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Autore: fiammah_grace    11/12/2012    2 recensioni
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"Se solo Jill avesse saputo di essere salvata da Albert Wesker, avrebbe provato tutt’altro che gratitudine, perfettamente conscia del fatto che da un incubo, sarebbe caduta in un incubo ancora peggiore.
Il rumore della pioggia era incessante.
L’uomo dai maligni occhi rossi alzò il viso lasciando che bagnasse il suo volto.
I capelli scomposti, ritornarono indietro appesantiti dall’acqua.
Il berretto della bruna cascò dalla testa scoprendo il suo viso addormentato.
Wesker, a quel punto, avanzò nella foresta, riprendendo del tutto le sue forze e sapendo perfettamente dove andare.
Ignara, la donna seguì il suo carnefice, trasportata nei meandri del suo peggior incubo. Frastornata e agonizzante, era ancora in balia del sonno, non sapendo nemmeno di essere ancora in vita, mentre Albert Wesker già progettava come attuare la sua vendetta."
Genere: Angst, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Albert Wesker, Jill Valentine
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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THE DAYS LOST IN THE NIGHTMARE
 
 
 


 
CAPITOLO 14
 
 
 



Africa, regione Kujuju.
Circa le ore 12:00.
 
L’aria era molto calda e soffocante, un clima completamente diverso da quello tipico Europeo.
All’umido, si sostituiva un’atmosfera secca, che si ripercuoteva anche in quel paesaggio del tutto arido e privo di vegetazione.
L’aereo atterrò in una pista celata fra delle montagne, così che nessuno potesse accorgersi del suo arrivo.
I militari scortarono Wesker ed Excella, pronti a riprendere le loro ricerche nella sede africana della Tricell.
Jill Valentine li raggiunse, camuffata dal mantello scuro e dalla maschera che aveva sul viso.
La donna dai capelli neri le si avvicinò parlando in modo conciso, mentre prese ad alzarsi leggermente il vento.
“Voglio che ispezioni il villaggio qui dietro. Devo assicurarmi che il virus sia ancora circoscritto solo in questa zona.” spiegò. “Eccoti una mappa, un cellulare, e lì sono le tue armi. Ci metteremo in contatto in seguito. Oh, e mi raccomando. Porta questo.” aggiunse allungandole anche una fiala dal contenuto scuro.
Jill la osservò incuriosita. Vi era conservato il virus Uroboros in quella capsula. Perché doveva portare una cosa del genere con sé?
Cercò Wesker con lo sguardo, il quale invece si stava avviando verso delle vetture parcheggiate poco distante da loro.
Vedendo quella naturale indifferenza, la sua attenzione fu distorta da quella questione e infilò semplicemente la fiala nel suo mantello, in una tasca interna.
Tutti i presenti si incamminarono verso quelle jeep. Wesker ed Excella presero posto su una di queste, guidata da un loro sottoposto, il quale la mise in moto velocemente, seguito subito dopo dagli altri.
Così ben presto Jill li vide allontanarsi in quella distesa rocciosa, sotto il sole cocente, facendo per raggiungere la sede africana della Tricell Pharmaceutical Company.
La donna mascherata rimase qualche istante immobile ad osservarli fino a che non vide soltanto la polvere che in lontananza si alzava al loro passaggio.
Abbassò il viso.
Wesker non le aveva rivolto neppure uno sguardo…
Dentro di sé si sentì ferita, lacerata dalle contraddizioni di quell’uomo, ma anche del suo cuore.
Se da una parte provava repulsione per lui, in quel contesto continuava ad essere comunque l’unico volto a lei familiare. Tuttavia non faceva che ingannarla e deluderla.
Per questo doveva sempre ricordare a se stessa di essere solo un oggetto per lui.
Credere che vi fosse qualcosa ancora di umano in lui, avrebbe fatto di lei la vittima perfetta.
Non doveva cadere in quel tranello, nonostante nella sua mente si raffigurasse ancora la sua bocca che la sfiorava nella penombra della notte.
Ed era stato appena la sera prima…
Si chiedeva come avesse potuto accettare, ancora una volta, una vicinanza simile con lui; eppure il suo cuore si stringeva, pulsando inspiegabilmente nonostante l’odio che ribollisse forte verso quell’uomo vestito di scuro.
Si poteva odiare ed amare qualcuno allo stesso tempo…?
Il dispositivo sul suo petto la richiamò presto all’ordine, e per fortuna l’allontanò da quei pensieri che la disturbavano e la ferivano, eppure le davano anche un indefinito e insensato senso di piacere.
Era alla lunga…impazzita anche lei?
Scosse la testa e, con un salto atletico, avanzò oltre le rocce.
