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Autore: Lisa_Pan    11/12/2012    2 recensioni
Abigail racconta sensazioni mai provate attraverso impercettibili sussurri, Imre sopravvive cercando il ritmo nel silenzio, Emike raccoglie ricordi dentro delle note suonate su una chitarra color miele ed Aaron gioca al gatto e il topo con il diavolo; quattro vite, quattro anime che vagano sotto una pioggia complice alla ricerca di loro stessi.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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9 cannella

Cannella

Cammina sotto la pioggia incurante delle macchine che gli sfrecciano di fianco schizzandogli fango sui pantaloni della tuta o del freddo che comincia a entrargli nelle ossa facendolo tremare come una foglia; non gli importa del telefono che continua a vibrare nella tasca della giacca di pelle o del mal di testa che gli sta tentando di sfondare il cranio. Incurante di tutto continua per la sua strada strisciando i piedi sull’asfalto che puzza di cane bagnato e di argilla. La testa bassa, fissa sui suoi passi.

Pioveva anche quel giorno; Imre era steso sul rimorchio del pick-up con gli occhi rivolti al cielo. Erano le costellazioni ad attrarlo così tanto, con un dito per aria contava le stelle e disegnava segmenti accostati l’uno all’altro come a formare immagini schematiche. Con la testa poggiata sull’enorme bersaglio impagliato contava il numero di gocce che gli cadevano in viso. La prima goccia gli aveva centrato l’occhio mischiandosi agli impercettibili lapilli azzurri nell’iride color pece, la seconda si era posata sulle labbra dischiuse e alla terza stava già perdendo il conto.

In un attimo le strade si erano fatte fangose, le ruote scivolavano a vuoto mancando di qualche millimetro l’asfalto, il corpo di Imre era bloccato tra due sacchi di sabbia, tutto il resto intorno a lui sembrava impegnato in un vertiginoso ballo con le barriere del pick-up. Ogni sterzata come un casquet.

E poi. Silenzio. Solo fortissime emozioni tutte in un una volta, insieme, di corsa, come una fottuta bomba pronta ad esplodergli nel petto. Non respirava, non vedeva, cieco di colori, cieco di forme, cieco di quei segmenti dietro al dito ancora puntato verso il cielo. Il panico si era impossessato di lui e le sue dita non ne volevano sapere di battere un dannato tempo sul pavimento ferroso del pick-up, in mezzo a quel caos non c’era nulla che Imre fosse capace di fare per recuperare il controllo di se. E quel boato, così impercettibile, così lontano, sovrastato da tutto quel silenzio, contemporaneamente inquietante, come un gigante nascosto da una collina di cui se ne sente solo l’odore, come una bambina al centro della strada stretta in una felpa nascosta dal buio della notte.

Ricorda quando, sotto un cielo grigio, si era chiesto cosa avrebbe pensato suo padre del suo amato legno di ulivo vedendolo mentre ricopriva la sua salma vestita di tutto punto e avvolta nella croce di Lorena. Era un legno vivo, diceva, lo sarebbe stato per davvero, prima una piantina verde da due o tre foglie poi un tronchetto sottile e fragile. Nel giro di poco tempo la lapide in marmo fredda e anonima era affiancata da un ulivo alto e nodoso. Ad un Imre bambino era parsa pura magia, ad un Imre ormai adulto ricorda solo l’immensa e rassicurante presenza dell’uomo che lasciava che si sporgesse dal finestrino per annusare e osservare e sentire l’aria scorrergli tra i capelli ed entrargli nei polmoni.

 Era rimasto lontano da tutti: lontano dalle parole del prete pronunciate con estrema lentezza imitando una dolcezza che mai gli era appartenuta; lontano dal pianto strozzato di amici e parenti; lontano dall’odore di terra dismessa; lontano dalla pietà, dalla compassione e da frasi incasellate in uno sguardo dispiaciuto e in un abbraccio bullonato in un corpo freddo e distante, frasi che non capirebbe.

