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Autore: _maya96_    13/12/2012    1 recensioni
Era accaduto tutto così velocemente, neanche mi ero resa conto di cosa fosse realmente successo. Una serie di immagini sfocate, a cui cercai di dare un senso, mi trapassò la mente, mentre chiudevo gli occhi, forse per l’ultima volta.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Klaus, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parte 1                                                                                                

-Broken Rose- 

-Rosa Spezzata-
 
 
“Silenziosa, la vita tesse le sue trame. Sento il suono dei fili che creano tele di strani colori; si avvicinano eventi che non posso che intuire.”
 
Gioconda Belli -La Donna Abitata-

 
 
So essere silenzioso, silenziosissimo.
Ho imparato che la fretta è nemica del silenzio e ora più che mai devo restare tranquillo, il più minimo rumore potrebbe mandare tutto all’aria e io non me lo posso permettere.
Avanzo nell’oscurità senza produrre alcuno strepito, cercando di far rimare intatta la quiete intorno a me, mentre l’unica cosa che odo nell’aria e il fruscio del vento, che s’imbatte sulle fragili fronde di un bosco senza nome.
 

* * * *

 
Il tuo sangue ha un profumo così…dolce.
Buio.
Intorno a me c’era solo buio. Neanche un minimo spiraglio di luce riusciva ad oltrepassare quelle finestre maledettamente sprangate di una casa che ormai non potevo più definire mia. Le tenebre erano calate all’improvviso e l’oscurità mi stava scivolando addosso.
Avevo freddo.
Un freddo simile a quello polare, che mi congelava all’interno, ghiacciandomi ogni singolo nervo del corpo, ogni singola vena con il sangue zampillante all’interno, mentre quel buio ancora mi avvolgeva con la sua pesante coperta.
Quelle parole pronunciate con tale agonia, con quella sofferenza paragonabile a quella della morte, mi si soffermarono crudeli nella mente.
Riuscivo solo a immaginare quanto tormentato potesse essere il suo animo. Quell’avido lembo di vita corroso dai peccati che commettiamo, ma il mio al contrario delle sue parole, non era puro, era macchiato di rosso, di quel rosso che condanna all’epilogo.
Ma lui come poteva capire? Non conosceva la mia storia, non conosceva le mie colpe, con quale criterio poteva definire la purezza della mia anima, la limpidezza del mio essere e con quale mezzo pretendeva di conoscere le mie scelte e cosa si celasse nel luogo più profondo del mio cuore?
Dalla prima volta che l’ho incontrato, ho sempre pensato che lui fosse diverso. L’avevo capito dal suo sguardo. Quegli occhi così magnetici, diversi da chiunque, così calcolati, scaltri e crudeli, ma allo stesso tempo così affascinanti e seducenti da essere difficile resistergli.
Così giovane, sebbene mostrasse qualche anno in più di me, ma era come se quegli occhi si fossero aperti in così tante ere, in così tanti anni da conoscere i segreti più oscuri ed effimeri dell’Universo, forse perché era lui stesso il suo segreto più tetro.
Klaus era enigmatico e mi rendeva impossibile cercare di capirlo. Aveva quella fredda indifferenza impenetrabile come uno scudo, che protegge da un oscuro presagio. Un’ampolla di cristallo così rara e preziosa da poter nascondere solo il demone più temibile dell’inferno.
Il suo invidiabile carisma riusciva a nasconderlo, ma io ormai ero sicura che lui non fosse come me. Era diverso, non sapevo come, ma lo era. Diverso da chiunque abbia mai incontrato e una tale diversità spaventa.
Era veloce e forte, era deciso e incredibilmente scaltro e astuto, come se fosse a conoscenza di tutto prima ancora che accada. Ma quello che temevo di più era la sua debolezza, quel suo aspetto mostrato alla vista del mio sangue. L’odiava a tal punto da star male, ma lo bramava con la stessa intensità di chi non può vivere senza.
Tutto ciò non poteva essere reale. Non esistono i mostri, esistono solo creature che ci fanno paura perché siamo noi a volerlo, perché ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di qualcuno da temere, di cui essere confusi e per cui versare le proprie lacrime solo per ricordarci che da qualche parte là fuori c’è qualcosa di meglio. Ma l’emozione che mi legava a Klaus non era solo la paura, ma era molto più profonda e radicata di questa.
Klaus era un segreto, quei segreti all’apparenza così nobili, che invogliano a scoprirli, a cercali, come se fosse una nuova meta da raggiungere nella vita. Ti attraggono e ti uccidono al tempo stesso, come la spina fa con la rosa. Come se fossero l’unica ragione di vita rimasta, ma una volta scoperta quella ti conduce nell’abisso della disperazione.
Klaus era la mia incomprensione che mi dominava e da cui non riuscivo a fuggire. Così perversa e disdicevole che non mi dava altra scelta che continuare a cercarlo, a volerlo, a desiderarlo, come se quello sguardo m’inducesse a farlo, a commettere quegli errori, quegli innumerevoli sbagli da cui poi non avrei potuto più tirarmi indietro.
Sono solo un’altra persona da cui dover fuggire.
Forse stavo cominciando a capire. Forse avevo iniziato a pormi quelle domande insensate e da cui non potevo ancora trarre risposta, ma tutto mi conduceva ad un'unica ed insensata conclusione, ad un qualcosa che avevo addirittura paura a pronunciare.
No.