Trovò una moto, lasciata appositamente per lei in una rientranza.
Osservando la mappa costatò di avere, infatti, una lunga strada da percorrere per arrivare a destinazione.
Così vi montò su, girando le chiavi e dirigendosi nel villaggio.
Si guardò attorno, chiedendosi cosa avrebbe trovato.
Era ancora impossibile per lei comprendere di stare lì, a sfrecciare in quella distesa non potendo avere alcun potere sul suo corpo e sulle sue azioni.
Non poteva accettarlo, non l’avrebbe mai fatto, spaventata dal fatto che qualunque cosa sarebbe potuta accadere se solo le fosse stato ordinato.
Eppure, nonostante quel rifiuto, schizzava veloce sulla strada terrosa, pronta a compiere la sua missione.
Nel giro di quaranta minuti, scorse delle case in lontananza. Ben presto ve ne furono sempre di più all’orizzonte.
Raggiunse finalmente un centro abitato. Mise il piede a terra e scese dalla moto.
Era un villaggio piccolo, affollato e piuttosto malandato in verità.
Gli abitanti svolgevano le loro quotidiane attività, non curandosi di lei.
Essendo vestita in modo appariscente, di tanto in tanto qualcuno le lanciava uno sguardo, ma era come se quella gente non osasse avvicinarsi a lei. Era come se…sapessero di doversi tenere alla larga da gente come lei. Dunque non reagivano in nessun modo al suo passaggio, ignorando semplicemente la sua presenza.
Jill si avviò verso il mercato.
Sulla mappa datole da Excella era indicata una casa in una traversa lì vicino. Era lì che doveva andare, supponeva.
Il mercato era molto caotico.
Tuttavia, nonostante il disordine che, nella sua confusione, contrassegnava comunque la vita di un villaggio, nell’aria vi era l’inconfondibile odore fetido della morte. Un contrasto che mise in allarme Jill, che subito ebbe l’impressione che qualcosa non andasse in quel posto.
Gli occhi di quelle persone erano strani, finti, fin troppo vaghi.
Era come se non fossero disinvolti nelle loro movenze.
Sulle bancarelle vi era, inoltre, visibilmente solo merce impolverata, carne putrefatta, frutta e verdura andata a male…era come se, in effetti, nessuno acquistasse nulla da molto tempo.
Dovette portare una mano bocca quando, a un certo punto, quell’odore nauseabondo divenne insopportabile.
Attraversò tutto il vicolo, scorgendo poi finalmente la struttura che doveva raggiungere.
Anche questa volta si ritrovò in un luogo del tutto malandato.
Era una sorta di cantiere abbandonato, ove oramai non sembrava lavorare più nessuno.
La tanta indifferenza degli abitanti turbò la giovane.
Eppure Excella aveva detto che il contagio era al momento circoscritto solo in quel posto… dunque in cosa consisteva uroboros? Possibile che quelle persone fossero in realtà contagiate?
Wesker era davvero riuscito a creare un virus che non facesse presagire al nemico che colui che lo aveva contratto potesse ucciderlo da un momento all’altro, oramai privato del suo intelletto?
Se le cose stavano così, doveva tenersi in guardia.
Mentre prese a perlustrare il posto, trovò una cassa con su scritto “uroboros”. Si piegò. Era scritto persino in modo sbagliato e con una bomboletta di color bianco.
Osservò la documentazione lasciatole da Excella e notò la foto di quella cassa sul dossier.
Era lì che doveva lasciare la fiala a lei affidatole.
Non avendo scelta, lo fece dunque.
D’improvviso, un rumore alle sue spalle la attirò. Si voltò e vide una porta muoversi appena.
Qualcuno…l’aveva seguita.
Caricò la pistola, tenendola nascosta dalla lunga manica del mantello, poi si avvicinò cautamente, ma con passo deciso, mettendosi di schiena sulla porta.
Sbirciò oltre aprendola leggermente e vide qualcuno scappare.
Subito aumentò il passo, seguendo il soggetto non ancora identificato, che la guidò nei meandri di quello strano villaggio.
Passò per diversi vicoli, attenta a non perderlo di vista.
Quelle traverse strette, talvolta trafficate di gente, le impedirono di comprendere chi fosse. Solo in un secondo momento si accorse che fosse una bambina.
“A-aspetta! Non scappare…” urlò appena, sperando che la ragazza si fermasse, ma ovviamente ella non acconsentì a quella richiesta.
Si voltò, e anzi, prese a correre ancora più velocemente.
Così anche Jill, non volendola perdere di vista, corse dietro di lei, scansando i panni appesi, le tantissime cianfrusaglie in giro, inoltrandosi in zone sempre più buie.
