Serie TV > The Vampire Diaries
Segui la storia  |       
Autore: almeisan_    15/12/2012    2 recensioni
[Elijah Mikaelson/Nuovo personaggio]
Questa storia prende avvio dalla 3x14, sebbene le sue origini hanno le proprie radici in un passato lontano, in un’epoca passata e colma di segreti.
Dal prologo:
Elijah non si era mai complimentato con lei, sebbene i suoi sorrisi impercettibili fossero la più degna prova di elogio ed encomio che poteva desiderare. Elijah non utilizzava mai troppe parole, le riteneva inutili dopo tanti secoli. Loro riuscivano a comprendersi con un solo sguardo.
Genere: Erotico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Elijah, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
mmm

Capitolo 3

Acts of kindness

 

Non aveva sopportato oltre quell’agonia di scorgere gli occhi di suo padre senza avere il coraggio di esplicare quell’ennesima verità. Era fuggita, sfruttando la sua velocità di ibrido, per trovare una calma che il suo cuore morto non bramava più di possedere. Aveva abbandonato Elijah. Sarebbe stato lui a dover dare spiegazioni se tanto lo desiderava. Quella situazione la feriva troppo. Ed esser conscia che Elijah l’aveva invitata soltanto per renderla partecipe di quel piano da lui stesso progettato le faceva maggiormente sanguinare il cuore. Percorse le vie di quella cittadina senza una reale consapevolezza. Il vento le sferzava l’abito e i capelli, facendoli vorticare dinanzi al volto. Le lacrime quasi divennero di puro ghiaccio sulle sue gote. Lacrime che non avrebbe mai voluto essere costretta a versare. Rimembrare la sua amata madre in quel frangente, dinanzi a sé la figura della sua ultima discendente cotanto simile a lei eppure diversa sino a essere soltanto un’estranea, era stato un colpo troppo duro, sommato alla vista di Elijah e agli occhi scrutatori di Niklaus. Percepiva un tale macigno nel suo cuore da farle credere che nemmeno le braccia accoglienti della sua cara amica dai lunghi capelli ramati avrebbe saputo sollevare. Non v’erano autovetture e non potevano percepirsi delle voci. Le case avevano tutte le luci spente segno che i loro abitanti dovevano già aver trovato ristoro nei propri letti. Scorgeva soltanto poche abitazioni illuminate. Il suono metallico di una voce della televisione. Il movimento fluido della birra che scendeva nella gola calda di un uomo. Un ringhio basso, roco, quasi animalesco le sfuggì dalle belle labbra, poi riprese la sua corsa senza fine, lasciando dietro di sé il nulla. Non s’era nutrita e già percepiva il mostro agitarsi alla ricerca di sangue. Quando si trovava in quelle condizioni, i suoi sensi erano ancora più affinati, come quelli dei lupi che cercavano le loro prede. In quei momenti desiderava tanto che il suo corpo si contorcesse in modo disumano e percepire la bestia prendere il sopravvento. Da quando era nata, mille anni prima, s’era trasformata soltanto tre volte e, perlomeno all’inizio, non era stato piacevole. Però dopo, quando sfiorava l’apice del proprio essere, s’era sentita tanto in pace con se stessa da desiderare di non tornare più alla sua forma umana. Era libera. Dalle costrizioni che il mondo le imponeva, che lei stessa s’era prescritta per non superare gli argini. Per trovar sempre una via e ritornare a casa, al sicuro. Era libera, sì, e il mostro placava la propria fame nutrendosi senza posa, non incontrando alcuna difficoltà sul proprio cammino. Ma la trasformazione finiva, quella era la parte più mesta e triste della sua lunga storia, e Penelope ritornava a essere umana, o almeno ne aveva le parvenze, sciocchi simulacri falsi e vuoti. E allora il senso di colpa cresceva a dismisura, invadendole l’animo, soffocandolo, rammentandole che l’umanità era ancora lì, latente e invisibile sì, ma capace di farle percepire lo stesso dolore che aveva provato quando da piccola era caduta da cavallo. S’era spezzata il braccio e aveva dovuto passare una settimana intera a letto. Sua madre aveva sorriso, intenerita da quel broncio che le aveva increspato le labbra, e le aveva ricordato che i cavalli non erano animali che le donne potevano maneggiare. Per una bambina cotanto piccola quello era stato un colpo al cuore. Aveva sempre creduto, nella sua totale innocenza e ingenuità, che, se solo l’avesse desiderato con tutta se stessa, avrebbe potuto ottenere tutto ciò che aveva bramato.  