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Autore: xNewYorker__    12/12/2012    0 recensioni
(Sequel di Have an awkward Christmas!)
Un anno dopo, le vacanze di Natale arrivano con la stessa monotona puntualità, accogliendo finalmente Shannon e Robert nel bel mezzo del freddo inverno di Toronto.
A rovinare il loro programma di vacanze pacifiche e strettamente familiari ci sarà una coppietta felice, un bambino e l'imprevedibilità del susseguirsi dei giorni.
Come al solito, insomma, le vacanze non sono mai ciò che ci si aspetta, specialmente in una famiglia come quella dei Washington.
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[...]«Fino ad allora cosa hai intenzione di fare? Vuoi spiare tua sorella, o peggio, quel tizio? Vuoi puntare sul bambino?».
Improvvisò una naturale risatina sommessa, ad occhi socchiusi. «In realtà volevo fare l’albero».
Genere: Comico, Demenziale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Mi sembrò di essere di schiena, e ridacchiai, aprendo gli occhi, convinto che fosse un sogno.
In realtà ero lentamente scivolato giù dallo sgabello mentre dormivo, e iniziavo a piangerne le conseguenze per via del dolore lancinante alla base della spina dorsale.
Beh, capita.
Costretto a guardare di fronte a me, guardai ovviamente sopra, data la posizione – scomoda – in cui mi trovavo, impossibilitato ad alzarmi, come una tartaruga sul guscio, che gira su se stessa ma fatica a mettersi in piedi per come dovrebbe.
«Tutto bene?».
Di fronte (o sopra, per come vogliamo intenderla) a me, Shannon stava legando i capelli in una coda, per evitare che mi ricadessero quasi in faccia, dato che si trovava in ginocchio.
«No. Cioè sì», risposi, grattandomi la nuca e facendo un vano tentativo di mettermi almeno a sedere.
Ridacchiò, allungandomi una mano. «Ti aiuto, dai, e poi non dire che sono egoista». Sbuffò.
Presi la sua mano e mi misi a sedere, massaggiandomi la schiena e stringendo gli occhi.
«Hai dormito qui?», chiese.
«A quanto pare», constatai, toccando con mano il duro pavimento di piastrelle nero lucido che mi aveva ospitato al posto di un caldo e comodo materasso la stessa notte.
«Solo tu saresti in grado di farlo», commentò, ancora con l’ombra di risata sul viso.
Rimasi a contemplarla, quasi, per qualche secondo, con la classica espressione da pesce lesso, anche un pochino sofferente per le mie sfortunate condizioni.
Scossi la testa, tornando violentemente alla realtà.
«In realtà ero qui a leggere e mi sono addormentato», spiegai, inventando su due piedi la scusa della lettura.
«Non ti offendere, eh, ma non vedo alcun libro, o giornale, qui», disse, e seppi di trovarmi nei guai. Non che mi trovassi realmente in una specie di guaio, semplicemente in una situazione piuttosto ambigua.
«Okay, ho fatto una figura da idiota», dichiarai, solennemente, mentre mi alzavo, piuttosto tremante, da terra, per andare a sedermi sullo sgabello.
«Nah, ne ho viste di peggiori nella mia vita».
Non avrei saputo spiegare perché, ma mi sembrava quasi più gentile del solito. Probabilmente lasciarmi le era servito a cambiare il suo carattere in una notte o poco più. Che amarezza.
Chiuse la zip del felpone blu notte col quale aveva coperto la maglia del pigiama e si mise a sedere sulla poltrona accanto al balcone. Perché non avevo scelto quella? Non avrei saputo dirlo.
Accavallò le gambe e mi guardò da lontano, forse aspettando che dicessi qualcosa, ma rimasi in silenzio.
«Ah, ehm, oggi dovrebbero arrivare i miei genitori, nel pomeriggio. Pensi di...non lo so, pensi di potere far finta che...?».
Scoppiai nervosamente a ridere. «L’anno scorso ho provato a fare il contrario e tua madre mi ha dato del gay, quest’anno potrebbe darmi del...lesbico, suppongo».
Nonostante la battuta fosse davvero penosa, rise anche lei, a sua volta, e rimasi stupito.
Davvero, mi sembrava troppo normale per essere lei.
«Allora il pranzo sarà solo con tua sorella, il bellimbusto, Coraline e l’adorabile pargoletto?», chiesi, e lei annuì.