Non era possibile. Quelle creature orribili e malvagie esistevano solo nei libri e nelle storie che si raccontavano per far star buoni i bambini, nulla di tutto ciò poteva essere vero. Ero una stupida anche solo a pensarlo, doveva esserci una spiegazione logica, ne ero sicura.
Presi tremante il cellulare tra le mani e rilessi ancora quelle parole scritte con tale cattiveria.
Starò a guardare come la tua vita cade a pezzi.
Il numero era sconosciuto, ma avevo l’impressione che fosse stato scritto dalla stessa mano, che mi aveva mandato l’altro messaggio anonimo il giorno dell’incidente nella macchina di Scott e forse anche la stessa che aveva preso la mia mano per osservarne la ferita intrisa di sangue.
Klaus.
Tremai quando sentii il suo nome formarsi nella mia mente, come un avido sussulto che mi raggelava il cuore. Non riuscivo a smettere di pensarlo, non riuscivo a porre un termine a quei pensieri che ormai divoravano anche i miei sogni.
Malgrado sapessi che fosse uno sbaglio non riuscivo a trovare una ragione per stargli lontano, mentre ne trovavo mille per continuare a cercarlo. Forse volevo quelle risposte che ormai mi ponevo da troppo tempo, quelle che non mi facevano dormire oppure soltanto perché quegli occhi mi avevano catturata. Quegli occhi troppo lucenti per essere umani e tanto perfetti da sembrare divini.
Ma ogni volta che lo vedevo portava solo paura e sofferenza al mio cuore, come se fosse al contempo un veleno mortale e la mia unica medicina. Riusciva ad uccidermi solo se la prendevo, ma attraverso quel dolore e quella pena sarei riuscita a guarire. L’uno dipendeva dall’altro. Uno esisteva perché era l’altro ad esistere, come due anime che si completano a vicenda. Il nero che si mischia con il bianco nel cerchio perfetto della vita.
Forse mi piaceva soffrire, forse perché in tutti quei mesi non avevo provato altro che sofferenza. Forse perché è proprio nella nostra natura. Perché senza dolore non ci sentiremmo reali, non saremmo vivi. L’uomo è masochista, per tutta la vita continua a farsi del male, ma solo perché si accorge di quanto sia meraviglioso in quell’unico istante in cui smette di farlo.
Klaus era la mia inquietudine, ma anche ciò che mi dava una ragione a continuare.
I miei genitori erano morti. Mi avevano lasciata a soli sedici anni e vivevo in una città sperduta, isolata dal mondo, con i miei zii che già avevano la loro vita e io ero piombata nella loro senza nemmeno un permesso.
Klaus aveva dei segreti con la mia famiglia e con il suo vero essere. Anche se non riuscivo a capire cosa nascondesse, ero convinta che sapesse più di quanto volesse mostrare. Forse se avessi scoperto il suo legame con me e con i miei genitori, in qualche modo, sarei riuscita a farli tornare, a ridarli quell’esistenza di cui li avevo privati. Li avrei sentiti di nuovo vivi.
Io avevo bisogno di Klaus. Attraverso lui, avrei ritrovato me stessa.
Avrei scoperto cosa nascondeva a tutti i costi, cosa si celava in quelle profonde iridi che talvolta sfioravano il nero e sotterravano quell’azzurro di cui erano state dipinte da un pittore crudele, perché erano dolorosamente stupende, ma altrettanto malvagie. Sarei riuscita a farlo, nonostante mi avesse ferito.
Mi strinsi forte le ginocchia al petto appoggiandovi il capo chino in ascolto del silenzio attorno a me.
Il silenzio. Quel rumore invisibile che mi stringeva in un nodo soffocante, mentre quell’aria era ancora velata dall’odore di chiuso, che albeggiava in quella stanza.
La testa era afflitta dal dolore dell’incomprensione, uno dei peggiori che possa esistere, perché non ti avverte, arriva senza dir nulla, e senza una spiegazione non riusciamo a trovare il modo per guarirla.
Molti non sanno che l’occhio umano ha un punto cieco nel campo visivo, che nasconde quella parte del mondo che ci è completamente oscura e a volte il punto cieco annebbia cose che non dovremmo ignorare e forse quando arriva nelle nostre vite…forse ci sta solo proteggendo. Ma allora non potevo comprenderlo.
Non potevo sapere quanto empio e spietato potesse essere il suo animo, se mai lo avesse avuto. Era crudele, malvagio, sadico ed effimero, ma mai avrei immaginato che tutto questo fosse già calcolato. Sapeva le mosse che doveva fare, le mosse che tutti noi dovevamo fare ancor prima che si presentasse l’occasione. Tutti noi ci muovevamo ignari, come inutili pedine nella sua immensa scacchiera, attendendo la fine di una partita di cui non conoscevamo nemmeno le regole.
Non aveva nemmeno un tratto di umanità nel suo viso perfetto, delineato a volte dai tratti della follia. Ma la cosa peggiore era che tutto questo, in qualche modo, m’incuriosiva. Forse perché non c’è cosa più affascinante della paura.
Mi alzai barcollando, radunai quei brandelli di pensieri che ormai non avevano più un senso e uscii correndo da quella casa che odorava di ricordi.
Scappai da quell’oscurità che mi aveva annebbiato la mente. Scappai dal mio punto cieco, da quell’ombra mortale che mi aveva avvolto, per fuggire nella luce, ma ciò nonostante sentivo che lei era ancora lì, che quella mia ombra non mi avrebbe mai abbandonato.
Ogni persona al mondo possiede un’ombra, una nube nera di paure e dubbi che ci segue, nascondendosi tra la gente. Possiamo fingere che non esista, pensando che prima o poi lei possa andarsene, ma alla fine non si riesce mai a sfuggirle. L’unico modo per liberarsi è spegnere la luce, smettere di scappare e affrontare le nostre paure, anche se è tremendamente difficile.
 

