioggia li nasconde al resto
del mondo, insonorizzando il rumore del loro bacio, delle gole che fremono e
del petto che esplode e delle sensazioni che fluiscono dall’uno all’altro.
Senza giri di parole o confezioni regalo con fiocchi rosa e
confetti al cioccolato, il loro bacio è la cosa più fottutamente sbagliata che
esista al mondo, una sorta di bomba nucleare fatta di sussurri e suoni, una
roba impossibile da contenere, che implode, da dentro; ti scava nelle ossa
senza farsi notare e lentamente disintegra ogni cellula del tuo corpo senza che
tu te ne renda conto. Mentre guardi le loro labbra cercarsi affamate, pensando
che sia la cosa più dolce del mondo, quell’atomo invisibile scava in te un
solco profondo che piano piano ti uccide.
Ed è per questo che è perfetto. Perfetto perché sbagliato;
perfetto perché dannatamente rischioso. La mente di Abigail non è abituata a
tutte quelle emozioni, potrebbe perdersi come una sorta di Alice nel labirinto
della regina di cuori, o come Lucy in quel cielo di diamanti. Imre potrebbe
morire e se dovesse accadere non muoverebbe un dito per impedirlo, accetta le
proprie emozioni con una lucidità mai avuta prima, come se il vuoto di ricordi
di Abigail compensasse la sua mancanza di autocontrollo. Incastrati come pezzi
di puzzle, uno bianco e uno nero. Sbagliati ma perfetti.
Poi, come uno scherzo davvero poco divertente, la pioggia
smette di scendere.
CANNELLA.
Un sussurro e un ticchettio sulla tuta fradicia.
***
Questo capitolo è uno dei più importanti, c'è di tutto anche se magari non sembra, non adesso per lo meno, c'è praticamente quasi la metà delle cose che dovrebbe avveniri di qui a poco..non so ancora cosa la mia mente partorirà ma so che ci ho messo più di quanto avessi immaginato. Loro due, il papà di Imre, lui è tutto..lui ha un pò di mio padre e un pò di tutto quello che amo ad esempio la musica.
Il loro bacio, non sono innamorati, non sono follemente persi l'uno nell'altro, sono solo due anime troppo affini,l troppo curiose che hanno bisogno di divorarsi a vicenda per poter essere soddisfatti, per poter dire "cazzo, sto vivendo". Si sono trovati, sono pezzi di sensazioni che camminano.
Ed è narurale che si attraggano come pezzi di calamita e che finiscano per esplodere in quel modo.
Quindi, nulla..ringrazio chiunque si sia fatto due domande su di loro, ringrazio i silenziosi e chi ogni tanto prova a dire qualcosa uscendo fuori dall'anonimato. E poi ringrazio la beta e i Pearl che m'ispirano tante cose belle.
Tante coccole.
Lis