«Già. E il “bellimbusto” si chiama Matt, non è poi così male, sai?».
Sbuffai. Certo, un palestrato alto un metro e novanta – come me, ma sono dettagli... – non poteva essere poi così male, eh.
«Bene, lo chiamerò ugualmente “il bellimbusto” perché mi sento di fare così», dichiarai, incrociando le braccia come un bambino che ha preso una delle prime vere decisioni – e che possibilmente cambierà idea il minuto dopo.
«Non fare così, dai, mi ricordi me e mi inquieti anche un po’».
Forse stavo iniziando a capire cosa intendevano gli altri quando dicevano che ci compensavamo.
Non eravamo più noi, altrimenti, e in un modo o nell’altro dovevamo riempire il vuoto, così ci limitavamo a fare gli idioti l’uno nel modo dell’altra. Beh, forse, non sono mica uno psicologo.
«E comunque pensavo che, nonostante la pausa, potremmo essere amici. Insomma, dove è scritto che dobbiamo necessariamente odiarci o ignorarci? Per me è stupido», propose, e più che sentirmi sollevato mi sentii direttamente scaraventato contro un muro di chiodi.
Come fai ad essere amico di una persona che ami da almeno quindici anni?
«Eh?», chiesi, come se non avessi sentito, per cercare di capire se quelle fossero state davvero le sue parole.
Tossicchiò. «No, cioè...».
Spezzai la tensione con una risata amara. «Senti», iniziai, «so che i film, anche se non lo ammetteresti mai, ti piacciono, ma non siamo in un film, e io non farò finta che mi stia bene essere tuo amico. Sono chiaro?».
Abbassò lo sguardo per qualche secondo, per poi alzarlo e sorridere. «Wow, stai imparando», sussurrò, quasi.
Feci spallucce. «Dopo tutto questo tempo potevi immaginarlo», risposi.
«Giusto. Quindi, cosa ti andrebbe di fare per questa vigilia? Dopotutto sei ancora ospite in casa mia».
Ritrovare la scintilla. Non dovere annullare niente. Risparmiarmi i discorsi difficili a Coraline e non doverle rovinare la fine dell’anno.
«Non mi va molto di uscire, in realtà», risposi, però. «Vado a vestirmi e scendo».
Mi alzai dallo sgabello e quasi corsi al piano di sopra, più per liberarmi dalla situazione scomoda che per altro.
 
(Pov Shannon)
 
Camminai a lungo per il corridoio del terzo piano, occasionalmente fermandomi alla finestra verso il centro, che dava esattamente su una delle strade principali del quartiere, sul marciapiede della quale era stato preparato un albero enorme (che sembrava già enorme da casa dei miei), piuttosto simile a quello tipico di New York. Le solite osservazioni di Rob sul Natale a New York mi sembrarono ancora più stupide.
Dalla sera prima mi sembrava di avere perso qualcosa, e una delle cose più tristi era che sapevo benissimo cosa fosse e non potevo andare a riprenderla. O meglio, mi andava e non mi andava.
Forse per ritrovare la scintilla avrei potuto dargli fuoco, chissà.
Sbuffai, appoggiando le braccia al davanzale della finestra e osservando a lungo il paesaggio esterno, ricoperto di neve.
Socchiusi gli occhi, e per la prima volta pensai che il giorno dopo sarebbe stato Natale e che non me ne importava nulla.
Rob iniziava già a mancarmi sempre di più, ma sentivo come se qualcosa mi impedisse di andare da lui e parlargli. Forse era l’orgoglio, o probabilmente solo il mio carattere, per il quale gli altri dovevano venire da me e io potevo restare immobile dov’ero, come avevo sempre fatto. E infatti rimasi lì, da sola.
Rimasi lì finché non sentii un botto, parecchio attutito – probabilmente dalla distanza -, proveniente, a occhio e croce, da pianterreno.
Immaginai che i miei fossero tornati. Era solito di mia madre fare certi ingressi in grande stile, insomma.
Mi affrettai a scendere le scale, nelle ballerine nere che Coraline mi aveva costretto a comprare – e che quindi ero anche costretta a sfruttare, giusto per non avere il rimorso di avere buttato dei soldi -, non poi così scomode come immaginavo, anche se le mie amate scarpe da ginnastica mi mancavano già parecchio.