Non era così e aveva dovuto apprenderlo presto per comprendere che doveva aiutare la sua cara madre. Non era un obbligo imposto, esterno e freddo. Era sentito come il sentimento che nutriva nei confronti di quella donna che tentava di non farle mancare nulla, anche sacrificando se stessa per lei. Scosse il capo, esasperata da quei pensieri lontani. Forse se suo padre fosse stato lì con loro, sua madre non sarebbe stata costretta costruire da sola il suo letto ferendosi i polpastrelli delle belle mani dalla pelle morbida e profumata, oppure a prendersi cura di un’infante senza l’aiuto di nessuno nel villaggio. Sua madre non era mai stata vista bene. Perché aveva avuto una figlia all’infuori del matrimonio. Perché non si sapeva chi fosse il padre di quella creatura. Perché aveva un carattere indomito e travolgente tanto da essere scambiato dagli stolti che non tentavano nemmeno di comprendere cosa risiedesse nelle sue iridi scure e benevole, come una dimostrazione d’arroganza e sfrontatezza. Non era vero. Però non era sensato rimuginare proprio in quel momento su quei ricordi tanto lontani. S’era fermata, senza nemmeno rendersi conto di dov’era, poiché aveva percepito, finalmente, delle voci vere, vivide, reali all’interno del locale che le era davanti. Osservò l’insegna. Mystic Grill. Un nome forse banale, ma sicuramente utile. Era il bar più frequentato dai giovani di quella cittadina, l’altro era al confine Nord, quello che conduceva a Charlottesville. Soleva recarsi lì, quando era ritornata a Mystic Falls dopo la chiamata di Elijah, poiché possedeva i liquori migliori e l’ambiente era più adulto. Lì nessuno faceva domande, ognuno rimaneva al suo posto e, sebbene odiasse l’atmosfera country che vigeva nel pub, trascorreva in quel luogo parte delle proprie serate per sfuggire agli occhi scrutatori e profondi di Elijah, sapendo che no, non era più suo da molto tempo. Ma anche il Grill, si convinse, per una sera poteva accoglierla. Entrò nel locale e notò che v’erano pochissime persone. Al bancone, di legno scuro, scorse l’unico volto conosciuto. Apparteneva a un diciottenne che lavorava lì. Alto, biondo, fisico prestante, simpatici occhi azzurri colmi di fiducia, la pelle abbronzata e un sorriso gentile, onesto, puro di cuore e di spirito. Si ricordò il suo nome in un lampo. Matthew Donovan, Matt per i suoi amici. Si avvicinò velocemente al bancone, tentando di non volgere lo sguardo verso i pochi uomini che erano lì intenti a terminare la propria cena. La stavano guardando dall’alto in basso con le labbra lievemente schiuse, puntando verso le zone più attraenti. Sorrise tra sé. Se Elijah fosse stato lì, avrebbe saputo lui come sistemarli, di quello ne era più che certa. Il ticchettio dei suoi tacchi fu l’unico suono presente nel bar e si infranse quando si accomodò sullo sgabello vicino a quello di Matt. Aveva la mano fasciata e la camicia sbottonata sopra una tazza di caffè nero e fumante. Osservava il liquido scuro con un’espressione pensierosa e assorta, ma quando scorse quella presenza accanto a sé, alzò lo sguardo e lo puntò in quello della donna che gli stava sorridendo debolmente, ma con molta dolcezza. Ricambiò timido e imbarazzato come soltanto un ragazzo proveniente da un piccolo paese di provincia poteva essere.
