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Autore: Black_Oleander    12/12/2012    3 recensioni
Il vento gelido di casa, la neve ghiacciata che le accarezzava le guance, sciogliendosi al contatto con esse, scivolando inesorabilmente verso il suolo e trasformandosi in ingannevoli lacrime. Quella era stata la sua vita, ciò che l’aveva accompagnata nella quotidianità dei suoi giorni passati.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Hiraeth





Riusciva ancora a ricordare la sensazione del vetro ghiacciato sotto i polpastrelli. Ormai non era più così.

Guardò la finestra, non fuori da essa, la osservò in ogni minimo particolare: la cornice di nodoso legno scuro, che circondava i quadrati trasparenti, i vetri resi opachi dalla condensa, creata dalla differenza di temperatura tra l’esterno e il caldo, rassicurante interno della casa.

Quel calore però le era estraneo, non lo riconosceva come suo.

Lei odiava il caldo.

Chiuse gli occhi, ricordando cosa era in realtà per lei il freddo. Non era la sensazione che le stava provocando toccare quei vetri apparentemente gelati, era diverso da quel che il suo corpo e la sua mente avevano conosciuto per tanti anni. Non era più la sensazione annichilente, che dalle dita si diramava in tutto il corpo, mozzandole il fiato e facendole perdere le forze. Non era il freddo che riviveva nella sua mente e nei suoi sogni più tormentati. Non era il freddo che per lei era sinonimo di casa.

Riaprì lentamente le palpebre e ciò che si presentò di fronte ai suoi occhi fu la solita, desolante scena di vita metropolitana. Quel grigiore, l’assenza di significato in ogni cosa lì attorno, la taciturna ammissione di sterilità del cemento e dell’asfalto grigio. In fondo anche dalla finestra di casa poteva vedere una città, ma non una qualsiasi, era una città diversa, una città grigia per certi versi, ma colorata e splendente con i suoi imponenti edifici storici e caratteristici. Quante volte aveva sognato le sue spettacolari chiese ortodosse, ormai non era più in grado di dirlo. Eppure quella che lei chiamava casa era un luogo talmente lontano e inospitale, ma che proprio non poteva estirpare dalle profondità della sua anima.

Pazzia?

Per quanto si sforzasse, pur mettendovi la volontà, il desiderio, l’amore, la ragione, non era in grado di allontanare quell’algido ricordo, accogliendo dentro di sé il ben più ospitare luogo che ora la abbracciava. La città che l’aveva accolta e a cui erano legati ricordi ben migliori di quelli passati; la città della madre, quella madre di cui non ricordava neppure più il viso e per cui non poteva provare alcunchè. Aveva aspirato al calore per così tanti anni, lo aveva bramato disperatamente, follemente, tanto da toglierle il respiro, ma adesso che la circodava ne era soffocata. In gabbia.

Voltò la testa di lato e lo guardò. Lui che rappresentava tutto e al contempo la costringeva in quel luogo così sconfortante.
Anche lui la guardò e le sorrise con la sua solita, inspiegabile, gentilezza.  Quell’espressione a cui spesso stentava a dare un senso, in qualche modo alleviò il peso che sentiva sul cuore, dandole l’impressione, soltanto l’illusione, sarebbe riuscita a sopportare di essere così irrimediabilmente, disperatamente lontana da casa. Eppure qualcosa che non riusciva bene a definire l’aveva spinta ad abbandonare le poche cose che le davano sicurezza, quelle che riusciva a controllare ed erano per lei indispensabili. Possibile che una persona del genere, qualcuno che non aveva nulla oltre l’ordinarietà che mostrava, potesse riuscire a scardinare in maniera tanto radicale tutto ciò su cui si fondava la sua intera esistenza? Domande vane, domande vuote si agitavano nella sua testa come pallidi spettri all’instancabile ricerca di qualcosa che neppure loro conoscevano.

Una persona comune. Il mondo era pieno di persone, di uomini come lui. Nessun altro però sarebbe riuscito a spingerla a tali rinunce, destabilizzando quel precario, inesistente equilibrio che si illudeva la sua vita avesse.

Lentamente, tanto lentamente da darle quasi l’impressione di non starsi muovendo affatto, gli si avvicinò e chinandosi appena, appoggiò un dito sulla guancia di lui. Era calda.

Amava quel calore.

Era incantevole.

Quando lui alzò la mano per toccarla però si sottrasse a quel contatto, ritraendosi appena in tempo. Quello non era il momento, ora stava ancora ricordando.

Uscì dalla stanza e chiuse gli occhi immergendosi nel freddo invernale che invadeva il corridoio, al di fuori del locale caldo e soffocante. Iniziò a percorrerlo avvolta nelle tenebre delle sue palpebre, alzò il viso verso l’alto e allargò le braccia. Lo sentì.

Il vento gelido di casa, la neve ghiacciata che le accarezzava le guance, sciogliendosi al contatto con esse, scivolando inesorabilmente verso il suolo e trasformandosi in ingannevoli lacrime. Quella era stata la sua vita, ciò che l’aveva accompagnata nella quotidianità dei suoi giorni passati.

Arrivata in fondo al corridoio, si fermò istintivamente, proprio prima della scala. Conosceva a memoria quel luogo. La discese e meccanicamente si avviò verso l’esterno della casa. Uscì.

L’aria fresca la stava accarezzando gentilmente, non con rude violenza come ricordava. Guardò il cielo grigio, cupo e ostile di Dicembre, le nuvole che correvano lontanissime solcandolo come vascelli informi, accompagnate da solitari e temerari uccelli sconosciuti.

È lo stesso cielo.

Lo stesso che aveva guardato da bambina, lo stesso che i suoi occhi le avevano mostrato attraverso la liquida barriera delle lacrime. Quei giorni così distanti, anche se ancora vividi.

Era come tornare indietro nel tempo, ripotrata a una realtà che di colpo si rese conto di non voler rivivere. Casa cosa voleva dire? E quel luogo così caldo e inadatto a lei cosa significava?
Odiava il caldo. Ma odiava ancor di più la parola casa.
Si voltò per lanciare una rapida occhiata alla finestra del secondo piano, l’unica da cui si propagava una lieve luce gialla. Quindi tornò ad osservare il cielo.

Un leggero e impalpabile fiocco di neve volteggiò elegante, come una ballerina congelata, verso il suo viso. Si depositò lieve come un soffio sul suo naso, evaporando al contatto con la pelle.

Sorrise.

-Che buffo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ciao a tutti!
Prima di tutto vorrei fare un piccolo chiarimento sul titolo. Hiraeth è una parola gaelica che significa sostanzialmente nostalgia, nello specifico dovrebbe indicare la nostalgia della terra natia. Tempo fa girando su Facebook avevo trovato una definizione (presa dalla pagina “I like bears, because they eat people”) che si adattava molto alla mia storia: “ nostalgia di casa, per una casa alla quale non si può far ritorno, una casa che forse non lo è mai stata; nostalgia, desiderio, il dolore per i posti persi del proprio passato”.
Detto questo…beh, è un sacco di tempo (sei anni) che non pubblico una mia storia e ammetto di essere parecchio nervosa,quindi…spero vi piaccia questa mia piccola One-Shot e siate clementi! E’ quasi come se stessi pubblicando la mia prima fic, nonostante non abbia mai smesso di scrivere >_<
 
Cecilia
  
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