* * * *

 
La fredda luce di una luna troppo lontana filtra fra i rami secchi di quegli alberi maestosi, delineati da ombre di luce calcabili con la gelida oscurità intorno al mio immobile corpo.
L’unico suono percepibile sono miei respiri affannosi e il battito incessante del mio cuore che sovrasta il lamentoso gorgoglio di un ruscello nelle vicinanze.
La paura potrebbe tradirmi e in questo caso anche arrivare ad uccidermi, ma non avrei fallito, non questa volta che ero così vicino.
 

* * * *

 
Camminai lentamente su quel terreno arido, congelato dal freddo che aveva divorato ogni singolo filo d’erba che sorgeva greve nel crepuscolo, inondando di solitudine la loro breve esistenza in ciò che era un luogo di pianto.
Il soffio pungente del vento mi penetrò fin sotto i vestiti, facendomi rabbrividire la pelle e i pochi pensieri che ancora incombevano loquaci dentro di me, mentre mi dirigevo silenziosa tra quelle lapidi di pietra in cui si celavano solo dei nomi sconosciuti.
Ero da sola.
Nessun’anima viva spezzava con il suo respiro quell’aria gelida, che mi avvolgeva con il suo torpore di inizio inverno. Presto la neve avrebbe ricoperto di bianco ogni cosa, nascondendo nel suo candore quei pallidi volti sconosciuti che si ergevano indifferenti, ignorando di trovarsi in delle squallide gabbie di marmo.
L’invidiavo.
Così felici e spensierati, con quei sorrisi di chi ha avuto una vita perfetta e ora, nella morte, è riuscito comunque a mantenere quella serenità appagata, che li aveva accolti nel loro ultimo respiro, in un esistenza che probabilmente, esclusi i loro cari, nessuno si sarebbe mai più ricordato.
Mentre io ero qui a guardarli, a guardare di come veramente la mia vita stava cadendo a pezzi, a vedere i loro sorrisi e ad ascoltare le mie lacrime.
Mi veniva rabbia a pensare come la morte non provocasse sofferenza all’uomo che portava via, ma alle centinaia che invece, come me, restavano qui.
Ho sempre creduto che il dolore causato dalla scomparsa di una persona fosse tremendo, ed è così ma non per lei, per noi che restiamo soli, che siamo privati della sua compagnia, di ciò che sembrava scontato in principio, ma ora invece non si riesce a trovare una sola ragione per sopravviverci.
Quando si perde qualcuno quella persona ti rimane dentro, diventa parte di te e separarti da lei significherebbe separarti da parte del tuo corpo. Si diventerebbe incompleti e ogni persona che muore a noi cara diventa una nostra breve morte e il suo ultimo respiro diventa anche nostro. Come se i legami che ci uniscono in vita fossero indissolubili e nonostante la morte continuassero a stringersi come nastri senza logica e senza tempo, perché ci sono dei legami che sono semplicemente destinati ad essere e non per forza ad esistere.
Per questo non ci si abitua mai la morte, sebbene faccia parte di noi.  Tutti noi nasciamo per vivere, viviamo per morire e se così non fosse non troveremmo mai della vita il suo significato.
Se la morte non fosse la fine su cosa al mondo si potrebbe contare?
Ogni istante che viviamo, ogni respiro che esaliamo è un passo che ci porta da lei. Ogni singola ferita che ci procuriamo è fondamentale per la nostra crescita, ma se il fine fosse solo la morte non varrebbe la pena nemmeno vivere, per questo bisogna assaporare ogni istante che la vita ha da offrire per poi riuscire a sorridere quel giorno, come i volti di quelle persone intrappolati in quelle lastre di pietra, che si ergevano imponenti e lineari dal terreno spoglio, davanti ai miei occhi.
Tutto in quel luogo sembrava privo di vita. L’unica eccezione era il biancore di quei fiori che tenevo stretta in mano. La purezza del candore della vita in mezzo ad un luogo apparentemente buio e desolato.
Così fragili e delicati, era strano pensare come degli innocui iris potessero sopravvivere in un luogo del genere, dove per secoli centinaia di vite si fossero spente e ora quei minuscoli petali profumassero quell’aria, che si era di colpo appesantita.
Li lascai cadere. Vidi come quel biancore scendeva veloce su quella lastra di pietra, nascondendo innocente quei due nomi scritti in stampatello, che si sporgevano verso l’alto, cercando il sole, come se avesse smesso di brillare.
Il mio sguardo cadde su una rosa appassita, sistemata vicino ai miei fiori. Dovevano averla lasciata i miei zii, ma non ricordavo fossero venuti ultimamente. Forse qualcuno che noi conoscevamo l’aveva lasciata, capitava spesso.
La gettai velocemente nel cestino e tornai svelta davanti a loro, quasi come se non volessi privarmi troppo tempo dei loro visi.
Scivolai sulle ginocchia fino a che mi accoccolai tra l’erba vicino alle loro foto e ascoltai quel dolce silenzio, immaginando che fosse colmato dalle loro voci.
Vorrei davvero che foste qui.
Quelle parole mi uscirono in un flebile sussurro, più rivolto a me che a loro, come se stessi cercando di convincermi, come se ingannassi me stessa, cercando di immaginare una vita differente, ma anche se facevo finta di ascoltare le mie bugie, non avrei mai potuto crederci fermamente, perché non avrei mai potuto vivere una vita diversa da questa.
La mia vita ormai era cambiata. In quel fugace istante in cui le loro vite si erano spezzate, la mia vita non era più la stessa. Noi dipendiamo dalle persone che ci stanno accanto e quando loro non ci sono più non ci resta altro che cercare di adattarsi a questo cambiamento. Dobbiamo crescere, a volte anche mentire, ma la verità è che più le cose cambiano, più rimangono le stesse e a volte cambiare resta l’unica cosa da fare.
Appoggiai i pugni per terra, desiderosa di quelle lacrime che avevano smesso di cadere e mi alzai lentamente davanti ai volti dei miei genitori racchiusi in quelle foto in rilievo su quella lapide.
“Non pensavo ti avrei più rivista”.
Mi fermai di colpo al suono di quelle parole pronunciate con quella voce familiare, quasi come se stessi cercando nel passato l’ultima volta in cui l’avevo sentita, anche se mi risultava difficile.
Mi voltai lentamente finché il cielo cupo venne occupato dal sua figura non tanto distante dalla mia. I suoi occhi scuri brillavano come diamanti e i suoi capelli castani erano mossi dal vento invisibile, che ci colpiva, sussurrando alle nostre orecchie canzoni incomprensibili.
“Mi sei mancata, Alba”.
“Ryan?”
Mi sorrise.
Era lui, era proprio davanti a me, come se tutto il tempo che ci aveva diviso fosse scomparso in un banale secondo, in un futile istante, che ci aveva fatto rincontrare.
Rimasi immobile a guardare il suo viso. La sua pelle diafana e il suo sguardo da bambino, su cui si ripiegavano delle chiare sopracciglia castane, così come lo ricordavo quando giocavamo da piccoli sull’altalena in cortile.
I suoi lineamenti dolci e la sua fronte ampia gli donavano quella bellezza semplice di cui solo i vinti sono capaci, quella limpidezza e quella solitudine perfetta di ciò che si è perduto e solo dopo tanto tempo ritrovato.
Rimasi in silenzio.
Nella vita si verificano delle sparizioni, i dolori diventano illusione, il sangue smette di scorrere e la gente scompare. Avevo molte cose da dirgli, così tante, ma forse erano anch’esse scomparse.
Ero immobile nel più completo silenzio, non sapendo nemmeno cosa provare in quel momento. Gioia, stupore o forse semplicemente nulla, ma molte volte le sensazioni più crudeli si nascondono nel nulla.
Rimasi impassibile quando lui mi strinse tra le braccia, così forte che quasi mi bloccò il respiro. Affondò la testa tra i miei capelli e tra i boccoli scuri nascose il suo sguardo in cui ero sempre riuscita a leggere tutto.
Appoggiai la testa sulla sua spalla e ricambiai timida l’abbraccio. Più di una volta avevo pensato di rivederlo, ma forse la mia reazione non l’avevo prevista.
A volte è destino che due persone si trovino, che si rincontrino dopo tanto tempo, forse perché è scritto, forse perché deve semplicemente accadere, come due treni che percorrono un breve tratto insieme e poi si separano per sempre, ma noi ci eravamo ritrovati, il destino aveva rimescolato le carte, ma forse ora il sentimento che ci legava non era più lo stesso e anche se qualcosa ci sembra importante dal tenerlo stretto al cuore, alcuni frammenti si perdono inesorabilmente.
Lo guardai, guardai il volto di quel ragazzo, luminoso come il sole in piena estate. Guardai le sue labbra piene dal colore chiaro in contrasto con la carnagione olivastra. Guardai  quell’unico amico che avessi mai avuto e l’unica persona che avessi mai amato, ma nonostante ci provassi con tutta me stessa non riuscivo più a vederlo come tale, qualcosa in noi era cambiato e anche quando poggiò delicato le labbra sulle mie e sentii quel profumo di rose che troppe volte avevo provato, non riuscii nemmeno a chiudere gli occhi.
Rimasi immobile davanti a lui, ma non provai forse nulla. L’avevo amato, mi aveva ferita e dopo non l’avevo più visto. Il tempo riesce anche a cambiare i sentimenti delle volte.
Quel dolce bacio era solo un amaro ricordo di un qualcosa che era stato. Il legame che ci univa era cambiato, ma nulla avrebbe mai potuto cancellare tutto ciò che avevamo vissuto, mentre quel pallido sole, nascosto dietro quelle cupe nubi disegnava astratto le nostre ombre, racchiuse in un'unica macchia scura sul terreno.
 