« Scusami, non voglio interromperti, ma vorrei un sorso di caffè, se non ti spiace,» esclamò cordialmente, immergendosi nei suoi profondi occhi azzurrini e gentili, candidi d’ingenuità e innocenza. Matt li sgranò e la mano sinistra, quella che non era ingessata in modo abbastanza artigianale, si strinsero maggiormente contro il manico di ceramica bianca della tazza. Era avvampato e aveva schiuso le labbra, « Forse non è il tuo turno,» continuò con voce bassa e rassicurante, scorgendo la reazione innaturale del giovane uomo al suo fianco, « Non volevo essere sgarbata,» aggiunse nella speranza che perdonasse quella lieve mancanza di riguardo. Non era solita domandar alcunché da molti secoli. Otteneva sempre ciò che bramava, assoggettando i propri interlocutori con i suoi modi aristocratici e sofisticati, non sfruttando nemmeno il vigoroso potere della compulsione.  
« No, non si preoccupi,» affermò prontamente, sporgendosi verso di lei e dedicandole un ampio sorriso che avrebbe ammaliato molte ragazzine dell’età del giovane, « Lei è un vampiro, vero?» le chiese a una tonalità di voce più lieve, attento che nessuno potesse udire la sua condizione soprannaturale, riguardevole per la sua incolumità. Penelope quasi si stupì di quell’accortezza che il giovane le stava offrendo senza nemmeno averla conosciuta in precedenza. Gli dedicò un cenno di assenso col capo, deciso e lapidario, sebbene non fosse del tutto autentico, « Allora non dovrebbe berlo. C’è della verbena. Il sapore del caffè la nasconde,» le spiegò mite prima di issarsi piedi. Notò con la coda dell’occhio destro che v’era la presenza di un giovane, che era certa di non aver mai visto prima, accanto ai pochi scalini che conducevano al piano rialzato del locale che gli stava facendo cenno di raggiungerlo, « Può servirsi. Offre la casa,» si congedò gentilmente prima di oltrepassare il suo sgabello e dirigersi verso il suo amico. Percepì il lieve scalpiccio delle sue scarpe nere e lucide, da cerimonia, per pochi istanti mentre si perdeva nella contemplazione dei vari liquori posati sulle mensole di vetro traslucido.
« Cosa le porto, signora?» le domandò un’acuta voce femminile. Incontrò lo sguardo scuro di una giovane donna dai capelli lisci e color del platino, alquanto alta e longilinea, dalla pelle olivastra. Poteva percepire il sangue scorrere velocemente nelle sue arterie, il ritmico battito del suo cuore palpitante, lo scambio di sostanze nutritive a livello degli eterei capillari colmi di quel liquido scarlatto che le sue cellule tanto agognavano. Dal viso il suo sguardo ceruleo scese sino al collo della ragazza, dove l’arteria principale, la carotide, brillava bluastra su quella pelle abbronzata. Lì il sangue saliva più vorticoso per alimentare i neuroni e gli organi sensoriali. Percepì i canini allungarsi come quelli di un gatto, alla ricerca di penetrare quella pelle morbida e vellutata, arginare la protezione della cute e nutrirsi di quel nettare di vita che scorreva blando e vischioso. Nascose le mani sulla gonna del vestito e strinse i pugni, ferendosi l’epidermide dei palmi con le unghie curate e smaltate di bianco, per contenere la sete. Dovette far ricorso a tutta la propria forza di volontà per frenarsi dall’attaccarla e rubarle la vita e ne fu in grado soltanto quando scostò gli occhi dal collo della giovane. Respirò profondamente e sbatté le palpebre. Era stato solo un attimo. La donna le sorrideva ancora gentilmente in attesa di una sua ordinazione che non tardò ad arrivare. Era in procinto di rovinare tutto, di rivelare la propria natura in una città ricolma di cacciatori. Era instabile. Avrebbe dovuto far ritorno nella sua casa, in cui Fernand stava provvedendo a deporre i suoi bagagli, per non nuocere ad alcuno, ma necessitava di ingerire dell’alcol. Avrebbe mitigato la sua sete crescente. La donna le riempì un Martini cocktail glass, poi si allontanò per servire gli altri clienti che la stavano reclamando ai tavoli. Posò le affusolate dita della mano destra sul gambo di cristallo impalpabile e si portò il bicchiere alle labbra prima di percepire la presenza di un altro vampiro nel locale. I sensi sviluppati dai mille anni di esistenza la avvisarono dell’eventuale pericolosità e controllò a chi appartenesse tutto quel potere invincibile. Riconobbe la lieve e dolce fragranza della sorella di Niklaus e sorrise intimamente, rilassata. Poggiò i gomiti sul bancone e sorseggiò il forte cocktail per un istante, dopo aver scostato l’oliva al suo interno. I tacchi marcati dell’Originale si diressero velocemente verso di lei, seguendo il suo antecedente percorso, e Penelope poté ben immaginarsi la fronte alta e fiera della più piccola figlia di Mikael. 