Cominciò a sbirciare con la coda dell’occhio il paesaggio che scorreva sotto i suoi occhi.
Curiosi particolari catturarono la sua attenzione, come schizzi di sangue, parti organiche di ipotetici corpi umani o animali, finestre che si chiudevano tempestivamente, ombre celate nell’oscurità.
Quell’atmosfera lugubre la mise in allarme.
Doveva raggiungere quella bambina alla svelta se non voleva che le accadesse qualcosa.
C’era qualcosa che non andava assolutamente in quel posto.
All’improvviso, vide finalmente la ragazzina rallentare il passo.
Jill la imitò, continuando ad avanzare verso di lei.
“E’ pericoloso stare qui…vieni, ti riporto a casa.” disse con dolcezza, cercando di apparire più rassicurante possibile.
Indossando quella strana maschera, sapeva che una ragazzina così giovane avrebbe potuto spaventarsi. Allungò appena una mano, invitandola a seguirla.
“Dimmi, piccola, dove…” la sua voce si strozzò in gola. “…abiti…?” completò la frase a stento, accorgendosi di essere caduta in una trappola.  
Quando le fu a fianco, girò gli occhi e si accorse che la ragazzina l’aveva portata in una zona ben delimitata tra dei capannoni, ove adesso era completamente circondata dagli abitanti del luogo. Nonostante il loro aspetto comune, la loro espressione vuota mise subito in tensione Jill, che impugnò saldamente la pistola.
“Vieni vicino a me…” disse alla ragazzina, continuando a tenere la mano tesa verso di lei. “Stai tranquilla, non accadrà niente…”
Pur avendo la situazione sotto controllo, sapeva che doveva prima di tutto assicurare la vita di quella civile.
Tuttavia, vedendola immobile, fu lei stessa ad avanzare verso di lei, non dando mai le spalle agli abitanti dall’aria impazzita.
Quegli indigeni…erano senz’altro infettati dal virus. Ne era abbastanza certa.
C’era qualcosa di inumano nei loro occhi.
Ne ebbe la conferma quando, uno di loro, prese a schiumare improvvisamente con la bocca, dalla quale uscì quella materia nera che aveva già visto nei laboratori prima di partire per l’Africa.
“Attenta!” urlò, facendo per sparare e proteggere la ragazzina, ma successe l’impensabile.
La ragazzina dalla pelle scura si rivoltò contro Jill e dalla sua bocca emerse un gigantesco fiore che fece per risucchiarle la faccia.
Jill tenette ferme le braccia della bambina, non volendo arrivare a spararle.
Comprese in quel frangente che persino la bambina era stata usata per quell’imboscata.
Tuttavia, non poteva farlo. Mentre la teneva ferma, rivide comunque il volto di una ragazzina che non poteva sapere cosa stava facendo.
Strinse gli occhi, addolorata da quella visone raccapricciante.
La bambina, poi, ritirò il fiore dentro di se, e la guardò dritto negli occhi, famelica. Dopodiché le si scagliò di nuovo contro, e con lei anche il resto degli indigeni.
La bionda dovette combattere duramente, sfidando la sua volontà stessa.
Sperò con tutta se stessa che non vi fossero civili lì in mezzo, perché la strage fu inevitabile. Combatté abilmente non lasciando avvicinare nessuno a lei.
Erano davvero agili e forti, comprese di non doverli sottovalutare. Erano persino capaci di utilizzare arnesi a loro favore, così Jill non dovette solo scansarsi dai loro attacchi, ma anche dagli oggetti affilati che presero a lanciarle contro.
Come poteva Wesker credere che tutto questo fosse l’origine di una ‘razza superiore’?
Era solo un massacro…un abominio…
Quelle persone ora non conoscevano altro che la sete di sangue e la voglia di uccidere.
Non vi era nulla di magnifico e di straordinario in quegli occhi bianchi grondanti di sangue.
Digrignò i denti, sferrando un calcio che frantumò la testa di uno di loro.
Combatte con la rabbia in corpo, distrutta da ciò che quell’uomo l’aveva costretta a vivere da quel maledetto giorno!
Un urlo la fece voltare di scatto.
Si girò e vide un uomo strascinato per le braccia. Questi si dimenava disperato, e così la Crow Lady corse in suo soccorso.
“Lasciatelo!”
Intimò e sparò senza indugio. I due uomini che lo stavano trascinando caddero a terra, così l’altro fu libero di alzarsi.
“U…ugh!!”  un rimescolio allo stomaco lo costrinse a piegarsi su se stesso. Intanto Jill si mise subito in sua difesa.
“Tu…sei contagiato?” disse con la voce meccanica che fuoriusciva dalla sua maschera.
L’uomo la guardò spaesato.
