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Autore: Ronnie02    13/12/2012    3 recensioni
(Sequel "One Day Maybe We'll Meet Again)
Ormai le famiglie dei nostri pazzi marziani sono stabilite e la normalità regna nella loro vita. Tra famiglia, album e concerti, però Jeremy, come l'ultima volta, si ritrova a sfogliare un vecchio album fotografico. Cosa scoprirà attraverso quelle foto? Che ricordi nascondo quegli scatti?
*slide of life della storia principale*
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'One Day Maybe We'll Meet Again'
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Allora gente (sono con il solito ritardo, ma va bè, perdonatemi). QUESTO E' L'ULTIMO CAPITOLO PRIMA DELL'EPILOGO. Lasciatemi piangere a dovere.... *soffia nel fazzoletto*

O madonna santa, quante ne abbiamo passate. Va bè, non deprimiamoci, che abbiamo ancora un aggiornamento :)

Questo è il capitolo più bello e divertente a parere mio, per questo l'ho tenuto per ultimo.

Per il resto dei commenti ci vediamo in basso. Buona lettura dolcezze





Chapter 11. Babies grow up some babies



 



Odiavo queste situazioni. 
Perchè dovevano capitare tutte a me?! 
Ronnie e Jared erano ancora in tour a farsi gli affaracci loro mentre Shannon e Andy oggi avevano deciso di andare a Malibù per una bella gita al mare. Maledetti loro e i loro stupidi pomeriggi da soli!
E io? Io dovevo soffrire come un cane, in una sterile stanzetta anonima con attorno una valanga di medici e dottori a guardarmi proprio dove non avrei mai voluto che mi guardassero. 
Ok, era una cosa ovvia visto cosa stavo facendo, ma mi faceva comunque abbastanza senso, non l’avevo mai sopportato. 
L'unica nota positiva era che Tomo, quel santo di mio marito, era con me, anche se a volte se la filava in bagno a lavarsi la faccia in modo da riprendersi decentemente. Ero seriamente così orrenda?!
Maledetti gemelli che avevano voglia di uscire! Non potevano starsene al caldo, dentro di me, ancora per un bel pò?!
“Signora, spinga di nuovo”, mi avvisò quel simpaticissimo medico del cazzo, guardandomi un secondo. Ah, la faceva facile lui! Vaffanculo, non doveva tirare fuori un coso enorme da una cosina minuscola! 
Neppure dei nomi decenti mi venivano in mente per metaforizzare la cosa... che merda! 
Alla fine feci come diceva, cominciai a spingere e mi convinsi. Qualche ora e sarebbe tutto finito. Ovvio; avrei solo dovuto portarmeli a casa e crescerli. 
Solo… O merda!
Ma non l'avevo sempre sognato?! In più con due gemelli mi sarei scordata un'altra gravidanza. E quindi sarebbe stata l'unica e ultima volta per fare quest’esperienza, per poi essere libera. 
Piagnistei, pannolini, notti insonni, pappine... chissene frega, li preferivo mille volte a questo.
“Vicky, dai! Sono qui vicino a te”, arrivò Tomo tutto affannato e gli presi la mano, stritolandola amorevolmente. Forse l’idea di tornare in bagno gli tornò in mente visto che lo vidi sbiancare e mi venne da ridere. 
Lui soffriva?! E io no, vero?
“Forza, sta uscendo”, disse sollevato il dottore, come se mi avesse detto che sarebbe finita presto. Sì, sta uscendo… il primo. E chissà quanto avrei dovuto aspettare per la seconda. O porca merda!
Grazie al cazzo, dottore, ne manca ancora una e quindi non siamo nemmeno a metà!
“Forza Vicky, ce l'hai quasi fatta!”, esultò Tomo. Era proprio il quasi che mi fotteva. Secondo me tutti mi stavano prendendo in giro e si godevano le loro stupidissime battutine squallide. 
Ma almeno, settantasette secondi dopo, contati con i rispettivi piccoli respiri, il dolore se ne andò di fretta esattamente come era arrivato, lasciandomi stanca morta. Era finita… per ora.
“Vedo che ha voglia di cantare”, scherzò Tomo appena un urlo squarciò il silenzio della stanza. Oh piccolino, i polmoni imparerai ad apprezzarli anche tu. 
“Allora lo dovremmo chiamare Jared II” , ridacchiai io, stanca, mentre vedevo l'ostetrica passarmi il mio primo figlio. 
“Non osare”, fece l'offeso mio marito, per poi sorridere guardando il bambino venir posto tra le mie braccia. Era così paterno… l’avevo sempre immaginato in queste vesti ma vederlo dal vivo era bellissimo.
Il piccolo mi guardò e smise di piangere. Guardò Tomo e fece un piccolo sorriso. Era bellissimo: un piccolo ammasso di pelle, ciccia e faccia che mi guardava con due occhioni scuri da cerbiatto. 
"Liam sarebbe perfetto", dissi io. 
"Oh, Nikola mi piacerebbe chiamarti, piccolo", mi sovrappose lui. 
"Nikola?!", mi stupii io. 
"Liam?", ripeté lui. 
"Entrambi?!", ridacchiò la donna mentre si avvicinava di nuovo, riprendendosi mio figlio per portarlo a pulire. Lo salutai stanca con la mano e lui chiuse gli occhi. 
"Liam Nikola Milicevic?", chiesi io. 
"Americano e croato", sorrise mio marito mentre mi vestivano e mi riportavano in stanza, mentre attendevano che la piccola decidesse di seguire le orme del fratello. 
Sarebbe stata una lunga giornata quella, e di sicuro me la sarei ricordata per il resto della mia esistenza.
 
