Note
dell’autrice: Questa storia è per gli amanti
della coppia Ron/Hermione. L’ho scritta per un concorso del forum writers arena( I risultati devono ancora
uscire). È una one- shot, ma l’ho divisa in due capitoli
perché un po’ lunga. Spero vi piaccia perché io ci ho messo
davvero l’anima. Un baciotto e vi avverto, preparate i fazzoletti XD
Green Is The Colour
No hope, no
life, just pain and fear
No food, no
love, no seed, childhood’s end.
Childhood’s end, Iron Maiden
“Tesoro, non mettere le mani lì, ti bruci!” Ingrid si volse verso di me, sorpresa. Mi affrettai ad
allontanarla dalla fiamma che ardeva dal fornello basso in un gorgoglio
sommesso, rinfrancando l’ambiente con un flebile tepore. L’effluvio del latte
che ribolliva nel pentolino si distribuiva con candida mollezza a destra ed a
sinistra, imparziale, stordendomi piacevolmente. Ecco, quella era una delle
poche leggerezze che avevano ancora qualche potere su di me, potevano ancora
farmi sentire il sapore della vita.
E così la mia bimba. Era una pallina, Ingrid. Una dolce, tenera,
soffice pallina. Mi guardava con quegli occhioni a mandorla, senza comprendere
a fondo il mio tono di rimprovero, la mia ansia, e come per sostituire quella
mancanza, mi sorrideva amorevolmente. Ed io non potevo fare a meno di sorridere
a mia volta, con difficoltà, quasi mi fossi dimenticata come si faceva.
Spensi il fornello e versai il latte
fumante nel biberon di Ingrid, mentre mettevo sul fuoco la macchinetta del caffé. Per mille
ippogrifi, quello sì che era il colmo. Ron Weasley, mio marito, col suo nuovo
lavoro aveva così tanti soldi e ricchezze che alla Gringott aveva dovuto
prendere non una, ma due casseforti, e aveva così poco tempo e cura per la sua famiglia che io ed Ingrid
eravamo costrette a vivere con un solo fornello che quasi toccava terra. Per
non parlare del divano che dimorava melanconico di tempi sicuramente migliori
su una parete del salotto, inutilizzabile tanto le molle erano stanche dei pesi
loro inflitti ed il cigolio provocato ogni qualvolta insopportabile. O del tavolo
spiluccato qua e là dalle tarme, che io prontamente cercavo di celare in tutti
i modi possibili agli occhi altrui quando ricevevo visite. O, se si voleva
essere proprio puntigliosi, delle pareti quasi del tutto sgretolate e piene di
macchioline fumose.
E la mia anima, insieme a tutto il mio
buonsenso, si stava inevitabilmente sgretolando, come quelle pareti.
Era successo tutto irrimediabilmente
in fretta. Sette anni di scuola assieme, poi nemmeno due anni dopo i M.A.G.O.
ed eravamo sposati. Allora mi sembrava la scelta più giusta e la sola
che avrei potuto fare senza pentirmene. Dopo il matrimonio, avevo compreso che
in realtà era l’unica cosa di cui mi ero pentita realmente.
Ventitrè anni e già mi sentivo vecchia. Vecchia nell’animo; potevo quasi
percepire le rughe che solcavano i miei pensieri orribili, le piaghe dell’infelicità che affondavano
sempre più graffiando la mia essenza, adagio la distruggevano. Un
processo lento, non troppo però perché io non me ne potessi accorgere. Era come se per tutto quel
tempo avessi offerto a Ron un calice in modo che lo riempisse, e lui a
tradimento vi avesse versato del veleno. Ecco, avevo il sangue avvelenato. Solo
così si poteva spiegare quel desiderio occulto che mi offuscava
l’animo e mi portava persino a ricercare l’oblio della morte.
Ingrid mi ridestò per un poco dalle
mie riflessioni, rovesciando il contenuto di una scatola di costruzioni per il
pavimento rugoso. Mi faceva sentire così viva… era l’ultimo filo sottile a cui mi aggrappavo per non crollare nella
disperazione; sottile eppure di una forza immane. Vederla sorridere, sentire le
sue piccole mani sulla pelle, avvertire l’odore di borotalco e di pulito. Era la mia bimba, e ancora
non riuscivo a capacitarmene.
No, non riuscivo proprio a capacitarmi
di come io, che sono una persona pessima, isterica e pignola, competitiva e
terribilmente ambiziosa, avevo dato alla luce una bambina così splendida e pura.