“Che cosa…?!”
“E’ pur sempre una risposta abbastanza positiva…” disse fra se la bionda, ritenendo attendibile il viso perplesso di quell’uomo inconsapevole dell’esistenza di un virus che era causa di tutto quello.
L’uomo scuro di pelle intanto si rimise eretto col busto e fece del suo meglio per aiutare la donna, utilizzando oggetti di fortuna contri i nemici.
Infatti riuscì a prendere un tubo di ferro e lo utilizzò contro di loro.
Riuscirono insieme a sbarazzarsi della maggior parte dei ‘mostri’, ma presto altri avanzarono numerosi verso di loro.
L’intero villaggio sembrava aver perso il controllo ed erano in troppi. Optarono dunque per la fuga.
Jill si voltò veloce verso l’uomo appena salvato.
“Sai dove possiamo metterci al riparo?”
“Non siamo lontani dall’ingresso del villaggio…”
“Bene!”
Così i due cominciarono a correre.
Jill seguì l’uomo, continuando intanto a sparare sulla folla che li inseguiva, per favorire la loro fuga. La fortuna volle che, esattamente come la plagas, anche le persone infette da uroboros non fossero particolarmente intelligenti, così li seminarono prima ancora di uscire definitivamente dal villaggio. Una volta al sicuro, l’uomo si rivolse a Jill, ansimando per la lunghissima corsa.
“J-James…James Dume.” disse facendo per porgerle la mano. “Volevo ringra…”
“Cosa è successo in questo villaggio?” lo interruppe Jill, ancora in allarme, mentre scrutava il paesaggio dietro di loro.
L’uomo ritirò la mano. Rimase un attimo in silenzio, poi abbassò gli occhi.
“ ‘Majini’…è così che li hanno chiamati. Ero qui solo di passaggio, e mi hanno aggredito.” spiegò e si sedette a terra. “L’intera regione si sta lentamente popolando di questi cannibali, del tutto privi di senno.” aggiunse affranto.
“Cosa ci facevi qui?”
“Io? Sono un dottore, ma non avevo mai visto niente di simile. Mi aveva mandato una cliente, chiedendomi di un suo parente, ma a quanto pare…dovrò riportarle solo brutte notizie.” rispose e prese a bere da una borraccia.
“Ah…” sospirò una volta assetatosi.
Guardò la strana donna mascherata e le sorrise. “Lei è un soldato, vero? Grazie per avermi soccorso.”
Jill annuì, tuttavia non sopportando di essere considerata un soldato in quel contesto.
Se solo avesse potuto essere libera di tornare se stessa avrebbe potuto davvero aiutare quella povera gente.
Invece…adesso non era che la schiava di coloro che avevano causato tutto questo.
Non meritava dunque la sua riconoscenza.
L’uomo, tuttavia ignaro, le sorrise con riconoscenza.
“Posso domandarle il suo nome?”
A quella domanda, Jill girò il viso e gli diede le spalle.
“Non è importante che tu lo sappia…” rispose a malincuore, avendo il preciso ordine di non rendersi riconoscibile per nessuno.
Anziché mostrarsi perplesso o dispiaciuto, l’uomo le sorrise di nuovo.
“Non importa, mi hai salvato la vita. Non ho bisogno di sapere il tuo nome.” disse e si alzò, sistemando un po’ gli abiti sgualciti che aveva addosso.
La donna rimase sorpresa da quella reazione.
Lei, al suo posto, si sarebbe fidata di una donna mascherata?
No…assolutamente no.
Ne aveva passate fin troppe per fidarsi così di qualcuno.
Tuttavia le fece provare una strana sensazione vedere qualcuno ancora così fiducioso verso il prossimo.
Forse, quell’episodio, nella sua drammaticità, aveva alleviato il suo cuore, costretto a divenire duro in quegli anni.
Quelle parole, nella loro assoluta semplicità, la fece sentire ancora speranzosa verso il futuro. Vedere animi ancora così amichevoli, gentili, nonostante il caos che li circondava, era oramai cosa abbastanza rara.
Si sentì di essere di nuovo quel membro BSAA che voleva proteggere le persone, e che non fosse diventata a sua volta anche lei soltanto una macchina bellica, esattamente come i suoi nemici.
Ritrovò dentro di se gli ideali che la spinsero a suo tempo a continuare, a comprendere che valesse la pena combattere quella lotta.
Tutto questo…solo per quello sguardo riconoscente.
Sembrava poco, eppure riempì il cuore di Jill Valentine.
Lei…poteva ancora salvare molte vite.
Non doveva mollare.
 “Posso chiederle di scortarmi alla mia abitazione? Con tutta questa confusione…non vorrei fosse successo qualcosa.” chiese all’improvviso il signor James.