« Rebekah Mikaelson, qual buon vento ti porta in questo bar?» le domandò in modo accogliente, sebbene fosse presente anche una nota sorniona e divertita, con un lieve sorriso sulle labbra piene mentre Rebekah prendeva posto al suo fianco, sullo stesso sgabello che prima aveva occupato il giovane quarterback. La stava scrutando stupita ella stessa da quelle verità sconvolgenti che aveva appreso quella sera. Era la figlia di suo fratello, di Nik, e gli somigliava davvero molto, soprattutto quando sorrideva. Increspava le belle labbra rosse e leggermente gonfie allo stesso modo, sebbene sulle sue gote magre come quelle di Tatia non si generassero le consuete fossette.
« Volevo schiarirmi le idee e vedere come sta Matt,» le rispose semplicemente annoiata, perdurando a osservarla. Dimostrava un’età sicuramente maggiore della propria, più vicina a quella di Nik. Ventisette anni, aveva affermato Elijah, quanto il tempo da cui erano divenuti dei predatori insaziabili. Allontanò da sé quelle antiche rimembranze e tornò a guardare la donna dinanzi a lei, « Sai, dopo che Kol gli ha stritolato la mano,» accennò distratta, immergendosi nello stesso Oceano che l’accompagnava da dieci secoli, non contando quella che doveva ammettere essere una breve parentesi di novant’anni.
« Quel ragazzo è gentile. Mi ha comunicato che c’è della verbena nel caffè e quindi ho optato per un buon Martini ghiacciato,» raccontò divertita, allegra, ma era soltanto una maschera e Rebekah fu subito in grado di riconoscerla. In fondo il suo sesto senso, o il suo infallibile intuito come soleva appellarlo Nik, non sbagliava mai. Penelope non era ciò che sembrava, e la malinconia presente nei suoi antichi occhi fu la più concreta dimostrazione per la sua tesi. Comprese prontamente quale fosse la destinazione dei pensieri di quella che aveva appreso essere sua nipote.
« E così tu sei…» cominciò divertita prima che la vampira sollevasse la mano sinistra, frenandola dal continuare la frase. Nel suo sguardo v’era una tale serietà da rammentarle il suo caro Elijah. Il sorriso s’era spento del tutto e i suoi occhi s’erano incupiti notevolmente, sino a divenire plumbei cieli pregni di nubi cariche di pioggia. Rebekah non andò oltre, serrò completamente le piene labbra rosate e deglutì a vuoto rimembrando che Nik soleva possedere la stessa espressione mentre discorrevano del periodo in cui erano soltanto degli umani. La malinconia, terribile per loro creature della notte senza alcuna possibilità d’esser redente né da una qualche divinità né dall’intera umanità, soffocò quelle belle iridi per poco più di un istante, poi Penelope distese le labbra in un impercettibile sorriso pacato e sollevò il suo stem cocktail glass, come per brindare all’Originale.