Eppure per quanto potesse allontanarsi da loro, le loro voci e i loro dannati cuori battevano più rumorosi che mai in quel silenzio funereo, Imre non sarebbe mai riuscito a trovare un ritmo confortevole in quel fastidioso vociare, si sarebbe fatto sopraffare dalle sensazioni, sarebbe crollato, esploso, si sarebbe lasciato andare. Lo avrebbe fatto per davvero se non fosse stato per quella goccia che sulla guancia lasciava un solco profondo e freddo. Prima una, poi un’altra, pioveva ancora. Solo contro un albero, si era ritrovato a maledire la pioggia a denti stretti, incolpando lei, con tutto se stesso. Poi ogni goccia era diventata suono ed ogni suono copriva il vociare sommesso di quella marea di maschere davanti ai suoi occhi, in lei trovava il ritmo che non era riuscito a creare da solo e lasciava che coprisse da sola tutto ciò che turbava quel ragazzino nascosto dietro un albero. Imre piano, piano capiva; capiva di come la pioggia lo avesse protetto dal boato dell’incidente, capiva come lo avesse preparato goccia dopo goccia a sopportare un dolore più grande di lui, capiva come restare in vita, come respirare rubando ossigeno alle molecole d’acqua che gli inondavano i polmoni.

Adesso, mentre apre il cancello in ferro battuto, non capisce come la pioggia possa permettere a quella voce di arrivargli dritta nelle orecchie, limpida più che mai.

 

 

Can-Nel-La.

In quel cafè ci saranno scarse una quindicina di persone, ognuno di loro aspetta che la pioggia smetta di cadere giù dal cielo per poter rientrare in casa, ogni tanto qualcuno tenta anche di uscire fuori per ritornare dentro con l’ombrello rotto e il cappotto bagnato. Allora si avvicinano  al bancone e ordinano una tazza di thè caldo o di cioccolata fumante.

C-A-N-N-E-L-L-A.

Una macchia scura si muove nel buio e cattura la sua attenzione. Quando un paio di alogeni illuminano il suo viso ad Abigail va di traverso il thè. Chiama la cameriera senza mai lasciarsi sfuggire la figura che cammina a capo chino sotto la pioggia incessante. Le chiede un thè caldo da portare via. Lei la guarda di traverso e getta un occhio alla tazza fumante tra le mani di Abigail; sei davvero sicura che tu lo voglia da asporto? Sembra chiederle ma qualcosa le impedisce di parlare, forse il buon senso. Intanto Abigail si alza e con le spalle poggiate al bancone osserva Imre fermarsi davanti al cancelletto in ferro battuto del cimitero.

“Ecco a te, e buona fortuna!”

Il profumo del thè gli arriva chiaro nelle narici e Abigail sussurra. L’ultima flebile parola pronunciata a fior di labbra prima di gettarsi nel silenzio della pioggia.

CANNELLA.

Lo chiama e lui si ferma, con la mano poggiata sulla ringhiera arrugginita, si volta e incrocia il suo sguardo. Le sue dita sono ferme, strette nella morsa della tuta ormai completamente bagnata, la sua voce bloccata all’interno dell’esofago. Solo i loro occhi si muovono, si studiano, si cercano anche.

Privi delle loro parole, come segnali di fumo strozzati dal vento, non riescono a trovare nelle dita e negli occhi dell’altro ciò che aveva permesso a entrambi di conoscersi a vicenda, di scoprirsi e di smascherarsi. Nudi, senza le proprie armi; nudi, con indosso solo i loro sguardi. Persi l’uno nell’altro senza riuscire a trovare via d’uscita. Solo domande, infinite domande senza risposte, risposte che la pioggia si prende e porta via nascondendole nel suo silenzio, nel suo elenco impercettibile di molecole di vita.

Ciò che vedono non è ciò che sentono, la pioggia si è portata via il ritmo di lui e i sussurri di lei, come per costringerli a trovare un altro modo per capirsi, un modo più umano, più naturale come l’uso della parola per esempio.

Imre prende dalle mani di Abigail la tazza di thè che gli sta offrendo e la porta alle labbra intorpidite dal freddo. Non batte ciglio, le pupille ancora incastrate in quelle di lei, troppo impegnate a cercare qualcosa che non sia pioggia o silenzio, per la prima volta vorrebbe che la pioggia smettesse di scendere copiosa ridandogli indietro il suo martellante ritmo.

Un ulivo si annoda su una lapide anonima e fredda al centro del cimitero. Di fianco c’è una fossa enorme che attende di essere abitata, un'altra anima data in pasto ai vermi e all’umidità.

“E’ mio padre.”

Abigail non chiede, Abigail aspetta che sia lui a continuare, spinto dallo stesso motivo che lo aveva indotto ad aprirsi con lei.

“E’ morto quando avevo undici anni, era l’unica persona che mi restava. Sai, non ho mai conosciuto mia madre, credo fosse una roba tipo circense, una di quelle persone che non sai se restano e per quanto tempo. Diceva che era bellissima e che faceva dei giochetti col fuoco niente male, non me n’è mai fregato niente in verità, mi fregavano  le stelle invece. Sempre col naso all’insù sdraiato nel rimorchio del pick-up, quello su cui sei salita anche tu, a contare le stelle. Se ci penso mi viene da ridere, riesci a immaginarmi? Con la testa su un sacco di farina e il dito puntato per aria a caccia di mosche.”