Lui nacque a mezzogiorno esatto del 9 settembre. Lei a mezzanotte precisa dello stesso giorno. 
Un minuto in più e sarebbero nati in due giorno diversi. 
I medici ci speravano davvero quando entrai in sala parto quasi di notte: sarebbe stata la prima volta dopo più di trent'anni, a quanto mi avevano detto. 
Ma io non avevo accettato. Loro non erano nati in giorni diversi e io sarei rimasta sulla verità. Così avevo detto di tenere la stessa data e le ore precise: 12.00 e 24.00. 
Maschio e femmina, giornaliero e notturna, lui si era subito addormentato e lei aveva fatto mille pianti mentre veniva portata a pulirsi e vestirsi con la tutina bianca che mettevano a tutti. 
Era un segno? Probabile, ma mi sarebbe piaciuto scoprirlo da sola quando sarebbero cresciuti. 
Andy e Shan vennero a trovarci il giorno dopo il parto e appena li videro ebbero la mia stessa espressione. 
Nella culla dove spuntava il nome di Liam Nikola c'era un bimbo sorridente e calmo, mentre in quella di Astrid Kim c'era una bimba che cercava una via d'uscita e si muoveva sulle copertine. 
“Non chiedetemi aiuto quando quella sarà adolescente”, commentò Shannon facendomi scoppiare a ridere. “Ho già paura ora al pensiero”.
"Sempre il solito cretino", commentò Andy scuotendo la testa e facendo ridere tutti. 
Tomo fu il primo a smettere e cominciò a guardare Astrid muovere le manine dentro la sua culla, cercando di acchiappare qualcosa per evadere. Sapevo che aveva una voglia spassionata di prenderli in braccio ma per ora dovevano restare da soli per dormire. 
“Ronnie ha chiamato stamattina presto”, ci avvisò Shannon dopo ancora qualche battutina sui miei piccoli, alle quali, da brava madre, ho attaccato. “Dice che partiranno appena finisce il concerto. Vogliono vederli immediatamente”.
“E non sia mai che qualcuno non faccia ciò che dice”, rise la sua ragazza, da brava migliore amica qual’era. 
"Ma dai!", la fermò Tomo con una sberla leggera sul braccio, facendo attenzione a non farle male, pena una rissa con il batterista geloso. 
Ronnie. 
In un certo senso non volevo farle vedere i miei figli. Non perché fossi arrabbiata con lei o la odiassi… mai pensato a questo. Più per il suo bene che per altro.
Avevo paura che tornasse di nuovo nel buio che aveva appena passato grazie al tour e alla proposta di Jared a Londra. 
Jared.
Quel pazzo scatenato alla fine era riuscito a sposarsela. La cosa assurda era che per primo aveva chiesto consiglio a Shannon. Cioè... Shannon! 
Certo, era suo fratello e avevano una così strana relazione loro due… ma non mi sarei mai aspettata che, soprattutto, lui indovinasse un consiglio così fuori luogo per le sue esperienze. Prima che incontrasse Andy, le parole Shannon e matrimonio non comparivano mai nella stessa frase.
Però alla fine Jared ce l'aveva fatta a chiederglielo e lei, mi pare ovvio, aveva accettato. Cavolo, se aveva accettato, quella piccola grande pazzoide!
Il video della proposta era finito in tutti i siti internet, in primo luogo in una newsletter immediata dei Mars a tutti gli Echelon e sul sito officiale di Ronnie per tutti gli Offbeats. 
Ormai avevo guardato così tante volte la faccia della mia amica diventare viola d'imbarazzo da sembrare di averla vista dal vivo. 
Riguardai i miei piccoli ragazzi. Lei ne sarebbe andata pazza, ma, anche se non sapevo come mai, avevo la sensazione che tramasse qualcosa. 
Al giorno in cui i miei bambini erano nati erano passati esattamente tre mesi dalla proposta di Jared e si erano fatti sentire meno del solito. In più Ronnie aveva una voce strana. Stanca, ovviamente per il tour… ma non avrei mai saputo dire cosa mi diceva che cosa mi nascondesse.
“Vicky”, mi svegliò Andy con uno schiocco di dita. “Ti sei addormentata in piedi?”.
“No, sto bene, tranquilli”, ridacchiai guardando per un'ultima volta i bambini e poi seguirei miei amici nella mia camera d'ospedale. 
Era l’ora del riposino che ci obbligavano a fare e che odiavo, ma senza quello sarei arrivata all'ora di cena come una zombie. Quindi non commentai e diedi retta all’infermiera.
Guardai mio marito e lui mi sorrise, con gli occhioni marroni luccicanti di orgoglio per il nostro lavoro. 
Eravamo stati bravi, sì. 
 