« Su i bicchieri giù i pensieri,» esclamò divertita prima di sorseggiare tutto l’alcolico in un solo sorso. Rebekah sorrise, mite, per quella frase che non era molto adatta a una donna del calibro di quella particolare vampira, poi il suo sguardo azzurrino scorse la longilinea figura di Matt abbandonato su uno degli ultimi sgabelli sulla destra, poco distante dalle due. Rebekah si issò in piedi. Avrebbe dovuto uccidere quel ragazzo per far soffrire quella sgualdrina di una doppelganger che aveva osato pugnalarla alle spalle dopo che lei, un’Originale, un’Antica, le aveva raccontato la loro storia rendendosi vulnerabile. Alla pari di una neonata. Quella ragazzina l’aveva umiliata e Rebekah detestava chi intaccava il suo forte senso dell’orgoglio e della dignità per se stessa. Però non era stata in grado. Penelope aveva perfettamente ragione. Quel giovane uomo, quel Matt Donovan, aveva compiuto un gesto d’assoluta cortesia senza nemmeno rendersene davvero conto. Quando le aveva porto la sua giacca, che profumava d’ammorbidente alla lavanda, e l’aveva posata sulle sue esili spalle candide, Rebekah aveva percepito qualcosa dentro di sé, qualcosa che credeva d’aver perduto da quando Stefan, il suo Stefan che sembrava aver obliato i momenti trascorsi insieme a lei, non provava più nulla in sua presenza. Era stato soltanto per un attimo, ma non poteva dimenticare il sorriso timido e appena accennato che gli aveva rivolto prima di scorgere la figura di Kol in procinto di attuare il loro piano.
« Io vado…,» sussurrò ancora assorta nelle proprie meditazioni prima di sfiorare distrattamente l’avambraccio sinistro di sua nipote in una mite carezza e avanzare a passo deciso verso il diciottenne. Penelope non si stupì di quel gesto improvviso, però, internamente, fu felice di quell’accortezza nei propri riguardi. La sete era stata mitigata dall’alcol e dal momento trascorso con la vampira più anziana di qualche anno, ma tornò prepotentemente a occuparle la mente, incendiato le vene del suo corpo morto. Era una sensazione di indescrivibile afflizione, ma non poteva abbandonarsi alla fame, non in quella città e non in quel momento. Era un obbligo, un imperativo nella sua mente. Eppure bramava mostrare la propria natura di predatrice. Avrebbe potuto uccidere ogni persona presente in quel piccolo locale cittadino, una decina di uomini adulti sicuramente padri di famiglia, in poco più di due secondi. Avrebbe potuto percepire il loro sangue caldo invaderle la bocca, poi l’esofago e infine tutta se stessa, dandole una parvenza di vitalità. Sarebbe bastato poco. Avrebbe soltanto dovuto abbandonare quel rudimentale sgabello di legno, che le riportava alla mente quelli delle antiche taverne, sguainare i canini e attaccare per spegnere quel dannato pulsante che desiderava farle sentire ogni elemento. Gli occhi scuri di Elijah che la osservavano con accortezza, amore, passione, desiderio. Occhi che le avevano sempre sorriso, che l’avevano fatta innamorare già dal primo istante in cui li aveva scorti, che l’avevano accolta quando aveva ritenuto di non posseder più nulla, né l’umanità né le tenebre. La risata argentina e cristallina di sua madre che le palesava tutto il proprio affetto e riguardo nei suoi confronti, che la rendeva felice con impercettibili gesti, le dimostrazioni più elevate del bene che nutriva per lei, la sua unica figlia avuta con il grande amore della sua esistenza. I rari sorrisi di Niklaus, il suo caro padre che aveva sempre e soltanto scorto da lontano, come se le fosse stato proibito da qualche entità celeste di appropinquarsi e ricongiungersi a lui, completando entrambi e annullando quel senso di inadeguatezza e vuoto che alimentava come carbone nocivo le loro anime. Penelope chiuse gli occhi e sospirò. Quanto avrebbe bramato eliminare quelle rimembranze. Non avrebbe più percepito nulla dentro di sé e sarebbe divenuta soltanto un’implacabile assassina per l’eternità.
« Amichetta di Elijah e figlioletta di Klaus,» la salutò una voce conosciuta con quel tono sarcastico e sensuale. Penelope non aveva nemmeno avvertito la sua presenza, cotanto presa nelle proprie riflessioni. Non s’era accorta che aveva preso posto alla sua destra e aveva una bottiglia panciuta di quello che sembrava essere un bourbon d’ottima annata. Il liquido era stato quasi del tutto ingerito dal vampiro al suo fianco. sorrise per quei due appellativi e spalancò lo sguardo ceruleo per poi puntarlo in quello ancora più azzurro del vampiro dagli occhi di ghiaccio, come soleva appellarlo lei stessa.