Jill ci rifletté un attimo, ma in fin dei conti non aveva motivo per rifiutare.
Se il P-30 non le faceva resistenza, avrebbe volentieri aiutato ancora quell’uomo. Così, da sotto la maschera a forma di becco, gli sorrise.
“Certo. Dove abiti?”
L’uomo si girò attorno per orientarsi, poi le indicò la via.
“Dobbiamo proseguire in questa direzione. Arriveremo presto, il tragitto non è lungo come sembra.”
Non parlarono molto durante il cammino, ma James era di buona compagnia.
Era un uomo molto semplice, spontaneo. Mostrò lei alcune foto della sua famiglia per spezzare il ghiaccio, e quel tipo di atteggiamento le ricordò molto Barry.
Barry Burton era stato più di un collega di lavoro per lei.
Devoto verso il lavoro e la famiglia, era un uomo buono e degno di stima, nonché un ottimo amico.
Era un vecchio conoscente di Chris, ed era stato lui a farglielo incontrare.
Lo vedeva ancora adesso molto spesso, nonostante il lavoro tenesse impegnati entrambi.
Si era sempre mostrato rassicurante con lei, e durante il periodo della STARS, era stato un po’ come un padre.
Probabilmente lo ammirava proprio perché lui, come nessun altro che avesse mai conosciuto, era capace di dedicare tutto se stesso sia al lavoro, ma anche alla famiglia, alla quale teneva più di ogni altra cosa.
Lei e il suo vero padre, invece, non avevano mai avuto un vero rapporto.
Quella riflessione riaccese in lei dei ricordi lontani, riguardo la sua vita prima di entrare nella STARS:
Viveva a Raccoon City, in una zona periferica piuttosto pericolosa. Jill tuttavia era sempre stata una ragazza forte e tenace, costretta a crescere prematuramente, per cui riusciva comunque sempre a cavarsela.
Suo padre, Dick Valentine,  era un uomo trasandato, distratto ed egoista, che non aveva mai badato a lei. Egli non era affatto una persona semplice da capire, ma gli aveva sempre riconosciuto una personalità piuttosto brillante. Le aveva insegnato a vivere concretamente nel mondo reale, rendendola una donna scaltra, pronta a lottare. Era a lui che doveva la sua prontezza di spirito.
In compenso, erano stati decisamente poco un padre e una figlia in termini di affetto.
Erano più una sorta di conviventi.
Lo ricordava sempre fuori casa, quando rincasava tardi e poi si assentava di nuovo per lunghi periodi stesso il giorno dopo.
Salvo pochi episodi della sua infanzia, ricordava poco di lui.
Aveva finito con l’odiarlo, col tempo, essendo stato tutto fuorché un punto di riferimento nella sua vita, per lei…
Era cresciuta badando da sola a se stessa, non sapeva neanche come lui facesse a guadagnare i soldi per sopravvivere.
Fino a quando la polizia lo arrestò un giorno, e allora scoprì che egli fosse uno scassinatore.
Quell’episodio allontanò fisicamente da lei l’unico genitore che avesse mai avuto… tuttavia, mai come allora, i due si sentirono più vicini.
Durante la sua prigionia, fu lui stesso a spingerla di abbandonare quella vita disonesta, nella quale lei era inevitabilmente cresciuta divenendo una ragazza ribelle ed intrattabile.
Non gli aveva mai visto quello sguardo sofferto, e quegli occhi tristi e sinceri.
Qualcosa cambiò nella sua vita da quel giorno e nacque una nuova Jill Valentine. Da ragazza di strada, trascurata e indisciplinata, seguì un sogno…quello di cambiare vita.
Purtroppo, però, l’idillio non durò.
Quando Dick fu libero di uscire dalla prigione, i due avrebbero voluto imparare a conoscersi meglio ora che lui era cambiato e lei era una donna adulta.
Tuttavia l’incidente alla villa cambiò definitivamente le loro vite.
La distruzione di Raccoon City li fece perdere di vista per un lungo periodo, senza che l’uno sapesse il destino dell’altro.
Quando si ritrovarono, entrambi avevano già intrapreso la lotta contro il bioterrorismo.
All’epoca Jill fu sorpresa di scoprire che suo padre avesse abbracciato la sua stessa causa.
Non erano mai stati particolarmente affettuosi l’uno con l’altro, ma sentì dentro di se una gioia mai provata nel ritrovarlo accanto a se in quella lotta disperata, anche se non lo dimostrò mai a parole.
Il suo vecchio era davvero cambiato.
Ora che si erano ricongiunti, aveva sperato che, finito tutto, avessero potuto ricominciare d’accapo, e tornare ad essere una famiglia un giorno.