“Liam sei un fottuto stronzo!”, urlai appena schiacciò su di Leslie e fece punto. 
“Ventiquattro a ventitré, matchpoint”, gridò di rimando zia Vicky, evidentemente fiera di quei baroni che erano i suoi figli cloni. 
“Fanculo, possiamo ancora farcela”, dissi io facendo annuire la mia compagna di squadra, nonché mia cugina. 
Eravamo alla gara Milicevic-Leto Junior, ed eravamo un set a testa. Questo avrebbe deciso la vittoria. Poi sarebbe toccato ai Milicevic-Leto Senior a giocare. 
Astrid andò veloce alla battuta, si scrocchiò mano, mosse la testa per prepararsi e urlò: “Palla!”.
Poi con una schiacciata la mandò dritta verso di me, cercando di farla arrivare così veloce da passarmi in mezzo alle dita. Ma fortunatamente riuscii a prenderla e la passai veloce a Leslie, che alzò il pallone. 
Lo intercettai di nuovo, saltai e schiacciai.
Liam non riuscì a murarla e finì nell'angolo del campo. 
“Sì! Beccatevi questo, cloni!”, esultai battendo un cinque a Leslie. I miei esultarono e Shannon mandò a quel paese Tomo, sempre con tanto amore. 
"Dai, Jeremy", rise mia cugina. “Possiamo ancora rimontare!”.
“Dobbiamo rimontare!”, risposi pronto mentre mio cugino acquisito mi faceva una smorfia.
Eravamo ventiquattro pari quindi si arrivava a ventisei. 
Leslie si preparò alla battuta e schiacciò esattamente in testa ad Astrid, che senza nemmeno farlo apposta, palleggiò la palla verso il fratello. Liam cercò di mandarla nel nostro campo ma lo murai. 
"Sì! Alla facciazza vostra!”, gridò mia madre ridendo. Vicky le fece la linguaccia ma poi si unì alla risata. 
"Venticinque a ventiquattro, matchpoint", urlò Tomo con meno voglia ora che potevamo vincere noi. 
Ridacchiai e passai la palla a Leslie, già appostata in zona di battuta.
Mi sorrise e schiacciò una delle sue batoste, sempre precise e efficaci… ad alcune condizioni. 
Era un rischio perché era decisamente una battuta fuori campo. Ma mia cugina conosceva Astrid e la sua testardaggine, presente soprattutto in questi momenti. 
Infatti la prese lo stesso, con tutta la forza che poteva, e cercò di passarla a Liam, inutilmente visto che le sue mani non furono abbastanza forti e la palla passò comunque in mezzo, arrivando a fondo campo con tutta la sua potenza. 
“Ventisei a ventiquattro; vincono i Leto!”, stabilì Tomo, sorridendo, anche se di certo ora doveva darsi da fare per vincere contro i miei genitori. Poi chi vinceva si sarebbe battuto con Andy e Shannon, i vincitori del primo torneo. 
Abbracciai subito Leslie ridendo e così finì la partita. Guardai i cloni che fecero smorfie ma poi vennero a esultare con noi, da bravi cugini acquisiti. 
Eravamo fatti così, una grande e perfetta famiglia che non avrei cambiato mai. 
 