Abigail in realtà ce lo vede, un bimbo dalla testa rossiccia a caccia di mosche. In quegli occhi sarebbe stato capace di contenere di tutto, anche il cielo se fosse stato lontanamente possibile.

“Beh, pioveva e una bambina è sbucata dal nulla, mio padre ha sterzato e la macchina ha cozzato contro un albero, è stato scaraventato fuori dal finestrino, per metà credo. Aveva la testa penzoloni ricoperta di sangue e gli occhi ancora aperti per lo spavento. Almeno è quello che mi hanno detto, non ricordo nulla di quello che è successo, non ricordo come siamo andai a finire addosso a quell’albero, non ricordo il viso di quella bambina e non ricordo come fossi arrivato davanti la porta della mia camera. Ricordo solo le stelle, il mio dito puntato verso il cielo e le gocce che mi cadevano negli occhi.”

“La pioggia ti ha protetto.”

Imre la guarda, incredulo. Come fa a capirlo, come fa a centrare ogni volta il bersaglio con una facilità così estrema? E’ così dannatamente precisa, è come se passasse il tempo ad ascoltare non quello che dici ma il silenzio che passa tra una parola e l’altra, come se misurasse i tuoi respiri e li traducesse in righe mai scritte.

“Protegge anche te. Ti ho vista, sugli spalti. Le tue labbra immobili. La pioggia ti ha fregato le parole e se le gioca ai dadi insieme al mio ritmo.”

Sorride vincente ma non riesce a decifrare l’espressione stampata sul viso di Abigail.

“Io non ricordo nulla Imre. Non ricordo il viso di mio padre ne il profumo del suo dopo barba, non ricordo mia madre ne l’odore dei suoi capelli o la sensazione delle sue dita sulla mia guancia. Mi sono ritrovata sul ciglio di una strada con un bernoccolo in testa e tanta paura in corpo. Ero dannatamente confusa, mi giravano in testa centinaia di voci, voci senza volto, atone, anonime. Non riuscivo a pronunciare nemmeno una parola, nemmeno una, non uno straccio di sillaba. Bloccata. Una sensazione tremenda. Poi, la pioggia. Sai che significa? Stavo rinascendo, gli odori..non ne avevo mai sentiti di così forti e i suoni? Era come stare in un fottuto parco giochi. Non sapevo nemmeno cosa fosse un parco giochi però sapevo che se esisteva qualcosa come quello che avevo davanti agli occhi in quel momento, allora sicuramente doveva chiamarsi parco giochi. E’ sempre stato così, da quel momento in poi mi muovevo per inerzia, sapevo che certe cose andavano fatte in un certo modo ma non sapevo perché. La pioggia però mi ha dato anche qualcos’altro. Il mio nome. Ero così sicura di chiamarmi Abigail, me lo sentivo addosso, come un abito confezionato su misura. Era perfetto e anche confortante.”

Cazzo. Imre capisce, adesso da un nome a quell’ossessione di catalogare ogni cosa, di tirare fuori nomi, numeri, a volte anche solo lettere o suoni. E’ come se la mente di Abigail fosse stata mandata al macello con tutto quello che conteneva, lasciandola sola con un mucchio di resti indefiniti di pezzi di vita sparsi qua e la. Frame rari e brevi di una lei che non è più lei. Come una scatola da riempire totalmente, da capo, di una nuova vita che non è propriamente sua ma che appartiene ad altri. Sono elementi piccoli, ricordi brevi e per lo più dimenticati, a volte rimossi del tutto e che, però, rimangono a galleggiare in qualche parte in un punto non ben definito della pupilla, o magari dell’iride.

“Quindi è per questo che lo faccio, la storia del sussurrare e tutta quella roba lì che ti aveva tanto incuriosito. Sussurro perché non ne posso fare a meno, perché ho bisogno di conoscere e capire, ho bisogno di riempire la testa di qualsiasi cosa che mi spieghi perché faccio determinate cose o perché abbia bisogno di altre. Tutto pur di non cedere al vuoto. E’ qualcosa di non molto diverso da quella buca.”

Abigail si volta e lo guarda, si avvicina di un passo e inclina il viso di qualche centimetro mentre un sorriso fa capolino aprendosi una fessura tra le labbra ormai viola.

