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Autore: Revalis    14/12/2012    1 recensioni
"Sono un invidioso, un pidocchio che si trascina su questa stanca terra che, non contento di ricevere questa benedizione, vuole farla sua e replicarla. Volevo e voglio ancora essere un Prometeo più efficiente di quello originale, volevo essere l'uomo che porta il fuoco agli uomini.
Lei, durante questa mia battaglia, sorrideva."
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Occhi aperti.

Mi ricordo che F. mi fissava, come sempre del resto, con la sua aria di piacevole smarrimento, per poi richiudere immediatamente le palpebre e riaprirle dopo qualche secondo.

Era il suo personale un-due-tre stella con la realtà, un gioco da piccola bambina già più grande di me. Il mondo per lei era un turbinio continuo di percezioni che non avevano un riferimento fisso.

Il suo universo era confuso, mutevole, particolare: come tutti gli esseri umani non aveva nessuna certezza, se non quella dei sensi.

Pallido, misero miraggio di un sogno di una certezza, ecco che cos'era la percezione sensoriale per un'intera umanità che credeva di sapere chissà cosa.

Come me, del resto, che credevo di credere.

F. non possedeva neppure questo infimo appiglio, eppure aveva più certezze di tutti gli altri omuncoli del globo. Aveva almeno la certezza di vincere sempre ad un-due-tre stella.

Era un piccolo punto materiale nell'infinito piano dell'esistenza, mentre altri si affannavano a correre verso il limite estremo come rette parallele, o più spesso schiantandosi rovinosamente con altre esistenze, formando spigoli, angoli, curve.

Lei rimaneva ferma nel suo punto, mani nei capelli.

Il concreto, cartesiano mondo dell'esperienza sensibile subiva una metamorfosi onirica attraverso il suo cervello.

Un suono celava tra le sue vibrazioni immagini tinte di colori aspri, dolci, corposi; come telai, gli strumenti formavano trame ben definite e disegni intricati, che sfociavano poi inevitabilmente in un'antologia dettagliata di sensazioni che, onestamente, non mi sentivo in grado di cogliere.

Le parole per lei emanavano profumi che non avrei mai sentito in tutta la mia vita e che, con poche parole, riusciva a farmi percepire; ogni suono le faceva fremere i nervi, soprattutto la voce umana.

Mi diceva sempre che nonostante molte voci le suonassero pressoché identiche, ognuna le evocava immagini diverse.

La sua in me evocava non so quale sentimento primordiale di venerazione. Aveva il carattere di un'epifania, di un'eruzione vulcanica, dello sbocciare di un fiore del deserto: rara, disarmante, potente. Mi disorientava. Io annegavo, annaspavo, invidiavo.

Mi succedeva sempre, quando parlavo di lei o con lei. Lo stomaco mi si torceva, e sapevo benissimo che era il mio senso di superiorità che crollava. Io mi rifiutavo di andare a fondo con lui, marciando sulle mie convinzioni, ma sapevo benissimo che avrei fatto meglio a stare zitto, ascoltandola con l'umiltà che mi è sempre mancata. Credevo di doverne fare a meno, anche se la apprezzavo così tanto.

Le rare volte in cui avevo il privilegio di poterla ascoltare mi sentivo come un bambino che sentiva la voce della propria mamma per la prima volta, sintesi perfetta della sua visione del mondo.

L'Apocalisse e la Genesi, presenti in ogni istante, erano così vicine da farmi pensare che Dio, per tenersi al passo con i tempi, fosse diventato un industriale, un fabbricante di mondi usa-e-getta, preconfezionati e biodegradabili.

Il suo stesso corpo la frenava verso il basso e rappresentava la sua condizione di prigioniera, e il suo volto tradiva sia la sofferenza che la felicità che le derivavano da quel dono, forse anche questo proveniente da quel Dio industriale.

Un refuso di cervello, un difetto di fabbricazione: prodotto difettoso che, accidentalmente o volontariamente, il vecchio volpone aveva immesso nel mercato.

Tanto il cervello mica ha la garanzia, e anche se ce l'avesse, potreste mai chiamare il servizio clienti di Dio?

Dio, il capitalista dei cieli.

F. diceva che l'inferno era in questa vita e in tutte le possibili vite alternative, poiché tutti i giorni bisognava vivere. Non era la natura ad essere sbagliata, o l'universo, o la cattiveria umana. No, il problema stava solo nel grande difetto umano, che era vivere, invece di sopravvivere. Bisognava vivere, ma prima di vivere, bisognava sopravvivere. Questo era l'inferno.