Non vi era alcuna dannata logica, in tutto ciò. Ma se pensavo che quel gioiello, quel dono meraviglioso ed
immeritato, era l’unica cosa che ormai mi univa a Ron, beh… era
triste.
E arrovellandomi in questi pensieri,
che mi distoglievano completamente dal mondo reale, la mia espressione tornò ad essere una
maschera d’angoscia.
“Ehi, io esco.” Ron fece il suo ingresso nel cucinino, distorcendo il naso
per il forte odore del latte. Era già vestito di tutto punto, o per meglio dire pareva essersi
messo le prime cose che aveva trovato giusto per uscire il prima possibile da
casa.
“Cosa vuoi, il permesso?” biascicai sardonica con una sterile speranza che quel tono
acido, magari quel giorno, magari un altro, lo avesse prima o poi svegliato e
gli avesse ricordato che aveva una famiglia e dei doveri.
“No, non voglio il permesso.” Ron si decise a proferir parola con un record di ben due
minuti di silenzio.“Era per avvertirti, casomai ti venisse in mente che sono tuo
marito.”
Ron Weasley, quando mai. Che me lo
diceva a fare, poi? Come se fosse stata una novità il fatto che infilasse quella maledetta porta ai primi albori
e non ne facesse ritorno se non all’ora di cena. Ormai ero la sua cameriera. Andavo bene solo
finché sistemavo la casa, facevo le faccende domestiche, cucinavo
e badavo ad Ingrid. Si scocciava persino a fare il padre, quell’idiota.
“Oh, lo ricordo già troppo spesso quello. Preferisco far finta di essere
ancora zitella, se non ti dispiace.”
Se mi sentivo in quel modo, una
personaccia, era soprattutto per colpa sua; così pensavo allora. Riusciva solo a scatenare la mia parte
peggiore.
“Non ti va bene mai nulla di quello che faccio, vero?” rispose con
impeto, desiderando forse di colpirmi in qualche modo. “Tu mi credi un
fallito! Ma l’unica fallita qui sei tu, Hermione, sei tu!”
Era così che andava tutte le volte.
Per lo più ci affaccendavamo
a farci del male a vicenda, a scoccare frecce avvelenate accecati dalla furia.
Diedi un’occhiata ad Ingrid, non volevo che assorbisse quell’aria pesante. Tre
anni. Quello era il periodo in cui, normalmente, si cominciava a formare il
carattere di una persona, e non avevo alcun desiderio di trasformare mia figlia
in una ragazza piena di rancore verso i genitori. Non volevo che lei mi
odiasse, almeno lei.
Per fortuna, pensai, sembrava ignara
delle frasi pungenti che ci tiravamo addosso io e Ron. Stava giocherellando con
le costruzioni immersa completamente, a quanto pareva, nella realizzazione di
un castello o qualcosa del genere.
“La bambina.” Lo avvertii, mordendomi le labbra per non rispondere alla
sua aperta provocazione. “Vai dove ti pare e restaci quanto vuoi, ma esci di qui!”
Se avesse risposto ancora,
probabilmente, gli avrei lanciato contro una fattura di quelle potenti, che
nemmeno il San Mungo gliel’avrebbe saputa curare.
Stranamente, invece, prese una
decisione sensata ed imboccò l’uscio.
Silenzio.
Odiavo quel silenzio, quasi più delle malignità che ci gettavamo
addosso. Non era la risposta che volevo, non la consolazione, la comprensione
che mi attendevo ogni volta.
Guardai Ingrid- i ricciuti capelli
color caffé scarmigliati sul capo, le paffute guance tinte di rosa, la
minuscola bocca socchiusa quel tanto che bastava perché c’infilasse il
pollice- e scoppiai a piangere.
Non mi venite a dire che sono stato
uno stronzo. Semplicemente io non posso esserlo. Forse a volte idiota,
insensibile, egoista… ma non stronzo, no. Io amavo Hermione, ed amavo il
frutto della nostra unione, Ingrid. Le amavo con tutto me stesso, ma non ci
crederà nessuno in fondo.
Il punto, il vero punto della
situazione, è che Hermione mi ha ucciso. Dimenticate coltelli, sussurri
di Avada Kedavra, pozioni mortali e quant’altro. Esistono modi molto più sottili per uccidere una persona, molto più taglienti, ed il
peggio è che sono del tutto involontari. Io l’ho capito a mie
spese.
Non ho mai avuto un carattere
particolarmente forte; impormi con le mie idee quando sapevo che quasi
certamente mi avrebbero stracciato era una cosa che avevo imparato a contenere.