Presi un paio di respiri profondi, man mano che i piani che mi separavano dall’ingresso diminuivano, per metà paralizzata da una strana inquietudine che la sola idea di rivedere i miei dopo un anno mi provocava.
Immaginai già l’aspro sorriso che mia madre doveva avere mentre trascinava dietro di sé mio padre, portando lei tutte le valigie per mostrare che anche le donne sono capaci di faticare e che non necessitano di inutili atti di cavalleria, e poi l’espressione stanca di mio padre, che si sarebbe trasformata in quella di un cane da guardia una volta adocchiato Rob, ma si sarebbe addolcita subito di fronte agli occhioni di Coraline, che ora come non mai aveva bisogno di affetto e approvazione da parte sua e di mia madre, dato che non riusciva a trovarli nei Kennedy.
Infine, mi ritrovai all’ultima rampa di scale, e non appena misi piede sul pavimento del pianterreno, l’allegra e squillante voce di mia madre, che aveva appena appoggiato i bagagli al muro accanto alla porta – spalancata alle sue spalle -, rabbrividii.
«Finalmente ci sei anche tu!», esclamò, guardandosi intorno e mostrandomi la presenza di Coraline, Louanne, Matt, suo figlio e Rob, in piedi come soldatini, l’uno accanto all’altro.
«Oh, già, suppongo», risposi, stringendo gli occhi e annuendo.
«Amore, ma sei uno schianto! Cos’hai fatto di recente?». Gli occhi le brillavano, quasi.
Io, in realtà, non ero neppure abituata a ricevere complimenti da lei, anzi.
Accennai un sorriso. «Grazie. Niente...respiro, credo». Storsi la bocca.
L’unica cosa che avevo fatto di recente era rovinarmi la vita, mettere quelle scarpe (chiamiamolo un contributo alla rovina della vita) e pettinarmi i capelli, nient’altro. Non ero sicura che i leggins e il maglione c’entrassero qualcosa. Tanto ero sempre io.
Sì, insomma, Coraline si era divertita a (s)combinarmi per bene la valigia.
Ridacchiò, e sentii la voce di mio padre rimproverare la moglie, da dietro le sue spalle e dire un “muoviti!” piuttosto nervoso.
«Ah, giusto! Dobbiamo presentarvi un nuovo membro della famiglia Washington».
Inarcai un sopracciglio. «Un altro?».
Mi voltai ad osservare il resto della non-famiglia, appoggiando una mano al muro.
«Dunque. Date il benvenuto a Caesar!».
Immaginai questo “Caesar” come un alano gigante. Non avevo idea del perché, ma immaginai che dovesse essere un cane, anche perché non vedevo persone nei paraggi, a parte mio padre, chinato per non farsi vedere (a nascondersi dietro mia madre ce ne vuole).
Deglutii. Un cane. L’idea di un cane era persino peggiore di tutto il resto, compreso il cenone di Natale di quella sera e l’invitare tutti i cugini l’indomani. Parlando chiaro, a parte George, con cui ero in un certo senso cresciuta, li odiavo tutti, o non li conoscevo affatto. E la cosa era sicuramente reciproca.
Finalmente, mia madre si spostò e diede modo a mio padre di entrare, nel suo enorme cappotto nero, parzialmente ricoperto di neve. Rabbrividiva per via del freddo, e teneva tra le braccia un cosino peloso che non gliele riempiva neppure tutte, notai.
Era, mi accorsi avvicinandomi di qualche passo, un cucciolo di husky, davvero piccolo, dal pelo bianco e nero. Aprì gli occhietti non appena mi avvicinai, e vidi che erano di un blu intenso. Mi ricordarono quasi quelli di mia madre.
Abbaiò piuttosto flebilmente, avvolto tra le braccia infreddolite e tremanti di mio padre.
«Questo cosetto sarebbe Caesar?», ridacchiai, tra le parole.
Mia madre annuì. «Già. Non è adorabile? Lo abbiamo preso a Vancouver ieri sera», spiegò.
Affiancai mio padre e allungai la mano per accarezzare la testa del cucciolo, anche lui probabilmente infreddolito.
«D’accordo, mi ha convinta. E’ un cosino adorabile, anche se me lo aspettavo molto più grande».
Lo vedevo già correre per le stanze, distruggere mobili e fracassare le palle di chiunque avesse intenzione di riposare in qualsiasi momento del giorno (sì, a me), aaaw.