Ma io avevo rinunciato a qualsiasi illusione di illuminazione o di redenzione ultraterrena già da tempo, sia perché fondamentalmente non ci credevo, mancandomi il difetto di fabbrica, sia perché, in modo molto umano, il mio inferno era meno inferno con lei.

La osservavo mentre dondolava leggermente la testa al ritmo di chissà quale melodia mentre mangiavamo insieme. Mi piacevano le sue dita, che mi cercavano quando guidavo, quando lavoravo, quando dormivo, salvo poi ignorarmi quando mi abbandonavo a me stesso. Era ordinaria quando avevo bisogno di vivacità e assurda nei momenti peggiori, quando avrei voluto solamente farla smettere di fare stronzate.

Ogni mattina partiva la giostra. Era particolarmente schizzinosa sui colori,come se celassero chissà quale potere. Voglio dire, tutti hanno un colore preferito, tutti associano dei significati ad una tonalità rispetto ad un'altra, no? Lei li associava alle lettere, ai numeri, agli odori, ai sapori, con una calma e una decisione così marcate che non poteva essere altrimenti: quando diceva che il numero zero era di colore viola, spiegandoti anche la sua personalità, non potevi far altro che concordare con lei. Anche alle sei di mattina, quando il mio pensiero più ispirato era il metodo migliore per non versare il latte sulle ciabatte. Anche quando non trovavo le chiavi e lei, per tutta risposta, mi diceva che non poteva scendere dal letto perché il tappeto la stava offendendo.

Nonostante tutto questo, se la mattina non si alzava al mio stesso orario la giornata era una merda.

Se fosse stata la moglie di un poeta decadente, la sua sinestesia avrebbe prodotto i migliori poemi mai conosciuti dal genere umano. A me bastava che migliorasse la mia esistenza, che in fondo è un po' quello che fa l'arte.

Cosa importa se ciò che vede non esiste, se nulla di quello che mi racconta è reale? Posso forse fermarmi all'idea che probabilmente il suo cervello non funziona, in questa epoca dove riusciamo a classificare qualsiasi manifestazione artistica e qualsiasi deviazione del modello di realtà che ci è stato imposto, come una patologia? È arte anche questa pazzia, è arte soprattutto questa pazzia.

Non possiamo semplicemente accettare la verità, ma comunque continuare ad apprezzare il fenomeno per quello che è, come faceva F.?

Lei sapeva di non essere normale, sapeva che le sue percezioni la ingannavano e che non avrebbe mai combinato niente nella sua vita, mai sarebbe stata in grado di vivere nel "vostro" mondo.

Diceva sempre che il mondo era "vostro".

Lei, con il suo dualismo bambina-vecchio, già disillusa da qualsiasi aspetto della vita ma ancora entusiasta alla vista degli stessi aspetti; lei, che aveva già provato tutte le sensazioni possibili e ancora non ne aveva provata nessuna; lei, con l'animo troppo distrutto per essere ancora una bambina, l'immaginazione troppo grande per essere un' adulta e la coscienza di sé troppo precisa per essere un' adolescente.

Lei, con i genitori che non potevano permettersi di avere una figlia "gravemente sinestetica".

Pronunciavano quella parola con la freddezza clinica del medico. Era una patologia, ci si erano rassegnati, non c'era cura. Non c'era per il semplice motivo che non si trattava di una malattia, ma è più semplice da sopportare. Più comodo.

Una vigliaccheria pura e semplice, per me. Non c'era disprezzo per loro figlia, non c'era incomprensione, che pure sono sentimenti. C'era solo l'indifferenza di chi si è rassegnato; ok, ci abbiamo provato, è uscita così, che ci possiamo fare?

Una figlia "gravemente sinestetica" non produce, non crea, non porta profitto.

Una figlia gravemente sinestetica passa i pomeriggi sul ponte in acciaio sopra la stazione, assaporando il sapore del blu e ascoltando il suono dei raggi del sole sulla sua pelle, mentre l'odore dello stridio delle ruote che mordono e graffiano la rotaia gli riempie i polmoni.

Poi prova a riprodurre queste sensazioni, ma le gambe s intrecciano, le corde della chitarra diventano serpenti variopinti che ingoiano la melodia tutta intera, le parole si trasformano in colombe e volano via, e lei con loro. Amen, l'abbiamo persa.
S'erano appena rassegnati a vederla diventare un'artista ed ecco che lei non sa fare nemmeno quello. Come può dunque guadagnarsi da vivere?