Ronnie stava correndo via da me per l'ennesima volta. La rincorrevo ma era stranamente più veloce, anche se camminava lenta come un fantasma. Come se ogni centimetro della sua  camminata valesse un chilometro della mia corsa.
Mi fermai per cercare un modo per andare più veloce e soprattutto prendere fiato, ma mi resi conto che più restavo immobile più lei scompariva da me. 
Dovevo muovermi, dovevo raggiungerla, dovevo andare più veloce. 
“Ronnie, ti prego!”, la chiamai mentre lei camminava. 
Un secondo dopo si voltò di scatto e vidi i suoi occhi squarciare i miei, seguiti da un urlo mi colpì in pieno, riportandomi alla realtà. 
“Jared, sei scemo?!”, sentii una voce che mi chiamava e mi resi conto che era Andy. 
Aprii gli occhi di scatto e vidi la ragazza con una faccia tra lo scioccato al divertito. 
Un altro urlo rotto arrivò da lontano e capii dove mi trovavo. Ero appoggiato alla porta della sala parto e dentro Ronnie, da circa tre ore stava patendo l'inferno. 
Dopo due ore e mezza nel pieno della notte il mio cervello era entrato in stand-by senza volerlo. 
“Dov'è? Come sta? Quanto manca?”, chiesi preoccupato e lei scoppiò immediatamente a ridere. 
"Bene, pensavo fossi morto. Quando sei uscito eri bianco da paura”, mi tranquillizzò, con il suo sorriso. Se fosse successo qualcosa alla mia Ronnie lei non starebbe ridendo, quindi voleva dire che andata tutto bene… “E Ronnie sta abbastanza okay, ma potresti entrare a controllare”.
Annuii e lei se ne andò a sedersi nella sala d’attesa, lasciandomi aprire piano la porta. La dottoressa mi vide e mi lasciò entrare, mentre vedevo Ronnie sudata e con i capelli in disordine. 
“Sei vivo?”, ridacchiò per poi fare una smorfia di dolore. 
“Ovvio. E voi?”, le strappai un sorriso prima che l'ultima spinta aiutò quel pasticcione di nostro figlio a uscire. 
Vidi l'ostetrica prendere in braccio il bimbo e cominciare a vedere come stavano gli arti e i polmoni. 
Quando il bimbo pianse, per la novità che si ritrovava nella sua gabbia toracica, ci guardò e Ronnie allungò le mano verso di lei. 
La donna lo depose tra le braccia di mia moglie - ancora faticavo a chiamarla così - e ci sorrise. “Un bambino più bello non potevate farlo”, si congratulò, facendo ridere Ronnie.
“Merito del papà più bello del mondo, ovviamente”, la ringraziò Ronnie ridendo. Di certo la donna fu subito d’accordo, ma non le diedi peso. 
“E della mamma più sdolcinata e stupenda di Marte”, la corressi mentre lei rideva e alzava gli occhi al cielo. 
“E poi sarei io la sdolcinata?”, mi prese in giro lei mentre nostro figlio ci fissava confuso mentre smetteva di piangere. Sì, piccolo, hai dei genitori molto strani, abituati. 
“Come lo vorreste chiamare?”, ci chiese subito il dottore. Guardai Ronnie provai a vedere cosa ne pensasse, ma sembrava impassibile. 
“Io lo so che lo vuoi chiamare Kurt, non fare il finto tonto”, mi sorrise poi, mentre l'ostetrica decise di riprendere nostro figlio – oddio non ci potevo ancora credere – per andare a pulirlo. Appena lo toccò però lui impazzì ancora e cominciò a piangere. 
“È figlio di due rockstar, crescerebbe bene con quel nome”, mi giustificai mentre lei ci pensava ancora una volta, guardando l’ostetrica dichiarare guerra a nostro figlio e portarselo via. 
“A me piace anche Jeremy”, disse sussurrando per vedere con calma la mia reazione. Aveva davvero paura che potessi dirle di no?
“Allora vada per Jeremy. Piace anche a me”, sorrisi e lei mi imitò a sua volta con gli occhi stanchi ma luccicanti. 
“Kurt potrebbe anche essere il secondo nome”, commentò dopo pensandoci meglio. “Suona bene, no? Jeremy Kurt Leto”. 
Jeremy Kurt Leto. 
Quel nome mi vagò in testa come la peggior droga per qualche secondo. Mio figlio… era davvero assurdo. Nove mesi per farci l’abitudine e ancora non ci ero riuscito. 
La mia mente era rimasta ancora a dieci anni prima. Non riusciva a starmi dietro e succedevano troppe cose per il mio povero cervello: non credeva possibile che avessi trovato una ragazza del genere, che l'avessi persa ma poi ritrovata, che l'avessi sposata e ora avessi un figlio con lei. 
Jeremy Kurt Leto. 
“È perfetto”, dissi sorridendo e prendendola per mano. Lei rise e chiuse gli occhi. 
Erano le quattro del mattino. Lui e Astrid avevano in comune che erano nati nel bel mezzo della notte, mannaggia a loro. 
“Bene. Ora la portiamo nella sua stanza”, le disse il dottore, togliendo la mia mano dalla sua e sistemando le cose per trasferirla fuori dalla sala parto. 
Lei mi guardò ma poi cadde in un sonno profondo mentre la seguiva nella camera. 
“Suo figlio è già stato portato alla nursery, lo potrete vedere appena avrà dormito abbastanza”, mi informò l'ostetrica. 
Mio figlio. 
 