Tuttavia il fato aveva crudelmente condannato Jill ancora una volta.
Un’indagine…una maledetta indagine.
Come mai era accaduto, lavorò assieme a lui per catturare una banda di trafficanti in nero delle BOW. Una missione che si rivelò fatale per il signor Valentine, che venne catturato.
Egli fu contagiato dal virus T sotto gli occhi impotenti di Jill, catturata anch’ella nel tentativo di salvarlo.
Il loro ultimo sguardo, i loro occhi colmi di lacrime che si incrociavano…
Essi si diedero addio, consapevoli che non avessero altra scelta.
Nel momento nel quale il virus avrebbe preso possesso della mente di lui, egli non sarebbe mai più stato se stesso. Lo sapeva bene. Lo sapevano entrambi.
-Ti voglio bene, Jill-
Le disse picchiettando il piede a terra e comunicando con lei tramite un codice inventato da loro, in modo che i terroristi non gli impedissero di poter salutare sua figlia un’ultima volta.
Poi…PAM!
Jill aveva dovuto ucciderlo con le sue stesse mani.
Il viso di quell’uomo, trasformato in un mostro famelico, si spense sotto i suoi occhi.
Era finita così…ancora una volta.
Ancora una volta…
Jill non si riprese per molto tempo dopo quell’episodio, non potendo accettare che fosse accaduto davvero.
I suoi abiti sporchi di sangue la macchiarono dentro ancora una volta.
Seppur sapesse che non fosse colpa sua, che non avesse scelta, che non avrebbe potuto salvarlo, che avrebbe ucciso due volte suo padre se si fosse lasciata morire per mano sua, condannandolo a  strappare la carne della sua stessa sua figlia…
Però… nonostante questo … lei non avrebbe mai voluto che le togliessero anche lui.
Ed alla fine…era stata comunque lei a sparargli.
Jill strinse gli occhi rievocando quel terribile ricordo.
James vide la Bird Lady assorta, così le si avvicinò appena.
“Credo siamo arrivato quasi…è tutto a posto?” chiese cortesemente.
La bionda tornò alla realtà, con gli occhi appena inumiditi.
“E’ tutto a posto.”
Prese poi la mappa e la consultò. Qualcosa la inquietò.
Quel villaggio dove adesso erano diretti…perché non era segnato sulla cartina?
Guardò dinanzi a se, e si accorse che effettivamente c’erano delle abitazioni.
L’uomo corse verso il centro e urlò nella sua lingua natia una serie di nomi per Jill difficili da decifrare.
Lo vide poi all’improvviso accasciarsi a terra, così corse verso di lui.
“James, stai bene?”
“Cough! Cough! Questa…maledettta tosse…cough!” disse piegandosi in ginocchio.
“Tosse?”
La ragazza lo osservò attentamente e le sue pupille si rimpicciolirono quando notò che qualcosa di scuro era caduto a terra.
“No…” bisbigliò sconvolta.
“Cosa c’è?” le chiese l’uomo vedendo la ragazza preoccupata. In seguito, altri filamenti neri caddero dal corpo dell’uomo che cominciò a dimenarsi spaventato.
“O…oddio! Cosa mi sta…COUGH! COUGH!! Aiu…! Cough!”
Jill cadde all’indietro, dovendo osservare quella scena impotente.
“Nooo!!” urlò in preda alla disperazione, mentre egli prese a trasformarsi sotto i suoi occhi.
L’uomo rivolse gli occhi al cielo ed in quel momento, delle lacrime di sangue rigarono il suo viso. Uroboros, impossessandosi del suo corpo, aveva oramai distrutto quell’organismo, ed era pronto a rianimarlo, più forte ed diabolico che mai.
L’uomo rimase immobile per qualche istante in quella scomoda posizione.
Jill impugnò la pistola stringendo le labbra, pronta a sparare ancora una volta contro qualcuno che non aveva colpa, pronta a sentire ancora il suo corpo gelarsi per il destino infausto che aveva ucciso quella persona, trasformandola in un mostro.
Quante volte aveva dovuto sopportare quella visione…?
Perché? Perché quell’abominio non aveva mai fine?
James riprese conoscenza, ma oramai, trasformato in un majini, si scagliò contro di lei travolgendola senza pietà.
Jill, mentre lo teneva a bada, osservò il suo volto mentre questi faceva per morderla ferocemente.
Il suo viso si sovrappose con l’uomo meraviglioso che aveva conosciuto precedentemente, anche se per pochissimi istanti.
Quel destino…era ingiusto, era crudele…era uno schifo.
Portò la pistola alla sua tempia, e sparò.
James cadde a terra.