« Damon, perché sei così scontroso con me?» domandò rilassata, pacate, con un lieve sorriso sulle labbra mentre l’altro ingeriva quel poco d’alcolico rimasto, come per brindare in suo onore. Damon, poi, posò la bottiglia sul bancone, le rivolse il suo sorriso storto, sollevando l’angolo sinistro delle sue belle labbra esangui, e si sporse di più verso di lei, scrutandola accattivante e avvenente. Subito dopo scrollò le spalle e un’espressione di sufficienza gli indurì i bei lineamenti aristocratici.
« Non lo so. Forse perché tu ed Elijah siete venuti meno al patto che avevamo stretto prima del sacrificio,» le ricordò distrattamente prima di distendere il braccio destro, sfiorando il suo sinistro con il raso della sua giacca elegante, e prendere un bicchiere per poi riempirlo e porgerlo a lei.
« Elijah ha assicurato per me, vero?» lo interrogò prima di ridere lievemente. Se lo portò alle labbra e le posò sulla sua superficie vetrosa e trasparente, « Come ai vecchi tempi,» esclamò prima di terminarne il contenuto, « Non ti avevo promesso nulla, tesoro. Anzi ero la prima a volere quella maledizione spezzata,» gli rivelò posandolo sul bancone e muovendosi sullo sgabello per potergli essere maggiormente vicina. Quel ragazzo, quel neonato in confronto a lei, l’aveva sempre incuriosita, le era piaciuto sin da subito. Era attraente, scaltro, aveva un ingegno davvero fuori dal comune, un accentuato senso dell’umorismo e, inoltre, aveva dei modi molto signorili.
« Perché? Per poter diventare un essere zannuto e pieno di peli?» le chiese divertito, sebbene vi fosse una nota irritata e assorta. Tentava di carpirle quel segreto che l’accompagnava da mille anni e che non avrebbe rivelato nemmeno se avesse avuto dinanzi a sé il proprio aguzzino. Soltanto tre persone ne erano a conoscenza, ed erano degne della sua più completa fiducia. Penelope stessa, Elijah e Sage.
« Queste sono questioni mie, viso d’angelo,» sussurrò suadente posando l’indice sulla sua guancia sinistra glabra e perfettamente liscia, dalla pelle morbida e profumata di colonia, percorrendola in tutta la propria interezza, sino alla mascella inferiore. Damon non la scostò, né si irrigidì, si stupì soltanto di quel gesto cotanto intimo, che doveva riportargli alla mente antiche memorie. La guardò meglio, come per scorgere in lei qualcosa di familiare, poi sgranò gli occhi azzurrini e incredibilmente profondi. Penelope sospirò lievemente, poi sorrise divertita, gli occhi brillanti d’astuzia, « Non essere arrabbiato con me. È stato tanto tempo fa.» Damon rise, leggero, scuotendo il capo prima di bere direttamente dalla bottiglia, facendo rimanere soltanto poche gocce al suo interno. La risata di Damon era sempre sconvolgente, doveva ammetterlo, e percepirla in quella condizione in cui il profumo della sua pelle candida si mescolava a quello acre del bourbon avrebbe attratto qualsiasi donna. E non era mai stata del tutto indifferente a quel fanciullo.
« Ti fermerai in città per quanto esattamente?» le domandò incuriosito, inclinando il capo di lato, «  Sai, Stefan ha fatto cacciare gli ibridi da Mystic Falls dal tuo caro paparino. Non voglio ritornino,» aggiunse facendole l’occhiolino. Penelope sporse il busto verso il vampiro, posò la guancia sulla sua e inspirò il suo lieve profumo. Aveva sempre ritenuto che la colonia fosse irresistibile su di un uomo prestante e avvenente. Soleva posarla sulla pelle vellutata del suo Elijah da quando la sovrana d’Inghilterra l’aveva donata al proprio consorte.