Un piccolo piagnisteo arrivò dall'altra stanza. 
Ronnie lo sentii immediatamente e si alzò di scatto, come se avesse in testa capace di svegliarla appena Jeremy si svegliava. Era impressionante.
“No, tocca a me stavolta”, dissi io rotto dal sonno. Lei scosse la testa e s'intestardì. “Ronnie, seriamente, dormi. Vado io, tu hai bisogno di riposarti un po’”.
Mi alzai e lei mi guardò grata, rimettendosi a dormire. Era una settimana che non stava tranquilla per una notte intera. 
Uscii dalla stanza chiudendo piano la porta e andai dal piccoletto. 
“Prima o poi ci farai impazzire”, dissi entrando e vedendolo aggrappato alla culla con le manine bianche. 
Dio santo, aveva già quasi un anno e ogni giorno averlo tra i piedi era stupendo. Ma in quella settimana aveva iniziato ad avere incubi su incubi e piangeva ogni notte. 
Lo presi in braccio e lui si strinse a me in una morsa soffocante. Lo cullai in po’, canticchiandogli qualcosa di tranquillo e pian piano lo stretta si fece leggera. 
“Tranquillo piccolo, c'è qui papà”, sussurrai mentre lo mettevo di nuovo nella culla. 
Lui mi guardò, come a dirmi di non andare via, e io lo feci giocare un po’ con i pupazzi che aveva lì dentro. Subito mi rubò il piccolo orsetto morbido dalla mano e si sdraiò piano, sorridendo. Se lo strinse forte e poco dopo le sue manine alleggerirono la presa: si era già addormentato. 
Sorrisi e gli diedi un bacio sui capelli scuri, cercando di non svegliarlo ancora. Non si mosse e io tornai in camera mia. 
“Sei un papà fantastico”, sentii il sussurro di Ronnie mentre io entravo cercando di non fare rumore. 
“E tu una moglie disubbidiente: dovevi dormire”, ridacchiai entrando nel letto al suo fianco. Era così bello averla vicino. 
Lei si arpionò al mi petto, d’accordo con il mio pensiero, e rise stanca, cercando di dormire. Le accarezzai i capelli e cominciai a cantare anche per lei. 
Sapevo che non riusciva a stare calma mentre Jeremy piangeva. Era il suo piccolo e restava in pensiero. In più i suoi incubi le risvegliavano i suoi; in questo erano simili. Ma prima o poi questo periodo sarebbe passato. 
“Ci sono io, babe”, le sussurrai mentre i suoi occhi si facevano pesanti. 
“Lo so”, rise ancora e sentii la presa aumentare. “E non potrei sopportare di non averti vicino un’altra volta”. 
“Non succederà, lo giuro”, l'abbracciai e lei si addormentò con un grande sorrisone. 
Missione compiuta, Leto. Ora potevo continuare a dormire anche io. 