La sua testa era completamente sporca di sangue, ed ora giaceva immobile accanto a Jill, anch’ella imbrattata di rosso.
Jill guardò il cielo, sentendosi distrutta dentro.
Il peso di quella vita era immenso.
“Wesker…PERCHE’!?” urlò.
Presa dallo sconforto, non si accorse che intanto, alle sue spalle, erano giunti dei militari.
Ella si alzò istintivamente notando le loro ombre, pronta a difendersi.
“Abbiamo dei campioni, ottimo.”
La bionda inorridì sentendo quella frase. Non solo James era morto in quel modo orrendo, ora l’avrebbero anche strumentalizzato?!
Tuttavia non poté opporsi, perché quello faceva parte degli ordini del P-30. Dovette tenere dentro tutta la rabbia e la frustrazione.
Affranta, fece per sedersi su una delle Jeep per tornare alla Tricell. Tuttavia un vetro rotto a terra attirò la sua attenzione.
Allungò il collo, e sbandò quando lo riconobbe.
Urlò in direzione dei soldati, riconoscendo quella fiala rotta in quella che conteneva il virus Uroboros.
Qualcuno di loro doveva averla fatta cadere per sbaglio, ma oramai era troppo tardi.
Il virus si stava velocemente già impossessando di loro, e ben presto li avvolse con la sua melma scura.
Jill rabbrividì, non essendo ancora psicologicamente pronta ad affrontare di nuovo una strage simile. Dopo un attimo di smarrimento, mise in moto la vettura, e con la retromarcia corse via da quel centro abitato.
Non guardò neanche il contachilometri, non le importava a che velocità stesse andando.
Scappò via per sopravvivere, per evitare di lottare, per fuggire da quel destino tremendo, da quell’abominio, dai suoi pensieri, da se stessa.
Quella fuga racchiudeva tutto il suo animo frustrato che non ne poteva oramai più di tutto questo.
Presto non ci fu più nessuno alle sue calcagna, era finalmente sola
Sola…
Sola…di nuovo.
Tirò il freno a mano e poggiò la fronte sul volante. Stette ferma, in silenzio, per un lungo tempo.
Alzò poi il viso e vide dinanzi a se la struttura imponente della Tricell Pharmaceutical Company.
 “Voi…maledetti…maledetti tutti..!”
 
 
Jill avanzò nell’edificio e non le fu difficile trovare Excella.
Le buttò sulla scrivania i frammenti di alcuni campioni che le aveva ordinato di raccogliere per continuare le ricerche su Uroboros. Tuttavia, pur avendo adempiuto al suo compito, poteva leggersi nel suo sguardo  tutto il disprezzo che covava in corpo verso lei e le sue ricerche.
Se la maschera non avesse coperto il suo volto, la donna dai capelli neri avrebbe potuto addirittura temere che lei potesse fuggire al controllo del P-30 da un momento all’altro.
Invece ella rimase tranquilla, adagiata sulla poltrona dietro la sua scrivania, intenta a curare le sue unghie laccate.
La guardò apatica, concedendole a stento uno sguardo.
“Sei arrabbiata, Jill Valentine?” chiese, consapevole che lei non potesse risponderle.
La Crow Lady strinse i pugni, non potendo più accettare quelle provocazioni. Il suo copro prese a tremare di rabbia.
Intanto Excella finalmente alzò il viso verso di lei, guardandola fissa negli occhi.
Incrociò le dita sotto il meno, rilassando la testa su di esse senza interrompere quel contatto visivo.
Le due si guardarono con sfida.
La bruna poi sorrise, beffarda.
“Dimmi, ti sei divertita?”
Rise fastidiosamente sotto gli occhi pieni di collera della bionda, che, infatti, sbatté inaspettatamente le mani sulla scrivania.
Excela fu sorpresa di quel gesto, accorgendosi solo in quel momento che Jill aveva reagito al suo istinto, sconfiggendo gli impulsi del dispositivo sul suo petto.
Si sentì dunque leggermente smarrita, temendo di vederla perdere il controllo.
“ Come…” bisbigliò Jill piano, poi si rese conto di riuscire a parlare, così alzò la voce e le mostrò la sua rabbia. “Come avete potuto fare questo, bastardi!!”
Urlò, sentendo quelle parole vibrare non solo dentro di se, ma persino in Excella stesso.
Ella infatti rimase impietrita e sembrava spaventata.
Tuttavia una voce alle sue spalle fece vacillare anche l’ex agente STARS a sua volta.
Quella voce, quel tono, quei passi…
Quel timbro duro, autorevole, profondo, glaciale, che le faceva gelare il sangue. Era Lui.
“Hai solo adempiuto al tuo compito, Jill.”