“Siamo agli opposti, io e te. Io ho bisogno di sentire e di essere sopraffatta da ciò che sento, mentre tu..tu cerchi di controllare le tue emozioni, anch’io ti ho visto, l’altra volta, dal finestrino. Non respiravi nemmeno, gli occhi puntati sull’arena e il parco giochi che ti soffocava. Vorrei provare almeno la metà delle sensazioni che sembra mirino ad ucciderti ogni volta.”

Imre ha smesso di ascoltarla, i suoi occhi grigi, i capelli rossi, le guance rosee e le labbra viola. Il freddo gli sta entrando lentamente nelle ossa, eppure il petto brucia in maniera impressionante.

“Forse è possibile”

Non c’è bisogno di altre parole, lo sguardo di Abigail lo convince del tutto ad annullare la distanza e baciarla con un’urgenza che non si era accorto di provare, non fino a quel momento, non con quella intensità. Il volto stretto fra le sue mani, le labbra congelate in un istante, un istante in cui gli opposti diventano tutt’uno e in cui la pioggia li nasconde al resto del mondo, insonorizzando il rumore del loro bacio, delle gole che fremono e del petto che esplode e delle sensazioni che fluiscono dall’uno all’altro.

Senza giri di parole o confezioni regalo con fiocchi rosa e confetti al cioccolato, il loro bacio è la cosa più fottutamente sbagliata che esista al mondo, una sorta di bomba nucleare fatta di sussurri e suoni, una roba impossibile da contenere, che implode, da dentro; ti scava nelle ossa senza farsi notare e lentamente disintegra ogni cellula del tuo corpo senza che tu te ne renda conto. Mentre guardi le loro labbra cercarsi affamate, pensando che sia la cosa più dolce del mondo, quell’atomo invisibile scava in te un solco profondo che piano piano ti uccide.

Ed è per questo che è perfetto. Perfetto perché sbagliato; perfetto perché dannatamente rischioso. La mente di Abigail non è abituata a tutte quelle emozioni, potrebbe perdersi come una sorta di Alice nel labirinto della regina di cuori, o come Lucy in quel cielo di diamanti. Imre potrebbe morire e se dovesse accadere non muoverebbe un dito per impedirlo, accetta le proprie emozioni con una lucidità mai avuta prima, come se il vuoto di ricordi di Abigail compensasse la sua mancanza di autocontrollo. Incastrati come pezzi di puzzle, uno bianco e uno nero. Sbagliati ma perfetti.

Poi, come uno scherzo davvero poco divertente, la pioggia smette di scendere.

CANNELLA.

Un sussurro e un ticchettio sulla tuta fradicia.

***

Non so nemmeno che ore siano ma sono sicura che non è l'ora giusta per darvi il buongiorno. Quindi..boh..buon pomeriggio? Ho ancora gli occhi impastati dal sonno e il pigiama e i mille pantaloni che devo per forza indossare per non morire di freddo durante la notte. Eppure sono a casa..dentro quattro mura, dove il freddo dovrebbe restare fuori, a far battere i denti di qualcun altro e non i miei. Va beh..parliamo del capitolo, so che farò imbufalire la beta, perchè ho sicuramente dimenticato qua e là qualche correzione che lei aveva accuratamente segnato e io non ho applicato immediatamente, chiedo umilmente scusa ma ripeto, ho gli occhi impastati dal sonno e potrei non rispondere ancora del tutto di me stessa.
Questo capitolo è uno dei più importanti, c'è di tutto anche se magari non sembra, non adesso per lo meno, c'è praticamente quasi la metà delle cose che dovrebbe avveniri di qui a poco..non so ancora cosa la mia mente partorirà ma so che ci ho messo più di quanto avessi immaginato. Loro due, il papà di Imre, lui è tutto..lui ha un pò di mio padre e un pò di tutto quello che amo ad esempio la musica.
Il loro bacio, non sono innamorati, non sono follemente persi l'uno nell'altro, sono solo due anime troppo affini,l troppo curiose che hanno bisogno di divorarsi a vicenda per poter essere soddisfatti, per poter dire "cazzo, sto vivendo". Si sono trovati, sono pezzi di sensazioni che camminano.
Ed è narurale che si attraggano come pezzi di calamita e che finiscano per esplodere in quel modo.
Quindi, nulla..ringrazio chiunque si sia fatto due domande su di loro, ringrazio i silenziosi e chi ogni tanto prova a dire qualcosa uscendo fuori dall'anonimato. E poi ringrazio la beta e i Pearl che m'ispirano tante cose belle.
Tante coccole.
Lis

   
 
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