“Maledetti incubi”, commentai sprezzante svegliandomi nel cuore della notte. 
Guardai fuori dal finestrino: la notte si estendeva su una città tutta illuminata. Eravamo ancora a Sidney e i tre marziani dovevano essere ancora sul palco. 
“Ciao Jer”, mi salutò Liam, sveglio come sempre con la sua chitarra ad arpeggiare qualcosa. 
“Oggi niente tastiera?”, gli chiesi andando sul suo letto e sedendomi vicino a lui. Bene, iniziava una delle nostre nottate insonni.
“Nah, è elettronica, sveglierei tutti. Con questa sono più sicuro. Incubi?”, mi domandò sorridendo. Sapeva quanto la mia mente fosse malata. Sorrisi e annuii.
“Come al solito. Che suoni?”, gli domandai notando che stava arpeggiando qualcosa di nuovo.
“Niente di importate, aspettavo papà”, sorrise mentre strimpellava senza senso. Sorrisi.
Per quanto fosse imbarazzante per alcuni essere quasi migliori amici dei propri genitori, non era il nostro caso. Soprattutto per Liam, che con zio Tomo faceva qualsiasi cosa.
Da lui aveva imparato a suonare la chitarra e un po’ la pianola, arte migliorata con mio padre, e si divertivano a fare gare sull’assolo venuto meglio. Quando insieme erano andati in Croazia, ovviamente con Vicky e Astrid al seguito, si erano divertiti talmente tanto che ancora oggi non riusciva a spiegarmi cosa avessero fatto per le troppe risate che quei ricordi scaturivano.
Nei concerti, come quella sera, dormiva raramente e aspettava tutti sveglio fino a che non fossero tornati per sapere ogni minimo particolare. A volte ovviamente andavamo nel backstage, ma quella sera avevamo preferito restare noi ragazzi nel tourbus a giocare e vederci un film da soli.
“Che strano”, ridacchiai mentre lui faceva finta di tirarmi la chitarra in testa.
Leslie mugugnò e a Liam parve di sentire qualcosa, ma lasciammo perdere. Ormai pure le piante sapevano che Leslie straparlava nel sonno, anche con frasi sconnesse e a volte parole inesistenti.
“Hey, comunque mi dispiace per Jodie, è stata una grande stronza”, dissi mettendogli un braccio sulle spalle mentre lui deglutiva. Non era un bell’argomento.
“Meglio così, una piovra di meno”, cercò di sorridere mentre plettrava.
“Be almeno non ti dovrai scervellare di nuovo per trovarle il regalo perfetto”, scherzai per poi dargli un pugno leggero sul bracci.
Lui rise e cominciammo a parlare d’altro, a fare qualche nota e provare a comporre qualcosa per la band. Sì, potevamo sembrare i figli di papà già con tutto pronto, ma non era colpa nostra se ci piaceva suonare!
Alla fine, dopo un ora e mezza, i nostri genitori ancora non si erano visti e così decidemmo di andare a dormire. Forse avevano deciso di farsi uno dei loro giri notturni nelle città o di bersi qualcosa come sempre.
“Ehy Jer?”, mi chiamò Liam dal suo letto.
“Dimmi, clone”, gli sorrisi chiamandolo come sempre.
“Grazie”, disse ridendo battendo il pungo contro il mio e andando a dormire.
Non c’è di che fratello.
 