Dal canto mio, avrei pagato oro per sapere che cosa provava, mentre faceva dondolare le gambe nel vuoto e si accarezzava i ricci. Mai avrebbe dovuto conoscere il lavoro, le preoccupazioni del cittadino, la fatica dell'esistenza, la prevaricazione della volontà del mondo sul singolo.

Avrei pagato per sapere a cosa pensava in ogni singolo secondo., mi sarei svenato, mi sarei spaccato la schiena solo per ricevere una parola di consolazione, solo per arrivare a casa, la sera, e sentire che c'era qualcosa oltre a tutto quello che vedevo.

Forse però era solo egoismo, una mia smodata voglia di carpire informazioni dall'ignoto, un segreto istinto da psicologo o forse più da comare, o magari ancora una deformazione professionale dettata dalla pigrizia, un sistema per non sforzare la mia creatività e riciclare la sua, inesauribile, perfetta e completamente nuova e originale. D'altronde io ero umano come tutti gli altri e oltre a sopravvivere volevo vivere, e scrivere era la mia vita.

Nella mia cosiddetta carriera potevo aver scritto quattro o cinque poesie che esprimevano il genio, pochi sprazzi di originalità in qualche mia idea e forse forse un paio di racconti che mi erano stati suggeriti chissà da quale epifania.

Il resto era una triste rivisitazione della banalità condita da uno stile mediocre.

Ero stanco di essere un infimo elettrone nel livello energetico più basso, mentre lei volteggiava laggiù, nel guscio più esterno, pronta a vivere chissà quali esperienze in chissà quali altri universi.

Una piccola collisione ed ecco che si allontanava da me, indefinitamente, forse per non tornare mai più.

Era invidia, la mia? Forse. Una colpa condivisa con il resto del genere umano, tanti piccoli elettroni ancorati senza via d'uscita ad un nucleo opprimente che non permetteva nessun salto, condannati ad orbitargli intorno incessantemente.

Ero riuscito a saltare qualche livello nella mia vita, ma si sa che tutto ciò comporta un dispendio di energia, energia che non avevo più.

Lei però, nella sua ascesa e ricaduta quotidiana, mi portava su con sé. Mi aveva fatto salire più livelli di quanti ne avessi saliti fino ad allora.

Mi diceva: se lo fanno gli elettroni, ti posso portare anche io su con me.

Sì, anche questa era una sua trovata. Gli elettroni. Come vedete sto già riciclando, e non posso dire a mia discolpa di averlo fatto inconsciamente. Sono un invidioso, un pidocchio che si trascina su questa stanca terra che, non contento di ricevere questa benedizione, vuole farla sua e replicarla. Volevo e voglio ancora essere un Prometeo più efficiente di quello originale, volevo essere l'uomo che porta il fuoco agli uomini.

Lei, durante questa mia battaglia, sorrideva. E la mia torcia si spegneva, i miei pensieri appassivano e io venivo iniziato ad una nuova nascita, purificato da tutta la sozzura che mi creavo intorno. La osservavo dal basso e mi maledicevo per la mia stupidità e il mio orgoglio marcio. Mi sentivo blasfemo. Non mi serviva rubare alcunché, non mi serviva riciclare nulla!

In fondo mi bastava vederla nel suo delirio lisergico per sentirmi un po' libero anche io, in fondo sapevo che sarebbe tornata giù prima o poi, anche se la paura era tanta e le certezze praticamente inesistenti, in fondo mi piaceva pensare che tornava giù per ritrovare me.

In fondo, dove mi toccava stare. Strisciante.

Tra l'atmosfera colombiana mattutina di polveri bianchi o nere, tra il sardinismo dell'ora di punta o i sogni mummificati di coperte di lino, tra la tendenze autodistruttive e quelle arriviste, entro le quali non notavo nessuna differenza.

Ero condannato a vivere, come tutti. Ma la vita non è poi così male quando hai una casa, una buona salute, fiori freschi sul tavolo ogni giorno e una musa con cui condividerla, questa tua vita.

Persino le mie percezioni stavano iniziando a diventare migliori insieme a lei.

Il tramonto mi lasciava la sensazione di sabbia nel costume, ricordi di estati passate a farsi travolgere dai cavalloni fino a quando rimanevo solo contro il fuoco del cielo e infinite creste spumeggianti; mi tornavano alla mente odori di sudore e salsedine, sassi nelle ciabatte e sotto i piedi, testate contro gli scogli, carne, scottature, conchiglie, voglia di evadere dalla famiglia e dai suoi fantasmi.

Provavo tutto questo perché lo avevo già fatto, quindi non era altro che l'ombra di altre esperienze sensibili. Come faceva invece lei, sempre rinchiusa nella sua mente, a descrivermi con esatta dovizia di particolari la mia stessa esperienza?