Avere sei fratelli, tutti sicuri delle proprie carte, popolari e divertenti…
beh, Percy proprio no, ma ci sono sempre le eccezioni, non vi pare?
Fatto sta che la mia figura ne
risultava completamente oscurata: Fred e George che mi oscuravano con la loro
simpatia e la loro faccia da culo, Bill che mi oscurava con quelle sue fattezze
che attraevano tanto le donne, Charlie che mi oscurava con il suo indiscutibile
coraggio, e Ginny, anche Ginny mi oscurava, per quella forza di carattere che
solo una donna è in grado di possedere.
Insomma, io contavo in quella famiglia
come una mou al sapore di caccola. Fate un po’ voi i conti.
Per non parlare di quelli che sono
sempre stati i miei amici. Harry Potter ed Hermione Granger.
Potrete dirmi che sono uno che si fa
mettere i piedi in testa da tutti, ma vorrei vedere uno qualunque di voi che al
mio posto non si sarebbe sentito un cretino. Cioè, Harry Potter, scherziamo? È sempre al centro dell’attenzione, pieno di gente che gli ronza intorno e che gli
lecca i suoi preziosi piedini. Ci manca solo che fra poco lo idolatrino e lo
imitino nel suo modo di andare al cesso. Alzi la mano chi accanto ad una tale
presenza non si sentirebbe a disagio specie se, come nel mio caso, si viene
completamente ignorati e messi da parte.
Ma aspettate, non ho finito.
Dimenticate Hermione Granger, una delle mie migliori amiche nonché mia moglie. Vi
ricorda qualcosa il nomignolo So- Tutto- Io? Cominciate a capire… non è vero?
Vi sfiderei a farle una qualunque
domanda, una sola, anche la domanda più assurda a cui nessuno al mondo si è mai nemmeno
degnato di dare una misera risposta. Bene. Hermione vi risponderà. Quella non ha un
normale cervello con delle normalissime celluline grigie e dei neuroni che si
fanno un giro panoramico dentro per passare il tempo. No. Hermione ha un
cervello che una qualsiasi persona pagherebbe oro per rubarglielo. Contiene più informazioni del
Pensatoio di Silente, e ho detto tutto.
Sapete esattamente cosa significa
vivere ogni santo giorno accanto ad una persona così? No, non lo
sapete. Perché solo un idiota come me poteva anche solo pensare di starci
insieme.
Vi alzate la mattina. Volete fare un’energica colazione
con bacon, uova, salsicce… no! Perché Hermione Granger dice che questo cibo è veleno, e visto
che è veleno per lei, allora lo deve essere pure per voi. Morale
della favola: quella mattina mangerete latte coi cereali, che a voi fanno
venire il voltastomaco, per poi buttarvi un panino stracolmo di roba appena
arriverete all’ufficio.
Altro esempio? Usciamo assieme. “Dove andiamo?” mi chiede lei ogni
volta con fare innocente. Questa, per chi non lo sapesse, è una domanda
retorica. E sì, perché Hermione ha già le idee chiare su dove vuole andare e su cosa vuole fare.
Morale della favola: annuite e
sorridete, baldi giovani. Guai a voi se proponete qualcosa, è sicuramente meglio
andare dai genitori di Hermione che vi riempiranno la bocca di cibo insipido ed
orientale, che fa molto trendy, che vi accoglieranno con una sparatoria di
domande assurde, e passeranno la serata a guardare stupidi programmi su di uno
stupido melevisore, o come si chiama.
Immaginate di sopportare cose come
queste per amore. Immaginate di sopportarle tutti i giorni, nessuno escluso.
Immaginate di aver dimenticato come si fa ad esprimere una propria opinione,
accordando tutto quello che dice vostra moglie, perché così è più semplice, così è facile andare d’accordo.
Allora permettete che io, Ronald
Bilius Weasley, mi sia finalmente rotto le scatole di essere un fantoccio nelle
mani della moglie?
E così ho iniziato a sentirmi oppresso a casa, oppresso dovunque
ci fosse Hermione nei paraggi. Volevo respirare, signori, soltanto questo. Non
ero capace di dirglielo a parole, perché qualcosa dentro di me mi suggeriva crudelmente che non c’erano parole che
potessero esprimere ciò che stavo provando. E soprattutto non c’erano parole per
dirlo a lei; non avrebbe capito.