“VAFFANCULO!”, urlò Andy senza aver paura di farsi sentire.
“Mamma mia, la finezza fatta a persona”, scoppiò a ridere Ronnie mentre le sistemava il vestito. “E per fortuna che hai l’abito bianco!”.
“Non è tutto bianco, quindi, fanculo, posso dire quello che voglio!”, si lamentò ancora lei guardandola truce, nel suo trucco perfetto.
“E’ vero, ok. Ritiro ciò che ho detto”, continuò la rossa sistemandole uno dei fiocchetti sulla schiena.
“Ma ti prego, Andy, hai un abito stupendo… abbi un po’ di contegno”, ridacchiai io mentre le sistemavo i capelli.
“Va bene, scusatemi, ma sono tesa e dovete lasciarmi stare”, disse nervosa mentre Ronnie rideva e le schioccava un bacino sulla guancia, da perfetta migliore amica.
“Sarai stupenda”, ridacchiò mentre Andy respirava a fatica. “Ora però non rompere o ti picchio e al matrimonio ci vai con un occhio nero…. Oh, perfetto, ho finito!”.
“Pure io”, annunciai e insieme la portammo davanti allo specchio.
“O mio…”, sussurrò lei, ammirandosi nella sua perfetta bellezza.
Partendo dall’alto: i suoi capelli erano stati raccolti dalle mie mani esperte – la vicinanza con Jared si faceva sentire a volte – in tante piccole treccine strette, ma poi unite tutte insieme al centro a  formare una bellissima crocchia intrecciata con un piccolo e luccicante nastro rosato. Ci era voluta una vita ma ce l’avevo fatta.
Gli occhi erano truccati in maniera neutra, con qualche sbaffo di rosa con l’ombretto e poco mascara, mentre sulle labbra del lucidalabbra tendente al rosso, ma non troppo distaccato dall’insieme.
Il vestito era una meraviglia e se Shannon non sveniva barra moriva soffocato dalla bava sarebbe stato un vero miracolo.
Era un vestito a sirena, sfumato dal rosa chiaro fino al bianco più splendente. Il corsetto era tutto ricamato ai lati e, dietro la schiena, era un grande corpetto con nastri rosati come per i capelli, seguiti da minifiocchi bianchi – opera di Ronnie – che le mostravano la schiena perfetta in un gioco di vedo-non vedo.
La gonna, ovviamente lunga da star male, non era pomposa ma leggera e semplice, visti i gusti della proprietaria. E le scarpe, nascoste dal vestito ma presenti, erano dei tacchi a spillo bianchi con un piccolo decolleté.
“Dio”, suggerì Ronnie ridendo.
“Non per metterti ansia, Andy…. Ma è tempo di andare”, sorrisi io prendendola per mano e sistemandole il velo nella crocchia. Lei mosse la testa, scherzando, e sentì le ondine di quel bianco tessuto muoversi sulle sue spalle.
“Figo”, scherzò ridendo.
“Sì, sì, tutto questo è molto emozionante, ma è ora di andare”, la spinse fuori Ronnie con la sua solita finezza da uccidere tutti.