* * * *

 
“Tu credi che possa toccarlo?”
Spostai il viso verso Ryan, smuovendo i capelli dagli occhi per vederlo meglio e gli porsi quella domanda, forse un po’ troppo banale.
“Cosa Alba?”  Mi chiese lui con il viso nascosto dai fili d’erba di quel prato su cui ci eravamo sdraiati.
Rivolsi lo sguardo al cielo e indicai con la mia minuta mano quella sfera d’oro, chiudendo gli occhi per il troppo bagliore.
“Il sole Ryan” risposi sorridendo. “Credi che scotti?”
Lo sentii ridere. Una risata che colorava l’aria fresca di febbraio intorno a noi. Era davvero bello vederlo felice, con quel dolce suono di un sorriso che si espandeva nel vento fino ad arrivare alle alte nubi nel cielo azzurro.
Lo guardai di sfuggita e con gli occhi carichi di allegria, aspettando la sua risposta che credevo racchiudesse ogni singola certezza del mondo. Aveva undici anni, tre in più di me e ogni cosa che diceva in quel periodo era una piccola perla che scendeva lucente dal cielo, come i fiocchi di neve sciolti dal sole qualche giorno fa.
“Perché vorresti toccarlo?” Mi chiese, spostandomi delicatamente un boccolo, che era scivolato dalla crocchia che mi legava stretta i capelli.
“Perché è così bello e se lo facessi riuscirei a volare” risposi sorridendo e tornando a guardare il cielo che si stagliava immenso dinnanzi ai miei occhi. “Non hai mai desiderato volare?”
“Che assurdità.” Il suo tono si fece più freddo, quasi come se avessi detto qualcosa di sbagliato. “L’uomo non è fatto per volare, quindi desiderarlo è solo una perdita di tempo”.
Rimasi ferita dalle sue parole. Come poteva non aver mai sognato di farlo? Come riusciva a parlare di un qualcosa di così bello con quel tono distaccato e indifferente?
“I sogni non sono reali” concluse sedendosi sul prato ancora freddo per la neve appena sciolta, senza guardarmi neanche negli occhi, ma lasciando lo sguardo in un luogo indefinito al di là del tramonto.
Un sussulto mi si spezzò in gola. Non poteva dire sul serio, questa volta non poteva dire la verità, ero certa che stesse mentendo.
“Sei solo un bugiardo, io non ti credo” urlai io, alzandomi da quel prato e scappando lontano da lui, dalla parte opposta su cui si era soffermato il suo dolce sguardo, delineato da un qualcosa simile alla malinconia.
Perché si comportava così? Perché doveva dirmi quelle cose?
Corsi per qualche minuto, cercando di non inciampare nel mio largo vestito blu, che avevo indossato per il Carnevale di questo pomeriggio a Port Angeles.
Avrei dovuto partire tra qualche ora, ma avevo deciso lo stesso di indossarlo, perché speravo potesse piacergli, ma anche questa volta si era arrabbiato con me senza un motivo ben preciso.
Poteva davvero odiarmi così tanto?
Giunsi ad un piccolo albero di arancio vicino all’entrata nascosta del cimitero e mi sedetti tra l’erba fresca e ancora umida, incominciando a piangere, triste del fatto che i miei sogni non fossero reali.
“Ti ho trovata finalmente”.
Una voce gentile e dispiaciuta tagliò l’aria intorno a me. Mi voltai di scatto e trovai Ryan che si stava sedendo accanto allo spesso tronco dell’arancio.
“Vattene!”
Si avvicinò ancor di più, non ascoltando le mie parole calcate dalla rabbia. Mi prese una mano e me la strinse forte, chiudendomela.
Sentii un qualcosa all’interno, come se mi avesse lasciato un oggetto, l’aprii e trovai una piccola pietra dal pallido colore rosa a forma di cuore.
“Mi dispiace, non avrei dovuto dirti quelle cose” mi disse distraendomi da quel sasso  stupendo. “Non volevo soltanto che tu credessi in qualcosa d’impossibile se no ci saresti rimasta male”.
Rimasi senza fiato davanti alle sue parole, davanti a quel ragazzo con gli occhi da bambino, ma che parlava come un adulto. Forse lui non aveva sogni, forse soltanto non ci credeva, ma era triste pensarlo.
Poteva davvero una persona essere priva di sogni. Senza quell’unica cosa in grado di dare alla vita un proprio colore?
Un’esistenza senza sogni non può essere degna di essere vissuta.
“Anche se non sono reali, preferisco credere a loro”.
“Perché?” Ryan mi guardò stupito della mia affermazione e cercò nei miei occhi una risposta alla sua domanda.
Spostai lo sguardo verso quelle lapidi senza nome al di là di un recinto arrugginito e tra gli alti fili d’erba vidi dei piccoli fiori appena nati, dopo un lungo periodo di neve, come se avessero sconfitto, con il loro candore, quel gelido inverno.
“Perché io non entrerei mai in un giardino senza nemmeno una rosa”.
 