« Tutto il tempo che desidero,» sussurrò maliziosa mentre Damon si muoveva inquieto come per trarla maggiormente a sé, « Io gioco secondo le mie regole. Fallo anche tu,» gli suggerì posandogli un lieve bacio sulla gota, prima di issarsi in piedi e osservare Rebekah. Aveva il volto ferito mentre Matt l’abbandonava lì come se fosse stata una ragazzetta qualunque. Le dispiaceva scorgerla in quello stato, con le labbra schiuse mentre sbatteva le palpebre come per trattenere le lacrime. Avrebbe voluto appropinquarsi alla sua unica zia e riferirle che non avrebbe dovuto permettere a nessuno di farle dubitare di se stessa e della propria naturale e soave avvenenza, ma Damon posò gentilmente le sue lunghe dita bianche affusolate intorno al suo polso, attirando nuovamente la sua attenzione.
« Mi stai dicendo che sono…,» alluse divertito per permetterle di continuare la frase da lui incominciata. Penelope sorrise e si chinò nuovamente sul ragazzo. I suoi mossi capelli castano chiaro sfiorarono la gota di Damon che l’osservava incredulo, con sarcasmo sempre più calante dinanzi al suo sorriso appena accennato, colmo d’affetto. Le sembrò che fosse ritornato infante e la stesse osservando con gli stessi occhi sgranati dall’ingenuità, dall’innocenza e dalla disarmante bellezza. Le labbra, come boccioli di rose, erano appena schiuse e si poteva intravedere la perfetta e scintillante dentatura candida e le sue lunghe ciglia nere sfioravano gli zigomi poco pronunciati.
« Sei soggiogato dalle belle labbra della piccola Elena Gilbert,» mormorò con voce lievemente arrochita e seducente a un soffio da quelle del vampiro che sbatté nuovamente le palpebre, stupito da quella frase, « Divertiti, Damon. I moralismi appartengono a Stefan. Sii impulsivo. Riprendi te stesso,» gli suggerì mentre Damon schiudeva del tutto le labbra. I loro respiri si unirono prima che Penelope ridesse leggera dinanzi all’espressione del vampiro più giovane. In un lampo, dimentica di ogni buonsenso, si appropinquò all’uscita del locale, posando la mano sul cardine di legno scuro. Poi si volse verso di lui. Damon era ancora abbandonato sullo sgabello, con i gomiti posati sul bancone e il busto rivolto verso di lei. Aveva assunto quel suo sorriso sghembo, tremendamente avvenente, e aveva sollevato le sopracciglia allusivo nel scorgere il suo sguardo ceruleo ancora incatenato al proprio. Per un attimo rimuginò seriamente su quella prospettiva, ma l’accantonò subito. Non aveva mai, mai tradito Elijah, e non aveva la minima intenzione di incominciare a compiere adulterio proprio in quel momento. Gli aveva giurato amore eterno ed era certa che, seppur fosse palese che l’Originale non fosse incline a desiderar cedere alle sue lusinghe, anche l’Antico non fosse mai venuto meno al loro sacro legame. Distese le labbra in un lieve sorriso e trattenne a stento un sospiro. Elijah, tutto la riportava lui ed esser conscia che per lei sarebbe stato sempre e soltanto lui era al contempo immensamente dolce e spaventoso. Fece un impercettibile cenno col capo al vampiro, indicandogli Rebekah che, sola e mesta, aveva posato gli avambracci conserti sul bancone e aveva il viso chinato sul legno venato, poi scomparve nella notte buia e senza stelle. Il cielo era coperto da nubi nere che lo scurivano. La Luna, maestoso satellite padrone degli eventi naturali, era in grado di penetrare quelle coltri scure a intervalli poco regolari, mostrando il suo volto latteo e beffardo. La scrutò per non più d’un istante prima di percorrere nuovamente a velocità supersonica le vie deserte della città. A quell’ora non si percepiva più nulla, né movimenti né suoni. Tutto era calmo, addormentato, sebbene vi fosse una leggera brezza che manovrava le fronde degli alberi del parco cittadino che s’agitavano blande. Una giostra che in più punti aveva perso la propria vernice gialla come il Sole produsse uno stridio simile a quello che produceva lo sfregamento delle unghie contro una lavagna. Delle foglie secche danzavano sul prato ben curato dei giardini delle villette a schiera bianche. Si ritrovò dinanzi a una di esse. Era di modeste dimensioni, di legno d’acero chiaro e dall’esterno si potevano scorgere due grandi finestre, una per la sala e l’altra per la cucina, al piano inferiore, tre al piano superiore e una tonda che apparteneva alla soffitta. Era la casa in cui Elijah aveva alloggiato prima che si compiesse il sacrificio. Avanzò verso di essa e notò che il giardino era ancora ben curato, all’inglese, come piaceva all’Originale. Non v’era una patina di polvere sul corrimano bianco e sulle scale che conducevano al pianerottolo. Alla sua sinistra, in prossimità della finestra della sala, v’era un tavolino ovale di cristallo dove solevano versarsi una tazzina di tè e discorrere dei piani per sconfiggere suo padre. Sbuffò divertita da quei ricordi. Gli aveva mentito, sebbene fosse certa che Elijah avesse compreso da sé che non avrebbe mai ucciso l’uomo che aveva osservato con affetto per innumerevoli secoli. Prima che potesse anche solo bussare, Fernand aprì la porta di casa.