Per questo, inesorabilmente, tornavo a desiderare quel fuoco sacro della creazione che solo lei sembrava possedere.

Riusciva a spiegarmi talmente bene quello che io avevo provato che metteva in dubbio il fatto che l'avessi provato davvero, per poi puntualizzare che, se fosse stata normale, le sarebbero rimaste poco più di una ventina di estati da vivere.

Sempre ottimista, F.

Mi sentivo perso tra il "mio" mondo, che non riuscivo nemmeno più a sentire mio, e il "suo" mondo, dai contorni labili, labili come lei, che sentivo più familiare.

Tutto quello che serviva per descriverla e rappresentarla era la sua sinestesia, e solo così riuscivo a figurarmela: una perfetta miscela di sensazioni.

Mi si rivelava a poco a poco, sempre per parziali manifestazioni di uno stesso fenomeno; un lampo d'ambra, un nero soffio turbinante di capelli, due lumache rosse, vivide, perfette nella loro unione ermafrodita, che dividendosi lasciavano fluire fuori il frutto del loro amore, parole che si perdevano nello stesso vento da cui adorava farsi accarezzare.

La sua sinestesia passava per osmosi da dove ce n'era troppa a dove ce n'era troppa poca, fluendo lentamente in me per poi tornare a casa dalla sua creatrice, o forse dalla sua creazione. Non potevo stabilire se era lei che creava la sinestesia o se ne era la figlia, come per tutti i fenomeni umani.

Sapevo solo che ne godevo passivamente e che la cosa mi piaceva, in quell'eterno gioco di morte e rinascita.

Ero passivo a tutti i suoi moti dell'anima, non c'era niente che potessi fare. Ancora ed ancora l'avrei ammirata ed altrettante volte l'avrei invidiata.

Mi piaceva poter sfuggire alla grettezza della mia stessa visione del mondo, mi piaceva poter immaginare qualcosa solo per il puro piacere di farlo, mi piaceva poter scappare dagli schemi della mia società, nel bene o nel male.

Volevo fuggire da quell'aberrazione della fantasia che è la realtà.

L'aberrazione la riconoscevo in me, nel mio parossismo approssimativo che annullava il mondo in cui vivevo; la riconoscevo quando la giornata scivolava via senza lasciare traccia, senza un'immagine degna di nota da registrare. Come in quelle mattine senza di lei.

Non c'era bene o male, non c'era grigiore, non c'era noia: c'era solo l'apatia e la mancanza totale di motivazione e di percezioni, perse in miliardi di compiti da effettuare rigorosamente in multitasking, nel minor tempo possibile e con il maggior profitto, poiché la sopravvivenza passa da questo.

Io, immerso in un calderone di stimoli, non riuscivo a vedere nulla, come tutti gli altri intorno a me; lei, nelle fughe delle mattonelle del pavimento, nella macchie sulla tovaglia, nelle crepe dei muri, riusciva ad elevarsi sulle più alte vette del pensiero umano.

Io, perfetto modello in scala 1:1 dell'Homo Novus, attento a tutti i particolari, ansioso e ansiogeno, prolifica creatura che esegue il suo compito senza discutere, senza pisciare fuori dal cesso.

Noi, esseri umani da allevamento, con un visore indosso che ci fa vedere solo il necessario per questa stramaledetta sopravvivenza: cibo, casa, lavoro, partner per accoppiarsi, senza nemmeno poter poltrire come fanno i nostri amici maiali, che almeno non aspirano a nulla e non si vedono privati di nulla. Loro vivono perché sopravvivere è la loro unica vita.

Se inventassero un metodo per utilizzare in modo produttivo i cadaveri non ci sarebbe più estrema requie per nessuno, con buona pace del rispetto per i morti e delle pompe funebri.

Ero il prodotto di quella società, e a quella ero destinato. Ma non era colpa sua.

Perché invece lei, rigetto della stessa società che aveva prodotto me, inadatta alla vita per il semplice fatto che non ne aveva bisogno, era libera. Non aveva bisogno né di conformismo né di ribellione, era oltre l'illusione di qualsiasi ideologia perché non ne aveva bisogno.

Per arrivare a questa conclusione ci misi diversi anni, e nel frattempo avevo protetto il mio unico amore dalla vita. Avevo capito che era oltre qualsiasi concetto potessi comprendere, e che la amavo molto ma molto più di quanto amassi me stesso. Finalmente uscii dal dualismo che aveva animato la mia intera esistenza e, per la prima volta, sentii distintamente quelle sensazioni a cui anelavo. Avevo imparato a credere. Io ero sicuro che avrei passato tutta la vita a cibarmi delle sensazioni di F. come se fosse la mia flebo; in quel momento non sapevo che non sarebbe stato così, ma lo credevo.