* * * *

 
“Ryan” dissi con voce strozzata allontanandomi da lui.
Quello che era successo non sarebbe dovuto accadere, ma mi risultò strano pensare a tutto il tempo nel quale avevo desiderato le sue labbra, cercato le sue iridi scure da bambino nel quale potessi specchiarmi e ammirare attraverso lui, ciò che invece ero io. Come se la mia anima potesse riflettersi attraverso i suoi occhi.
Due vite che si univano in una allo sciogliersi di uno stesso sguardo.
Questo avevo sempre pensato, nonostante lui molte volte fosse freddo e distaccato con me. Non sapevo la ragione per cui ogni tanto si comportasse in quel modo, ma nonostante tutto l’avevo amato e credevo che l’avrei fatto per sempre, ma forse mi sbagliavo.
“Mi dispiace” mi disse, facendo un passo indietro. “Non avrei dovuto”.
“Non è nulla”.
I nostri occhi s’incrociarono, ma altrettanto velocemente tornarono ad ignorarsi. Dopo quello che era successo oggi con Klaus, non avevo voglia di parlare con nessuno, anche se rivederlo mi provocò una strana felicità.
“Ti ho cercata” asserì lui, distraendomi dai miei pensieri, questa volta con lo stesso tono di quando giocavamo a nascondino in cortile.
“Mi sono trasferita” gli dissi.
“Lo so” fu la sua risposta. Non mi disse il perché non mi aveva cercata, forse anche lui non aveva voglia di parlare.
Così rimanemmo entrambi in silenzio. Un silenzio un po’ imbarazzante, in contrasto con tutti quei giorni in cui non ci parlavamo neanche, ma rimanevamo fermi nel buio e solo i nostri respiri affannosi spezzavano l’aria intorno a noi, distruggendo la quiete creata in un luogo che forse neanche esisteva.
Poi lo vidi voltarsi, tenendo stretto in mano una rosa, che prima non avevo notato. Camminò lentamente, allontanandosi poco da me per poi piegarsi sulle ginocchia e lasciarla cadere nell’aria, mentre quella si abbandonò leggiadra sulla superfice fredda di quella lapide in pietra, accanto al candore del mio iris, proprio come quella appassita che avevo trovato poco prima.
“Da quanto tempo vieni qui?”
Doveva essere stato lui a lasciarla, forse durante tutti questi mesi aveva continuato a farli visita, mentre io non ero riuscita nemmeno a mantenere la mia promessa, ma non era necessario che lo facesse, non doveva sentirsi in obbligo.
“Da un po’” mi rispose sfiorando i miei iris bianchi come quel delicato tocco di quando mi aveva spostato i capelli dal viso quel giorno di tanto tempo fa.
“Non devi per forza lasciarli tutte le volte” gli dissi alludendo ai fiori. “Non ce n’è bisogno”.
Lui alzò lo sguardò dritto ai miei occhi. Quegli occhi infantili di un ragazzo cresciuto troppo in fretta, che parlava come un adulto. Come un adulto triste vissuto senza sogni e con la stessa voce di una volta mi parlò, nel modo in cui si parla ad una bambina, che ancora non riesce a comprendere il mondo.
“Io non entrerei mai in un giardino senza nemmeno una rosa”.
 

* * * *

 
Il mio respiro pesa grave su quegli attimi privi di tempo, mentre esce rapido ed effimero dalla mia bocca socchiusa in un debole grido senza voce.
Il freddo comincia a farsi sentire.
Mi sfrego le mani in quell’inerte oscurità, abbandonato dal desiderio di trovarmi davanti ad un qualcosa di caldo, ma rimuovo veloce quel pensiero. Adesso non posso permettermi distrazioni.
Devo rimanere nascosto, se voglio che il piano funzioni. Non è ancora arrivato il momento.
 
 

* * * *

 
“Alba puoi portarmi Joseph? Ti devo far vedere una cosa”.
La calma voce di mia zia mi distolse da una falsa lettura di un libro di cui non ricordavo nemmeno il titolo.
Mi alzai dal divano e lo riposi accurata sul tavolo, senza ricordarmi a quale pagina fossi arrivata.
Non riuscivo a concentrarmi, non riuscivo a distogliere i pensieri da tutti quegli eventi che stavano accadendo ultimamente. Avevo appena rincontrato Ryan dopo quasi un anno che non lo vedevo e di lui non sapevo neanche se avesse conservato ancora il suo nome.
È triste pensare a come una persona possa essere così importante, ma come dalla tua vita possa sparire per sempre.
Mi sfiorai delicatamente le labbra senza però riuscire a ricordarmi le forti sensazioni di cui ero afflitta quando stavo con lui, come se tutto quello che avevamo vissuto fosse sparito e nello stesso istante in cui ci eravamo rincontrati si fosse dissolto per sempre. Forse era quello che mi serviva per poter andare avanti.
Andare avanti.
Ultimamente lo dicevo spesso, senza però crederci realmente. Lo sussurravo a bassa voce, quando non c’era nessuno, come se in questo modo fosse più rassicurante, ma se lo dici a te stessa, cercando di convincerti, fai l’esatto contrario.
Presi tra le braccia Joseph dalla sua culla, mentre le sue fragili mani mi afferrarono un boccolo ribelle, intrecciandolo giocosamente tra le sue minute dita.
“Eccoci qui” dissi con una voce innaturale, cercando di far ridere il bambino, mentre facendo una mezza capovolta lo affidavo tra le braccia di zia Mary. “Cosa dovete farmi vedere?”
“Guarda” rispose lei mettendolo dolcemente a terra e sorreggendolo tra le braccia.
Ci volle un po’ prima che Joseph assunse una posizione eretta e salda da poter permettere a mia zia di lasciare le sue mani.
Rimasi a bocca aperta quando lo vidi compiere il primo passo incerto, verso una meta che forse nella sua testa neanche esisteva.
Un sorriso spontaneo mi si dipinse sulle labbra, guardando quel bambino innocente, che per la prima volta in vita sua camminava nel mondo, tracciando con quei suoi piccoli passi il suo lungo cammino.
Distesi le braccia davanti e lui mi venne incontro, traballando con estrema incertezza verso me, che forse per la prima volta trasmettevo sicurezza.
Perse l’equilibrio e il suo piccolo corpicino venne avvolto dalle mie braccia, che attutirono le sua leggera caduta.
“Sei bravissimo” dissi io alzandolo di peso, facendolo girare su se stesso, mentre le sue affabili risa riempivano l’aria.
Era davvero bello sentirlo ridere. Come un piccolo fascio di luce che colmava con la sua innocenza quello spazio d’inquietudine, che mi stava divorando.
Zia Mary con un sorriso carico di gioia si fece avanti e prese il bambino tra le braccia, ascoltando i suoi incomprensibili sussulti.
“Ho sentito che c’è una festa questa sera in spiaggia” mi disse, attirando la mia attenzione dagli occhi verdi di quel dolce bambino biondo. “Ci andrai?”
“Non credo” risposi decisa.
Non avevo alcuna voglia di prendere parte ad una festa, così simile a quella notte, che ancora mi seguiva come un’ombra, ricordandomi il prezzo del mio errore commesso.
“Secondo me dovresti andarci, così ti distrarrai un po’” continuò lei, guardandomi negli occhi, senza però mostrare alcun interesse. Forse non riusciva a capire il motivo per cui non ci andassi.
“Preferisco restare con voi” risposi, accarezzando dolcemente la guancia di Joseph. “E poi voglio vederlo camminare”.
“Per oggi ha già camminato abbastanza, deve farlo poco per volta” asserì lei. “Non preoccuparti, vai alla festa. Rimango io con lui.”
Restai in silenzio.
Perché voleva così tanto che ci andassi? Davvero non riusciva a comprendere? Ma se avessi insistito ancora avrebbe capito che in realtà non ero andata avanti per niente e tutto quello per cui avevo mentito sarebbe saltato fuori.
Non doveva capire che avevo paura di andarci, che tutto quello che avevo detto erano soltanto delle dannate bugie. Avrei mentito, ancora questa volta, aumentando quel muro di menzogne, che ormai ricopriva il sole.
“Va bene. Ci andrò.”
 