Era come sentirsi in una gabbia troppo
stretta, le sbarre che stringevano le mie membra e le deformavano, mi
procuravano un dolore acuto ed insostenibile. E l’unica cosa da fare era fuggire da quella gabbia.
Mi allontanai, è vero. Iniziai a
passare meno tempo possibile a casa, per non sentire la sua voce insistente e
petulante.
Mi vedevo i fatti miei, è vero anche questo,
le poche parole che ormai ci scambiavamo le gettavo nel dimenticatoio per poi
fare qualcosa di più piacevole.
Ed è vero, purtroppo, il fatto che punendo la sua arroganza,
punii anche Ingrid. La punii con la mia assenza, con la mia assidua
indifferenza, il mio egoismo imperdonabile.
Pensai a tutto questo, mentre
camminavo come un automa recandomi al Ministero. Perché non mi fossi
semplicemente smaterializzato proprio non lo sapevo; forse volevo solo fare due
passi per rimuginare sulla mia vita. Non poteva continuare così.
Dovevo fare qualcosa. Le mie mani
fremevano dall’angoscia, il mio viso grondante sudore; non dovevo avere
affatto una bella cera. Mi asciugai quelle stille affannose, mi fermai nel
mezzo della strada.
Forse una decisione sensata la potevo
ancora prendere.
Shade my eyes and I can
see you
white is the light that
shines
trough the dress that you
wore[…]
Green is the colour, Pink
Floyd
Avevo accompagnato Ingrid all’asilo nido.
Ero stata io a prendere questa
decisione. Ron non sembrava molto d’accordo in proposito, ma non aveva detto nulla, così l’avevo iscritta.
Trovavo fosse un ottimo modo perché iniziasse a socializzare con i suoi coetanei. L’unico rischio era
che facesse qualche magia accidentale, ma fino a quel momento non aveva
dimostrato alcuna capacità magica, così non mi preoccupavo.
Harry mi aveva tenuto compagnia, come
al solito. Ultimamente passavamo molto tempo insieme. Lui aveva messo fine alla
sua ultima storia, con una certa Goneril Lovelace, e probabilmente si era
accorto che c’era qualcosa che non andava, qualcosa che mi turbava.
Non mi aveva chiesto nulla, ed io non
gli avevo detto niente, ma lui comprendeva guardando nei miei occhi, e io
comprendevo guardando nei suoi.
Entrammo a casa.
La sua espressione si addolcì quando l’odore del latte
arrivò alle sue narici. Lui adorava il latte, e diceva spesso che
quella casa sapeva di buono.
“Ti offro qualcosa?”
“Il solito, Herm.” Sorrise. Quanto mi piaceva vedere quel sorriso! Ti metteva
qualcosa come un’improvvisa pace addosso, e ti ci saresti cullata per ore,
fissandolo.
Andai in cucina, e mentre versavo del
latte freddo in un bicchiere, avvertii uno stridore prolungato ed
insopportabile. Il divano, pensai.
Lo trovai infatti seduto su quel pezzo
d’antiquariato, con un’espressione assorta, indecifrabile.
Bevve un sorso di latte, poi poggiò il bicchiere sul
tavolino di fronte con estrema delicatezza. Era una cosa che mi stupiva molto,
la sua consueta attenzione al particolare, il maneggiare le cose con cura, che
si trattasse di un bicchiere o di una penna. Mi chiesi con una parte della mente,
ed in seguito non fui nemmeno sicura di averlo pensato realmente, se quelle
mani così precise, dal tocco fermo e gentile, fossero state
altrettanto attente, altrettanto dolci quando sfioravano un corpo femminile. Mi
chiesi, il sangue che fluiva con sorprendente rapidità alle mie gote,
come sarebbe stato il tocco di quelle mani sul mio corpo.
Harry mi guardò con una calma che,
ne ero sicura, celava un’incessante irrequietezza, un dimenarsi continuo di pensieri,
e dubbi, e confusione. “Come stai?”
Come stavo. Uno schifo, ecco come
stavo. “E tu? Come stai?” chiesi invece, voltando il coltello e rivolgendo a lui la
lama tagliente. Rise.
“Che fai, fuggi alle mie domande?” sempre con quel
suo sorriso dolce, capace di trasmettere una pace assoluta, fece sbucare dalle
sue spalle una bustina che non avevo notato prima. “Ho trovato questo.
Ho pensato potesse interessarti.”
Lo guardai curiosa, poi guardai la
busta; la presi. Appena vi diedi una rapida occhiata, sentii un guizzo gioioso
riscaldarmi dentro. Ne trassi un libricino. Aveva la copertina celeste, il mio
colore preferito, i bordi decorati a ghirigori, il titolo color dell’oro.
