Autore:Leyton_Nenny
Titolo: Il folle volo di Carol
Paese scelto:
Brasile
Fandom/Originale/RPF:
Originale
Tipologia: One-shot
Rating:
Verde
Genere: Drammatico
Avvertimenti:
//
Introduzione: //
NdA: A
fine composizione.
Il folle volo di Carol
Carol
era nata per strada, il sole era tramontato da un pezzo quando le
urla di sua madre avevano straziato il silenzio della piccola baracca
in cui si trovava.
Ad
esse si era ben presto unito il pianto di una bambina.
Sua
madre non l'aveva guardata nemmeno – questo ovviamente lei
non
poteva ricordarlo, era solo ciò che qualcuno le aveva
raccontato –
e aveva spostato la testa all'indietro, respirando la fredda aria
notturna.
“E'
una femmina” l'aveva informata la donna che aveva aiutato la
madre
durante il parto, guadagnandosi una semplice cenno in segno di
assenso.
“Sembra
forte” aveva sussurrato un presente. La donna aveva chiuso
gli
occhi, reprimendo le lacrime.
A
cinque anni Carol era stata mandata per strada, fermava ogni turista
– gli zigomi affilati dall'astinenza dal cibo e gli occhi
pieni di
lacrime per la polvere.
Ma
nessuno si fermava, nessuno la guardava negli occhi.
Una
volta si era spinta fin dentro la città: era il luogo
proibito,
pieno di grandi case e cassonetti pieni di cibo – era
disgustata
dai ricchi che non sapevano cosa voleva dire l'odore della pioggia e
il sapore del pane non lievitato cotto nei barili. Sapeva di
bruciato, ma era meglio della fame.
In
quel periodo vi era il Carnevale, la città era invasa da
colori e
suoni, musica ritmata e ballerine che muovevano i loro corpi perfetti
quasi completamente nudi: erano corpi muscolosi e affinati, non magri
e ridotti all'osso dalla fame come il suo.
Fu
proprio quel giorno che conobbe Bruno, un ragazzino della sua
età
che le si era avvicinato e aveva sorriso.
“Ciao”
aveva esordito guardandola negli occhi.
Lei
era rimasta in silenzio, così lui aveva ripreso:
“Come ti chiami?”
Carol
non aveva risposto nemmeno questa volta sostenendo lo sguardo del
bambino “Non sai parlare? Io mi chiamo Bruno”
Lei
era stata costretta ad abbassare lo sguardo. “Carol”
Il
ragazzo odorava di biancheria appena lavata e stesa al sole e aveva
un colorito rosato sulle guance – da questi segni si poteva
asserire con certezza che non aveva mai patito la fame che a lei
attanagliava lo stomaco ogni secondo.
“Hai
fame?” le aveva chiesto dopo un po'. Lei aveva annuito.
Non
avevano più parlato, ma Carol l'aveva seguito fidandosi di
quel
ragazzino con i capelli corvini e gli occhi color mogano, proprio
come i suoi.
“Ti
piace il Churrasco?”
Lei
l'aveva guardato interrogativa, e lui aveva sorriso bonario.
“E'
buono” aveva provato a rassicurarla prima di prenderla per
mano e
portarla fino ad un grosso spiazzo, in cui la brace ardente
scoppiettava per il grasso colato dai pezzi di carne sovrastanti, che
erano infilzato in grossi spiedi.
Lui
aveva comprato un po' di quello che sembrava essere maiale –
non
che potesse dirlo con certezza, ma il colore bruciacchiato e l'odore
erano gli stessi che aveva già visto dentro quei cassonetti
che
costituivano la sua fonte di sostentamento primaria – a cui
poi
erano state aggiunte verdure e fagioli e le aveva portato il piatto,
facendo attenzione a non versarne il contenuto, le aveva fatto cenno
di sedersi e l'aveva osservata mangiare.
Carol
gli aveva offerto di favorire, ma lui aveva scosso la testa,
osservando il suo profilo.
“Dove
abiti?” le aveva chiesto lui non appena aveva finito il pasto.
Lei
aveva indicato la parte bassa della città, senza dire una
parola.
“Sai,
si vede il tramonto” aveva provato a infiocchettare la
propria
ubicazione.
Lui
aveva sorriso, sdraiandosi sull'erba bruciata dal sole.
“Dev'essere
bello”
“Dovresti
venire”
“Potrei”
Bruno
non era più venuto.
Carol
aveva spesso osservato la strada, in attesa di vedere il suo volto
sorridente comparire oltre le altre abitazioni.
Aveva
quindici anni quando udì uno sparo.
Col
cuore che le tamburellava nel petto, si era affrettata, per quanto le
esili gambe le permettessero, verso quella direzione, prima di veder
comparire il volto di quel ragazzo. Subito si era gettata verso di
lui, tamponando con le proprie mani la ferita che si trovava sul
fianco destro – il liquido viscoso aveva presto impregnato le
sue
mani e i suoi capelli.
“Si
vede il tramonto, avevi ragione” aveva sussurrato Bruno al
suo
orecchio, prima di morire tra le sue braccia.
Fu
il giorno dopo, che decise di fare come tutti gli altri della strada:
la colla era la soluzione migliore, una strada facile, per fuggire ad
ogni problema.
Ma
non bastava.
Quindici
giorni dopo Carol si era fumata ogni speranza: i sogni erano
sbiaditi, come il sole che cedeva il passo all'incessante notte.
E
fu proprio davanti al tramonto, che decise di volare.
Lentamente
aprì le braccia, inspirò la luce del sole morente
precipitando
negli ultimi raggi dorati.
Non c'è speranza per chi nasce nelle favelas.
Appena ho scelto il Brasile, ho subito voluto
scrivere qualcosa su
questo argomento, qualcosa di estremamente deprimente e bla bla bla.
Lo
ammetto, ho forzato tantissimo i prompt – l'immagine nella
parte
finale del suicidio, la canzone per il carnevale – ma boh,
volevo
fare una cosa del genere.
A
dire la verità, all'inizio il protagonista –
ebbene sì, doveva
essere un ragazzo – doveva semplicemente essere dipendente
dalla
colla, e da qui veniva fuori una cosa in stile “Le porte
della
percezione” di Huxley, ma alla fine mi sono riadattata a
questo.
Sappiate che comunque il suicidio era già in mente,
nell'altra
versione mettevo proprio la tomba, ma in questa mi piace che finisca
col semplice volo.
Comunque
l'idea di scrivere una cosa così deprimente mi è
stata data da
Katia, una mia amica brasiliana che ringrazio, anche se non
leggerà
mai la dedica, perché mentre parlavamo dei problemi dei
nostri paesi
– e io ammetto di esserci andata giù pesante
parlando dell'Italia
– quando a toccato l'argomento favelas aveva gli occhi
lucidi, sul
punto di piangere. E io mi sono sentita piccina picciò,
perché mi
lamento per un sacco di cose inutili, e alle volte nemmeno me ne
rendo conto.
Dio,
mi sento ancora in colpa.
Ma
lasciamo stare le mie seghe mentali.
Comunque,
la frase che chiude la composizione, è stata proprio la
frase che
più mi ha colpito del suo discorso.