* * * *

 
La musica assordante di quella festa mi giunge avida all’orecchio e colpisce con il suo fragore i tronchi saldi di quel bosco, che come delle mani applaudono ad uno scadente concerto, creando una cassa armonica nella quale plasmo il mio rifugio. 
Mi sto avvicinando, forse anche troppo.
Devo aspettare che lui venga da me, questo è il patto. Nessuno ancora deve vedermi
 

* * * *

 
Un alito di vento mi soffiò leggiadro i capelli, smuovendo quelle leggere onde, lasciate libere di ricoprirmi l’intera schiena.
Mi strinsi in quell’elegante maglioncino, che copriva parte del mio vestito color crema, mentre quelle scarpe basse affondavano nella sabbia, formando quelle impronte, segno del mio passaggio.
Ormai ero qui, non aveva senso tornare indietro.
Una musica assordante mi trafisse ripetutamente i timpani e colpì fortemente l’interno del mio cuore, come se dovesse esplodere da un momento all’altro.
Forse zia Mary aveva ragione, forse facevo bene a distrarmi, invece di restare in casa a leggere vecchi libri, continuando a mentire che in realtà fosse tutto apposto.
Dovevo andare avanti. Dovevo introdurmi e non più solo fingere di farlo, perché forse ormai non ci credeva più nessuno.
Una coppia venne barcollando nella mia direzione, ma era troppo ubriaca per accorgersi di me. Mi spostai e li fece passare finché penetrarono nel bosco, nascondendosi tra i fitti alberi, dove occhi indiscreti non potessero vedere.
Senza farci caso mi avvicinai al luogo da cui provenivano delle voci, così forti da sovrastare il calmo fragore del mare, quel muro di suono che s’infrangeva cieco sulla sabbia, per poi ritornare nella sua culla infinita, dondolata dal dolce bisbiglio delle fragili onde.
Quella quiete soave che molte volte mi soffermavo ad ascoltare quando venivo a Port Angeles. Mi sedevo sulla spiaggia, ascoltando quell’urlo che riempiva il giorno e che divorava la notte.
Quell’unico silenzio che mi piaceva ascoltare e quell’unica confusione da cui non volevo fuggire. Ma forse per una volta dovevo smetterla di fuggire.
Mi avvicinai ancora e scorsi le innumerevoli persone che riempivano quella spiaggia forse troppo piccola, colorata dalle fiochi luci emanate dalle scintille di un falò al centro.
Un forte odore di fumo e birra mi sfiorò fastidioso le narici e tutte quelle voci, quei rumori, quella forte musica, che arrivavano a colpire anche il mio cuore, facendolo sussultare, si mischiarono avidamente le une con le altre, creando un’atmosfera che non riuscivo a sostenere.
Un’enorme e cupa ombra, da cui non riuscivo a fuggire.
La testa mi girava così forte da minacciare di farmi cadere a terra e quelle effimere immagini di una notte senza tempo mi trafissero la testa da parte a parte, come un affilato coltello, che tagliava affilato la carne, sporcandola di quel colore, che in quell’auto macchiava i loro volti e inibiva i loro sguardo.
Ogni cosa, tutto intorno a me assunse una tonalità scarlatta, raccontando la storia di uno sbaglio forse troppo crudele, di un qualcosa che non doveva succedere e ora io ero di nuovo qui, come se stessi ridendo in faccia alle loro tombe.
Non sarei dovuta venire.
Quella notte non era lontana, mi seguiva ancora crudele come uno spettro.
Mi voltai. Dovevo tornare indietro, prima che qualcuno si accorgesse di me, dovevo far finta di nulla e tornarmene a casa, anche se questo avrebbe smascherato tutte le bugie che avevo raccontato ai miei zii fino ad adesso.
“Sono contento che tu sia venuta”.
Quella dolce e calda voce riuscì per un attimo a riscaldare tutto il freddo e il buio che sentivo all’interno, come un lieve alito di vita, dopo essere sprofondata nel fondo dell’abisso più nero.
“Scott”.
Mi voltai, smascherando un sorriso che mi venne naturale allo sguardo del verde cristallino di quegli occhi, come quei mari troppo limpidi da possedere un semplice colore azzurro. Mentre quegli scuri capelli sembravano le possenti ali di un corvo, che volava indifferente tra le più oscure creature della notte.
“Si, alla fine ho cambiato idea” gli dissi guardandolo negli occhi , mentre le sue sottili labbra si tiravano verso l’alto, mostrando i suoi denti perfetti e quelle sue spesse ciglia si chiusero per un istante, accarezzando quelle iridi così pure.
“Ne sono contento” mi rispose, prendendomi per un braccio, accompagnandomi dagli altri alla festa.
Il giramento alla testa sembrava affievolito e per tutto quel breve tragitto in cui avevo camminato vicino a lui, il suo braccio, che teneva stretto il mio, sembrava un’ancora che m’impediva di ricadere in quel mare profondo, in cui già troppe volte avevo rischiato di annegare.