« Signorina Petrova, la vostra casa,» esclamò gentilmente il suo autista rivolgendole poi un sorriso caloroso. Fernand era stata una delle sue benedizioni. In lui aveva trovato un vampiro silenzioso e gentile, obbediente e grato, in grado di accettare le decisioni imposte dall’alto senza vederle come un’intimidazione, ma come qualcosa di estremamente positivo. Non ve ne erano molti al mondo. Penelope ricambiò il sorriso, con un velo di stanchezza, poi avanzò per il corridoio immerso nell’ombra della oramai sua casa. Era un’abitazione semplice, tipica delle villette a schiera circostanti. Alla sinistra v’era una porta che conduceva alla stanza principale, a destra un’altra per la cucina e il bagno inferiore. Dinanzi a sé aveva le scale che conducevano al piano superiore contenente tre camere da letto. Il vampiro più giovane di molti secoli rimase sulla soglia e Penelope si volse dall’entrata della sala, la più grande sala sulla sinistra.
« Fernand, grazie. Puoi lasciarmi sola,» mormorò con una lieve nota dolce prima di lasciarsi sprofondare nel divano di comoda pelle bianca e profumata. Il vampiro le rivolse un’impercettibile riverenza col capo prima di scomparire nella notte buia chiudendosi la porta alle spalle. Penelope chiuse gli occhi, sospirando e passandosi una mano tra i lunghi capelli castani dai riflessi biondi. Quella festa era stata estenuante, tragica, eppure ripensare alle braccia di Elijah che la stringevano dolcemente in quel valzer datato le provocava un brivido lungo la schiena che era impossibile arginare. Elijah era tutto per lei. Dopo tanti secoli, troppi anni, nulla era cambiato. Tranne lui. Elijah non l’amava più. Quel sentimento genuino e puro che li aveva legati era scomparso del tutto. Non rimanevano che le ceneri di quell’amore che lei aveva ritenuto essere eterno. Ingenua. Penelope sorrise amaramente per quel pensiero sfuggente. Lo era davvero. Almeno per quanto concerneva Elijah e Niklaus. Ma la vita di un immortale non sarebbe stata niente se non avesse avuto un motivo ispiratore, un’illusione utopistica a cui aggrapparsi. E lei l’aveva. Da troppo tempo. Era arrivato il momento. I tempi erano oramai maturi per una sua mossa. Il suo piano era studiato nei minimi dettagli, nulla era stato lasciato al caso. Era tempo di agire.

-_-_-_-_-_-_-

Più di cinque mesi di ritardo. Lo so, è davvero una cosa orribile, ma sarebbe stato ancora più orribile non continuare questa e l’altra storia. E quindi sono tornata. Da ora in poi aggiornerò regolarmente, ogni sabato sera. Spero che non abbiate dimenticato questa storia, ma, se l’avrete fatto, sarebbe anche comprensibile. Un bacio grande a chi vorrà continuare a seguirla, almeisan_

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The Vampire Diaries / Vai alla pagina dell'autore: almeisan_