Coraline corse verso mio padre e si fece passare il batuffolino in braccio a tempo record.
«Oddio, ma è adorabile!».
Strano a dirsi, ma i cani erano una di quelle poche (davvero poche) cose che non detestavo più della signora Kennedy. Che poi, a dire la verità, più della signora Kennedy detestavo solo il pianto dei bambini, le sdolcinatezze e gli ascensori affollati, ma questa è un’altra storia.
Raggiunsi Rob, che stava qualche passo indietro per non contaminare l’aria di mio padre (come lui stesso gli aveva detto una volta), e mi appoggiai con un braccio alla sua spalla.
«Ora abbiamo anche un cane», dissi, ironica, e lui mi regalò uno sguardo preoccupato.
«Dai, non ti ucciderà», sussurrai, per evitare che l’interessato mi sentisse, e lui rispose un “ne dubito”, che mi fece ridere.
«Piantala!», esclamai, dandogli una leggera spinta.
Mi sentivo quasi più leggera a scherzare con lui senza che fossimo una coppia, ma era anche frustrante, e pesante, e diverso.
Mi mancava sostituirlo ai cuscini scomodi in camere che non erano la mia, e coprirgli gli occhi mentre guardavamo uno di quei film horror che lo segnerebbero a vita se ci stesse troppo attento, nonostante io continui a ridere talmente forte per le sue espressioni da impedire ad entrambi di seguire i dialoghi.
Notai che si era fermato a guardarmi, quando riuscii a tornare seria dopo la risata.
«Che c’è? Se sono caduta dalle scale di faccia non me lo ricordo, per cui illuminami...», scherzai, inarcando un sopracciglio, e lui scosse la testa.
«No, anzi», rispose.
Mia madre batté le mani, rompendo l’incanto con la solita violenza a cui eravamo più che abituati.
«Bene, polletti, è ora del rito sacro che la famiglia Washington compie tutte le sere del ventiquattro!», annunciò, fieramente.
Battei le mani e improvvisai un urlo da stadio, per poi accostarmi un’altra volta a Rob e sussurrargli «si riferisce alla partita della nazionale di hockey e all’enorme bevuta di scotch. E quando dico enorme, intendo enorme», puntualizzai, infine. Lui deglutì.
«Mi sa che non reggo bene l’alcool. Ho provato una volta a sedici anni e credo di essere crollato dopo un paio di birre».
Ridacchiai. «Non tutti sono capienti come me. Vedrò di aiutarti, anche se non credo che sia uno spettacolo che vuoi vedere realmente».
Alzò le spalle. «Mah, in realtà ho avuto già qualche occasione per osservarti mentre butti giù alcool come fosse acqua, non sarebbe una novità».
Annuii. «Oh, sì. Hai visto me, ma non hai visto mia madre, o Louanne. O, peggio, mio padre», lo misi in guardia.
Rabbrividì visibilmente, il che mi fece scoppiare a ridere un’altra volta.
«La partita inizia tra cinque minuti. Abbiamo il tempo di preparare tutto lo scotch che c’è in frigo», avevo controllato, e c’erano almeno cinque bottiglie, «e di prendere i posti migliori di fronte alla televisione!».
Corsi in cucina, seguita a ruota da Rob, ancora sufficientemente perplesso, e posammo tutte le bottiglie sull’enorme tavolo del salone.
Qualcuno avrebbe detto addio al cenone, quella sera.
Io, Rob, Louanne e Coraline prendemmo i posti sul divano, mente Matt, che aveva messo a letto Edward, aveva occupato la poltrona alla destra del divano, mia madre quella a sinistra e mio padre si era arrangiato su una sedia girevole che aveva preso dal suo studio al piano di sopra.
Stavamo tutti a contemplare ad occhi sbarrati lo schermo della televisione, chi seguendo di più (io e i miei) e chi di meno (Louanne, Coraline, Matt e Rob), ma tutti piuttosto concentrati.
Naturalmente, la partita era Canada – Stati Uniti, giocata ad Ottawa, motivo per cui non eravamo allo stadio e però ci trovavamo impalati lì come dei paletti in giardino.
«Ma quello è della mia squadra o della vostra?», chiese Rob, seguito dallo sguardo perplesso, nei suoi confronti, di Coraline.