“Alba, allora sei venuta”. La voce squillante di Ally mi raggiunse da lontano.
Mi voltai e la vidi avanzare velocemente verso me, per poi stringermi fortemente tra le sue braccia. “Ti divertirai” mi disse.
Mi risultava difficile pensarlo. Era forse tanto che non mi divertivo e farlo ora non mi sembrava la cosa giusta da fare.
Se loro mi avessero vista probabilmente mi avrebbero odiato per una seconda volta.
Solo quello riuscivo a pensare. Di come non mi fosse bastato tutto ciò che avevo passato, di come la mia vita era crollata a pezzi e ora, invece di raccoglierli, continuavo a pestarli crudelmente a piedi nudi, rendendoli in brandelli e provocandomi sanguinose piaghe, che molto probabilmente non sarebbero mai scomparse.
Noi ci fidiamo di te, è solo che non ci fidiamo degli altri.
Quella frase, che ancora non mi aveva abbandonato, la sentì pronunciare dalle loro labbra e tutta quella cattiveria che avevo usato per risposta, non mi fece desiderare altro di poter morire.
Anche se paiono andarsene, i mostri non scompaiono mai per sempre.
Il mostro ero io e quindi non avrei mai potuto sconfiggerlo, non avrei mai potuto liberarmene. Il difficile non è vivere, ma convivere con se stessi per il resto della vita.
“Ti sei addormentata?”
Alzai lo sguardo, sentendo quella voce profonda, con un filo di ironia fastidiosa. “Forse è un po’ tardi, dovresti andare a dormire”,
Samantha.
I suoi capelli erano ancora più ricci di com’erano stamattina. Il suo provocante e scollato vestino nero e l’ elegante foulard dorato che indossava si abbinavano perfettamente al pesante e marcato trucco, che le risaltava gli occhi castani e la carnagione chiara.
“No sto bene, grazie per l’interessamento” risposi cercando di utilizzare il suo stesso sgradevole tono, ma forse non ci riuscii come avrei voluto, ma non lo diedi a vedere.
Lei sorrise ironicamente, scoprendo i suoi denti perfetti e il rosso innaturale delle labbra. Giocherellò con un suo boccolo ramato, che sembrava ancora più profondo vicino ai caldi colori del fuoco. “Figurati” mi disse. “È un piacere”.
Alzò poi il braccio e si portò alle labbra carnose una bottiglia quasi vuota di birra, della quale non riuscivo a leggere nemmeno la marca e la finì in un solo sorso.
Si avvicinò poi verso me e me la mise tra le mani, con gesto brusco. “Tieni! Vado a prenderne un’altra” mi disse, barcollando leggermente. “Questa festa è diventata improvvisamente noiosa”.
Non le dissi nulla, la lasciai andare con quella bottiglia in mano. Non potevo discutere con un’ubriaca, soprattutto non potevo discutere adesso, non con questa festa e con l’atmosfera così simile di quella notte, che mi stava distruggendo.
“Ignorala. È così che faccio io” mi disse Scott, inducendomi a voltarmi verso lui.
Il suo sguardo era così rasserenante, come se tutto quello che mi stava accadendo intorno non fosse minimamente paragonabile alla quiete che velava il suo sguardo, alla tranquillità e alla sicurezza che mi avvolgeva, quando mi si trovava accanto, come quel mare, che riusciva a colmare il giorno.
“Sì, fa così con tutti, non ne vale la pena” disse invece Ally, cercando di attirare l’attenzione su di lei.
Scott fece un passo verso di me, tagliando quell’ombra scura che ci divideva e il suo braccio dalla pelle diafana mi prese la bottiglia vuota, che ancora tenevo in mano e mi porse il suo bicchiere mezzo pieno, dove quel liquido dorato della birra si muoveva dolcemente tra quelle pareti di carta.
“Forse preferisci questo” mi disse, sorridendo scherzosamente e allontanandosi per andare a gettare quella bottiglia vuota.
Rimasi lì ferma a guardare quel freddo liquido che tenevo stretto tra le mani, per paura che fuggisse via.
“Vuoi berlo o continuare a guardarlo?” Mi disse Ally con un innaturale tono scherzoso.
Mi voltai di scatto verso lei. Mi ero dimenticata della sua presenza e dopo quello che mi aveva detto ci doveva sicuramente essere rimasta male.
“Ally…”
“No, è tutto okkey” m’interruppe, sorridendo e fingendo di stare bene, ma i suoi occhi l’ingannavano.
Dicono che ti accorgi di quando qualcuno mente, che dagli occhi riesci a capire se quello che dice è realmente la verità, forse per un presentimento, forse da un velo che avvolge lo sguardo o forse perché ormai lo riconoscevo. Si dipingeva ogni giorno sullo specchio, che rifletteva crudele la mia immagine, non poteva nasconderlo, non riuscivo a farlo nemmeno a me stessa.
La vidi voltarsi, incominciando a farsi spazio tra folla che ormai riempiva la spiaggia.
“Dove vai?” le chiesi, avvicinandomi, purché mi sentisse.
“Ho bisogno di bere, sono troppo sobria per questa festa” disse sparendo tra tutta quella gente e tra quei soffusi colori di una notte stellata.
 