Risi di nuovo e presi le spalle di Andy, mandandola nel punto esatto in cui si trovava suo padre, arrivato per l’occasione con la famiglia in America.
“Sei bellissima, sta solo calma”, le sussurrai andando all’altare, per posizionarmi tra le damigelle, mentre Ronnie portava, per la seconda volta nella sua vita, le fedi degli sposi dietro di lei.
Vidi il padre di Andy abbracciare Ronnie e farle una carezza sulla guancia, per poi tornare da sua figlia. Spostai lo sguardo su Jared e lui era perso nella sua bella, facendola sentire finalmente apprezzata.
In realtà osservai tutti quanti. Tomo, il mio bel Tomo, era vestito come tutti quanti i testimoni con uno smoking bianco, con una rosa rosa (ovviamente), per la similitudine con la sposa e il contrasto con lo sposo. Infatti Shannon aveva un bellissimo smoking nero da far invidia a tutti.
Io avevo un abito beige, con delle striature di color nocciola, che finivano per sfumare il primo colore e diventare tutto del secondo alla fine della gonna corta. Le scarpe ovviamente erano tacchi, color marrone chiaro.
Ronnie invece era il mio contrario: vestito lungo e senza spalline, color nocciola con striature di beige che finivano per poi invertirsi sulla fine. L’idea ovviamente dei contrari era tutta sua.
Andy cominciò a camminare, tenuta salda in piedi da suo padre e la solita musica di sottofondo era partita come accompagnamento. Arrivata all’altare, Ronnie mi venne di fianco, sorridendo, e lasciò cominciare la cerimonia.
“Sì, lo voglio”, disse la sposa poi, con le lacrime agli occhi, cercando di non macchiare il trucco. Poi si voltò e vide Shannon fare lo stesso, stringendogli forte la mano.
Il prete li dichiarò marito e moglie, Ronnie diede loro le fedi e Jared andò a occupare il piano, suonando sorridente una nuova canzone scritta per l’occasione.
Le parole le avevamo censurate vista la cerimonia e la mente malata dello scrittore. Andy, che le conosceva, scoppiò a ridere e si attaccò a… suo marito.
Era tutto così perfetto che niente, niente, niente, poteva andare storto. Niente!


....
Note dell'Autrice:
i commenti da 'fine storia' li lascio all'epilogo, oggi c'è la regola del "don't worry be happy" perchè sono in attesa della neve (speriamo seriamente che arrivi :D)
Bè... spero davvero che vi sia piaciuto perchè io mi sono divertita davvero tanto a scriverlo.
E sebbene ormai questa storia non venga più letta come un tempo, vi ringrazio comunque, a voi che ci siete state, a voi che ci sarete un giorno se scoverete questa storia nei meandri di EFP, e voi che ci siete SEMPRE, ad ogni aggiornamento.
Vi amo, sul serio.
Un bacio e alla prossima settimana.
Ronnie02

 
   
 
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