La bionda si voltò e vide Wesker entrare nella stanza.
Egli era elegante e perfettamente in ordine come il solito, con stampato sul viso quel crudele e diabolico ghigno che lo caratterizzava.
Jill si sentì atterrita di fronte a lui.
Egli era capace di immobilizzarla con un solo sguardo, come se avesse il controllo sulla sua stessa mente.
Lo vide roteare un braccio in modo teatrale, e rivolgersi a lei con fare galante, eppure malvagio.
Il suo solo modo di muoversi trasmetteva crudeltà assoluta.
“Ottimo lavoro.” disse ferendola più che con una pallottola. Jill sentì il suo corpo venir meno.
Intanto egli continuò ad avanzare verso di lei.
“E’ un buon risultato sapere che sei stata all’altezza del compito, plague doctor. Il nome è questo, giusto?”
Frastornata, Jill continuò a rivolgere il suo sguardo verso di lui, tremando.
Wesker sorrise e ciò non le piacque per nulla.
“Già. Sarai tu che contagerai Kijuju con Uroboros.” annunciò, girandole attorno, guardandola incessantemente con fare spietato.
“Prima o poi verrà anche la BSAA, che ovviamente sta già facendo i suoi compiti. Ma non sanno nulla di cosa ho in serbo. A proposito, sarai tu ad occuparti di loro.”
Spiegò e rise malvagiamente, sotto lo sguardo sempre più sconvolto della Crow Lady.
Lei…era quella che avrebbe contagiato quegli abitanti?
Lei…avrebbe combattuto contro la BSAA stessa?
Sentì venir meno. Tutto cominciò a girare vorticosamente e neanche gli impulsi del P-30 riuscirono più a sorreggerla. Il peso di quella giornata le piombò addosso, insieme all’infinita sofferenza che albergava nel suo cuore, facendole perdere i sensi.
Cadde, perdendo il controllo sul suo corpo.
Wesker la sorresse in tempo per non farla crollare sul pavimento.
La voltò verso di se, spostandole appena la maschera dal viso.
Sorrise dolcemente. Un sorriso che, in quel contesto, risultò macabro e crudele.
“Hai diritto a un po’ di riposo…” disse in un sussurrò, accarezzandola.
“Albert…?”
Excella gli si avvicinò seria, impensierita.
Tuttavia lui non la curò. Si limitò solo a poggiare Jill sul divano ed abbandonare la stanza.
“Presto una nuova razza selezionata da Uroboros sarà il nuovo popolo di questo mondo, di cui io sarò il suo dio. Quel potere…”
Disse assorto, sentendo ribollire dentro di se una forza incontrollata mai provata prima.
Guardò dritto dinanzi a se, con gli occhi occultati dagli occhiali da sole. Poi rise di nuovo, portando una mano fra i capelli.
“…quel potere…ah, ah, ah. Ho tutto il potere che mi serve.”
Jill aprì debolmente gli occhi, ancora frastornata per il capogiro appena avuto.
Abbassò di nuovo le palpebre, struggendosi intanto alla visione del vero e crudele Albert Wesker dei suoi incubi.
“Wesker…perché…?”
Fu il suo ultimo pensiero, prima di perdere definitivamente i sensi.
 
 
***
 
 



Poche note:
Il Dick Valentine padre di Jill di cui ho parlato in questo capitolo, è quello di cui si racconta sulla wikipedia. Un libro su resident evil ha trattato su di lui, e personalmente condivido l’interpretazione che sia stato il padre a insegnare a Jill a scassinare, una sua abilità che le appartiene dal primo re. Il fatto che il padre sia stato uno scassinatore giustifica molto quindi questa abilità con cui è conosciuta Jill, la “maestra dello scasso”.
Invece l’episodio della sua morte, è quello del cortometraggio Resident Evil Project S.E.R.A. , un cortometraggio meraviglioso interpretato dalla splendida Julia Voth, il volto di Jill Valentine in Resident Evil Rebirth (e altri), che qui interpreta appunto Jill.
Mi farebbe piacere se lo guardaste per immaginare al meglio il flashback presente nel capitolo, che ho descritto presupponendo che, chi leggeva, conoscesse già questo cortometraggio.
Spero leggiate questo capitolo con lo spirito di immergervi nel vortice drammatico della vita di Jill, persa negli incubi, condannata a combattere questa lotta che non ha mai fine.
Volevo inoltre spendere due parole sul Wesker finale, che è un Wesker che non tornerà indietro.
E’ un Wesker che ha abbandonato la sua umanità di sua volontà, e che adesso non può più essere fermato.
Detto questo, un ringraziamento a tutti quelli che mi stanno seguendo.
Alla prossima!
 

 
 
  
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