* * * *

 
Sospiro e dalla mia bocca esce una nuvola bianca. La guardo disperdersi nell’aria fino a scomparire, per poi rifarlo di nuovo.
Tengo stretto nelle mani il telefono, aspettando quel messaggio. Quel messaggio anonimo che attendo ogni volta, quello che mi dirà ciò che devo fare o quello per cui ormai non sono più utile.
Allora lui dovrà farlo. Dovrà uccidermi, sapevo troppo sul suo conto.
Un segreto può essere mantenuto da due persone solo se una di queste è morta, questa è la realtà, ma non mi sarei opposto al mio fatale destino.
 

* * * *

 
Sentivo la sabbia entrare nelle mie scarpe basse e quel lieve fastidio mi costrinse a togliermele. Le riposi vicino ad un albero, per riprenderle prima di tornare a casa.
Diedi un primo sorso a quel bicchiere pieno di birra e il disegno delle mie labbra si dipinse su quelle pareti di carta.
Quel liquido dorato mi scese amaro per la gola e quel suo lieve pizzicore mi bruciò avido gli occhi.
Era la prima volta che bevevo dopo quella notte.
Preferirei morire, pur di non vedervi mai più.
Le mie parole pronunciate con tanto odio, con una voce così fredda e crudele che faticavo a riconoscerla, sebbene fosse la mia, mi comparvero di nuovo nella mia mente.
Quella frase così dannatamente effimera e meschina mi fece andare di traverso ciò che avevo appena bevuto.
Mi sentii un bruciore pervadere la gola, mentre tossivo, cercando di ritrovare l’ossigeno, ma c’era tanta gente in quella festa, troppa, non riuscivo a respirare, non riuscivo a trovare l’aria che mi serviva.
Preferirei morire, pur di non vedervi mai più.
Mi strinsi con la mano il collo dolorante, sentendo ormai i polmoni gridare. La folla mi comprimeva, mi schiacciava, mi chiudeva in un spazio che neanche esisteva.
Il bruciore aveva raggiunto gli occhi. Mi pizzicavano forte, così dannatamente forte, da farmi male, mentre delle gocce amare incominciarono a rigarmi le guance.
Preferirei morire, pur di non vedervi mai più.
Basta ti prego!
Mi tappai le orecchie per non sentire quelle parole, così crudeli, che non potevo aver pronunciato io. Ero stata una stupida, un’ignobile stupida, tutto quello che era successo fino ad adesso era successo per colpa mia.
La mia intera esistenza non ha portato altro che dolore alle persone che amavo e ora tutto questo me lo meritavo.
Aprii la bocca in cerca di quell’aria, di quella fredda aria che ormai pareva aver smesso di circondarmi.
Preferirei morire, pur di non vedervi mai più.
Quel sibilo mi soffiava dentro le orecchie e aveva sovrastato il forte rumore della musica. La testa mi girava così forte, un dolore così aspro, che lo sentivo graffiarmi le fragili membra.
La gente mi sopprimeva, mi soffocava e quel buio non faceva altro che avvolgermi.
Basta, smettila!
Non riuscivo a fermarmi. Le mie lacrime, quell’ignobile aria era troppo lontana, quella musica mi pulsava nel cuore. Volevo tornare a casa, volevo soltanto tornare a casa.
Preferirei morire, pur di non vedervi mai più.
Ti prego smettila!
Sei sono un mostro. Tu gli hai uccisi.
No, non è vero. Basta!
Meriti di soffrire.
Basta ti prego. Basta!
Il rumore di quella macchina, che opprimente si abbatteva al suolo. Il suono di quei finestrini rotti e dei tagli che mi procuravano sulla pelle quegli affilati frammenti di vetro. Le nostre urla. Ogni cosa, ogni singola dannata cosa di quella maledettissima notte mi tornò in mente. Come un’ombra sinistra che mi risiedeva accanto e qualche volta veniva a farmi visita, tramutata in ricordo.
Feci un passo indietro, cercando di allontanarmi da tutta quella marea di gente che non mi permetteva nemmeno di vedere il cielo stellato, finché mi scontrai con qualcuno, con un’alta e possente figura, che come un gelido muro in pietra mi bloccò il passaggio.
“Non mi sembri molto a tuo agio in questa festa” disse quella profonda voce alle mie spalle. “Ma considerando ciò che è accaduto all’ultima è alquanto comprensibile”.
Quell’accento così nobile e marcato mi giunse come un effimero fantasma e mi sfiorò i capelli, con quel suo fresco ed antico respiro.
Stordita mi voltai di scatto e tutta quella gente che mi circondava sparì per tutto quell’attimo in cui il mio sguardò si focalizzò sul suo, freddo ed indifferente come il ghiaccio, ma implacabile e crudele come il fuoco. Due opposti che combattevano nei suoi occhi, travolgendo però chi gli stava intorno, come quel mare che, silenzioso, divora la notte.
Klaus.
Il bicchiere mi cadde dalle mani e quel breve tragitto per arrivare a suolo sabbioso fu interrotto dalla sua mano, che in un unico, veloce e fluido gesto lo bloccò all’altezza del mio ventre, negandogli la caduta.
Lo avvicinò al suo viso e cercando attentamente l’esatto punto in cui le mie labbra, poco prima l’avevano sfiorato. Se lo portò alla bocca carnosa, facendo scivolare quell’amaro liquido dorato nella sua chiara gola.
Rimasi immobile a guardarlo, a guardare come quella pallida luna rendesse ancora più chiara la sua pelle. I biondi capelli erano leggermente spettinati e il giubbotto in pelle nera che indossava era aperto su una chiara maglia, che aderiva perfettamente ai muscoli del suo petto.
“Cosa ci fai qui?” Riuscii a dirgli con il cuore che pulsava freneticamente sangue nelle vene, che si diramavano fini in tutto il mio corpo.
“Non potrei mai mancare” disse lui, restituendomi il bicchiere. “Sarebbe un peccato dopo averla organizzata”.
Le mie gambe parvero tremare e quell’aria che aveva appena soddisfatto i polmoni tornò di nuovo a mancarmi, come se quell’angelo con gli occhi di un demone, in realtà, me la stesse rubando e quel suo sorriso scaltro e compiaciuto ne era la prova.
Come poteva aver organizzato lui la festa e per quale motivo avrebbe dovuto farlo?
Questa era una festa del liceo ed ero sicura che lui il liceo l’avesse finito già da un po’.
Queste gelide domande mi rimasero sospese in gola, mentre crudeli sputavano sangue, per costringermi a pronunciarle, a liberarle in quell’aria fredda, che ormai riempiva la notte, mentre lui scaltro si avvicinò a me e dalle sua bocca uscirono aspre e fredde parole.
“È venuta bene, non trovi?”
 

* * * *

 
È arrivato il momento, riesco a percepirlo.
Accorto, comincio a muovermi nell’oscurità, affondando con le scarpe su un terreno fangoso.
Tutto quel freddo e gelido silenzio diventa nullo e quell’adrenalina, sintomo di una paura troppo ingente, mi pulsa avida insieme al sangue frenetico nelle vene.
Mi avvicino.



Buongiorno a tutti =)

Ho diviso il capitolo in 2 perchè altrimenti veniva lunghissimo, la seconda parte la posterò prossima settimana.
Spero sia stato di vostro gradimento, anche se temo di essere stata troppo frettolosa e confusionaria soprattutto nelle descizioni delle varie scene e mi dispiace di aver dato una piccola parte a Klaus, ma nella seconda sarà più presente.


Che n'è pensate di Ryan? Anche se si è visto poco spero che vi sia piaciuto.
Vi posto una sua immagine. Per chi non lo conoscesse è l'attore che interpreta Ryle in Eclipse (Lo so, sono molto originale xD).


http://www.twilightitalia.com/home/wp-content/uploads/2010/04/TIFFXavierLovedOnes4.jpg

Per quanto riguarda la misteriosa figura, che si nasconde nel bosco, la sua identità verrà rivelata nella seconda parte, prossima settimana e avrà un ruolo chiave nei capitoli futuri.

Vi anticipo che questo capitolo sarà l'ultimo che scriverò per quest'anno. Farò una breve pausa anche perchè sono un po' a corto di idee, ma penso di tornare presto con un nuovo capitolo.

Per finire volevo ringraziare tutti coloro che leggono e recensiscono la storia e per chi l'ha inserita tra le preferite/ricordate/seguite,  davvero grazie di cuore. 

Alla prossima. Ciao a tutti :)

 
  
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