«Perché, c’è una tua squadra e una nostra squadra?», chiese mio padre, quasi ringhiando.
Forse ho dimenticato di puntualizzare che, nella nostra casa, si tifa Canada o non si è bene accetti. E non sto scherzando: una volta mio padre lasciò fuori di casa il marito di mia cugina Joan perché tifava la squadra avversaria. Lo ha tenuto fuori fino alla fine della partita, e lo abbiamo fatto rientrare che sembrava una stalattite. Fu una scena meravigliosa: ho ancora la fotografia.
«E’ capace di cacciarti», dissi, infatti.
«FORZA CANADA!», urlò, sollevando un pugno verso l’alto con fare patriottico.
«Bravo», dicemmo, in coro, io e mio padre.
Ognuno di noi aveva la sua bottiglia, eccetto Coraline, perché troppo piccola, e Rob, perché aveva deciso di dichiararsi astemio per evitare la figura di merda di ritrovarsi ubriaco dopo averla obbligatoriamente finita (in casa Washington le bottiglie si finiscono per forza).
A metà partita, erano quasi tutte finite, e Rob guardava me e Matt (che l’avevamo finita a tempo di record) ad occhi spalancati, forse ponendosi qualche domanda. E faceva bene.
Mio padre, intanto, ne aveva tirata fuori una terza (ero convinta che la seconda l’avesse mandata giù durante l’intervallo), e stava bevendo tranquillamente, con espressione beata.
Sapevo che mancasse veramente poco al crollo definitivo. Lui non si sentiva male, non aveva mancamenti, giramenti di testa o nausea, non sveniva, ma si limitava a svuotare la sua mente, del tutto. E non era mai un bello spettacolo, tutt’altro.
«Ah, merda», mormorai, vedendo vicino il pareggio, ma sospirai, sollevata, quando vidi che fu mancato.
 
Fortunatamente, ci ritrovammo a dovere andare a letto prima che la situazione degenerasse. Mia madre portò mio padre fuori dal salone prima ancora che potesse parlare, e per fortuna aveva anche sonno.
Tutti andarono a dormire, e lasciarono me e Rob da soli sul divano, col televisore spento e il cervello in standby.
«Ti ricordi quando abbiamo fatto quella chiacchierata l’anno scorso?», chiese.
«Ah-ah. Perché?».
Sospirò. «Niente. Mi mancano questo tipo di chiacchierate. E’ noioso, sai, credere di sapere tutto l’uno dell’altra. Si finisce per non parlare più».
“Si finisce per non parlare più”. Noi non parlavamo più seriamente da quella sera, forse. Non ne avevamo più avuta l’occasione, né la voglia. Durante una relazione si dà tutto per scontato.
«Già», commentai. «Peccato».
«Comunque, la tradizione è piuttosto carina, credo. Strana, ma carina». Ridacchiò.
Sorrisi. «Mh, sì, suppongo», risposi.
Non l’avevo mai considerata una cosa carina: c’ero solo abituata. Ed era la tradizione perfetta, dato che mi piaceva bere, urlare contro gli americani e guardare le partite di hockey: era il mix perfetto, comprendendo anche le vacanze.
Ero quasi felice che anche lui avesse sperimentato questa parte del mio mondo.
«Bene, penso che andrò a letto adesso», dissi, alzandomi dal divano.
«Oh, sì, anch’io», rispose, e fece lo stesso, avviandosi alle scale. 
«Ti ha spostato al secondo piano?», chiesi.
«Sì, con Coraline. A proposito, ieri mi ha chiesto se avessimo litigato», «E cosa le hai detto?», «Che ieri volevo chiacchierare un po’ con lei».
Sospirai. «Se l’è bevuta?».
Annuì.
Sperai per un attimo che tutta quella situazione potesse sparire. Se non per me, almeno per Coraline, che non meritava che la sua seconda occasione di avere una famiglia venisse distrutta solo perché ci eravamo stancati di ripetere sempre le stesse cose. Mi ripetei che era una piccola crisi, e che magari sarebbe durata solo fino al mattino dopo, perché era Natale e a Natale si risolve tutto, che sarebbe passata. 

Angolo autrice: 
Questa volta ho deciso di postare due capitoli, spero che qualcuno li legga e li apprezzi :3 
A presto!
xNewYorker__/Chris
   
 
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