Credevo anche di aver finalmente trovato la mia via di fuga, o forse solo la via verso casa, dove acceso mi attendeva il focolare dove brillavano intense le fiamme che mi avevano bruciato così dolcemente la carne.

Credevo che, nonostante il mio essere limitato, nonostante la mia condanna alla vita, tutto poteva essere più sopportabile, potevo continuare a godere della bellezza dell'esistenza senza esserne schiacciato dal peso, poiché finalmente anche io ero capace di credere e di immaginare.

Credevo.

Poi un bella sera di metà settembre F. mi chiese di leggerle qualcosa. Prese una vecchia antologia di fiabe, divorata più dalla mia incuria che dai ventidue anni passati dal suo acquisto.

Si accucciò accanto a me, appoggiando la testa sul mio petto, porgendomi il libro.

Le lessi la stanchezza nelle dita, che mi toccavano con tocco leggero. Gli occhi erano pesanti e spenti, chiusi in fessure che, in quel momento, mi diedero il triste presagio che la luce del sole non avrebbe mai più fatto brillare l'ambra che celavano. Mi faceva pena, ma era al contempo immensamente dignitosa nella sua debolezza.

Leggeva libri solo quando era particolarmente triste, ovvero quando pensava che, nonostante la sua immensa capacità sensoriale, niente fosse più importante, niente fosse nuovo, niente valesse la pensa di essere vissuto. In quelle rarissime occasioni aveva bisogno anche lei che qualcuno le ricordasse che esisteva qualcosa di meraviglioso o di terribile, e che in ogni caso qualcosa ancora esisteva.

Leggere i libri era la sua ultima spiaggia.

Toccava la carta e aveva una storia.

Mordicchiava i bordi della copertina e ne vedeva un'altra.

Ascoltava il fruscio delle pagine e un'intera trilogia affollava la sua testa.

Inspirava a pieno l'odore di quei mattoncini di cellulosa e poteva leggere romanzi su romanzi.

Ma non quando stava così. Quando sembrava veramente spenta leggeva davvero.

Ma quella era una sua pratica personale, che cercava di effettuare quanto più possibile in ambiente privato, quasi fosse un crimine.

Non mi aveva mai chiesto di leggerle niente.

Quella volta lessi tutto il libro. Più e più volte, solo perché lei me lo chiedeva. Voleva perdersi in quelle immagini così belle e semplici, pensando solo ad assimilarle come farebbe un bambino. Continuai anche dopo che lei si fu addormentata, finché il sonno non reclamò la sua giusta vittoria.

La mattina dopo, dove doveva esserci lei, c'ero solo io.

Mi sembrò strano che si fosse alzata da sola, ma nulla più. Non mi chiesi altro. Mi stiracchiai e posai il libro sul comodino.

Fu allora che notai una scritta che non avevo mai visto prima.

Sulla copertina dell'antologia c'era scritto “Leggimi.”

Il comando era abbastanza chiaro, e la grafia sembrava quella di F. Iniziai a sfogliare il libro.

In ogni pagina trovai delle annotazione, frammenti di tutte le impressioni che F. aveva avuto durante la sua vita.

Poesie, aforismi, schizzi. Fogli volanti piegati e infilati a dozzine nelle pagine, tanto che il libro era raddoppiato di volume.

Pagine bagnate, pagine strappate, pagine sporche di qualsiasi sostanza conosciuta dall'uomo. Fui sopreso, però nonostante tutto la cosa mi sembrò familiare. Quel libro non era mai stato così, eppure io lo avevo visto. Io lo conoscevo.

Continuai a scorrere le pagine, sempre più veloce. Riconoscevo quegli scarabocchi, li ricordavo come miei, uno per uno stavano tornando a galla nella mia mente.

Infine, in terza di copertina, “Questa sei tu.”

Sotto, una foto. Una foto di me su un ponte d'acciaio blu, mani nei capelli e gambe penzolanti.

Lo scarto di me stesso. Da qualche parte nel mondo adesso c'era un Homo Novus in più.

Ero F. e lo ero sempre stato. Ci avevo impiegato una vita ad accettarlo, e in quel momento, in quell'unico momento in cui finalmente avevo capito come avrei dovuto vivere, mi ero abbandonato.

La mia fantasia era ormai morta.

Occhi chiusi, per sempre.

   
 
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