“Oh, Harry!”
Era un libro che desideravo da secoli
e che non riuscivo a reperire da nessuna parte. “Ma dove l’hai trovato?”
“Segreto professionale. E anche se te lo dicessi, non mi
crederesti.”
Lo abbracciai. O meglio, lo stritolai.
“Ehi, vacci piano ragazza, con queste dimostrazioni d’affetto!”
Allentai un po’ la presa, ed Harry
mi diede dei bacetti sulla testa. Poi successe una cosa strana.
Cioè, non fu una cosa strana. Era piuttosto una cosa che non
credevo possibile l’avesse fatta davvero Harry, il mio migliore amico. Tra i
vari baci sul capo, scese a posare le sue labbra sul mio collo. Mi venne un
brivido di piacere. Poi mi vergognai da morire. Diamine, un bacio sul collo.
Non era quello il tipo di bacio che ci si scambia tra amici, no? Per questo
parlo di una cosa strana.
Lui sembrò non rendersi
subito conto del suo gesto, ma dopo un po’ si scostò di colpo, un po’ brusco. Uno scambio di sguardi, e la vidi.
Vidi l’irrequietezza che giocava nei suoi occhi, quegli occhi limpidi come un
lago d’inverno che adesso venivano mossi da un’onda, agitati e…
cos’era quella? Paura?
“Hermione, io non…”
“Harry, non c’è niente di male!” mi affrettai a dire, a mentire.
Ma lui m’interruppe con un gesto rapido della mano. “Io non dovevo
venire qui. E non dovevo portarti quel libro, perché sapevo che ti
avrebbe reso felice.”
Lo fissai interrogativa. “Ma è una cosa bella,
Harry… non capisco…”
“Non capisci?” domandò, e la sua voce tradì una nota dolente. “Mi sto facendo del male da solo. E ne sto facendo a te.
Queste attenzioni, questi momenti… cosa pensi che siano, Hermione?”
“Cose tra amici.” Risposi insicura, o forse ostentando una sicurezza che non provavo
in quell’istante. “Non lo sono, Harry? Non sono cose tra amici, queste?”
“Cose tra amici…” ripeté a se stesso, tenendosi la testa tra le mani, come se fosse
divenuta all’improvviso troppo pesante da poter sostenere. Poi si fermò, e pareva che per
un attimo avesse ripreso la sua consueta maschera di calma. Ma non c’era calma nella sua
voce quando mi prese il volto tra le sue mani e mi disse: “Guarda la realtà in faccia. Io
vengo qui tutti i santi giorni, e tutti i santi giorni io non sono felice e tu
non sei felice, e lo sappiamo entrambi ma mentiamo a noi stessi, e io che ti
porto regali per… per farti felice… anzi no! Basta mentire…
io ti porto regali sperando che tu capisca che non sono cose tra amici, queste!”
Finì al limite dell’isterismo. Ma non tolse le mani; continuò a guardarmi negli
occhi, incapace di fare qualsiasi altra cosa.
Ed io sentii quelle mani sulla mia
pelle; allora capii cosa si provava a sentire il tocco delle mani di Harry su
di una donna, su di me. Bruciavano come se fossero fatte di fuoco, quelle mani,
bruciavano come se invece di una morbida carezza mi avesse tirato uno schiaffo.
E bruciavano i suoi occhi, che avevo sempre pensato avessero l’essenza dell’acqua, e invece mi
rendevo conto solo allora di come ero stata stupida. Perché quelle iridi erano
fiamme, ardevano di una passione tutta rivolta a me, ora lo sapevo.
E il senso di colpa aleggiava
impassibile, una presenza immobile ed impalpabile nell’ombra di quel
salotto, di quella casa.
E noi lo mettemmo a tacere. Oh sì, lo mettemmo
proprio a tacere, il senso di colpa.
Forse ci osservava guardingo da un
angolo, forse ci rimproverava in silenzio, chissà. Ma non lo ascoltammo di certo, perché io lo baciai, e
lui baciò me, e prima che uno di noi due potesse prendere una
decisione sensata, avevamo entrambi intrapreso la decisione più insensata e
seducente di tutte.
Dieci minuti dopo eravamo lì, accasciati su
quel sofà, che ci aveva accompagnato per tutto il tempo col suo sordo
rumore di cianfrusaglie e di cose passate.
E noi eravamo abbracciati, felici
ed infelici.