Anime & Manga > Death Note
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Autore: MadLucy    16/12/2012    2 recensioni
Giappone, 2025. Nel vecchio quartier generale dell'SPK cresce una bambina, consegnata quindici anni prima da Mello al suo più acerrimo rivale.
Inghilterra, 2025. Un misterioso studente della Wammy's House parte per il Giappone, portando con sè un quaderno nero e una Shinigami petulante.
Usa, 2025. Un esperimento genetico iniziato nove anni prima, il cui scopo era creare un essere umano dall'intelligenza devastante, ha esito positivo.
Spagna, 2025. In seguito a una serie di barbari e atroci omicidi, una ragazza dagli occhi rossi viene internata in un manicomio.
E Death Note può ricominciare lì dov'è finito.
Genere: Generale, Malinconico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri personaggi, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Fuga.


Damasco, 2004.

La luce moriva lenta sui vetri delle finestre, dissolvendo il suo pacato bagliore in un buio torvo. Le ombre sul pavimento divorarono ogni ritaglio di sole e si addensarono a ridosso del pavimento e delle pareti, come pennellate di un pittore distratto. Suo padre fissava implacabile la notte fiorire, spandersi come una macchia d'inchiostro nel cielo, e non si mosse.
La bambina accettò quel silenzio senza discutere e non volle nemmeno tentare di violarlo, convinta che non ci sarebbe riuscita. L'orologio che aveva al polso ticchettava distrattamente le ore scadere, senza calma nè fretta, il ritmo monocorde di quel pomeriggio silenzioso. Sul tavolo stampe ed appunti giacevano sparpagliati, come scossi da una folata di vento, un muffin al cioccolato su cui spiccava un bel morso e una tazza di caffè troppo zuccherato ormai gelido. Il silenzio stagnava fra di loro, forse aspettando o forse no.
Infine, L sospirò impercettibilmente e allontanò il pollice dalle labbra, lo sguardo ancora assorto oltre il vetro, in contemplazione di qualcosa che sfuggiva a tutto il resto del mondo.
-Devo andare, adesso. Ma domani non tornerò alla solita ora.-
La bambina dai capelli chiari sollevò la testa, un po' sorpresa dal sentire il suono della sua voce dopo tante ore, un po' da quella rivelazione.
-E quando?-
-Mai più, probabilmente.- ammise L, con franchezza. -Devo andare a risolvere un caso.-
La piccola esitò, strofinando con i polpastrelli una ciocca di capelli. -E morirai?-
-Credo di sì.- L si alzò in piedi, affondando le mani nelle tasche e esibendo la sua caratteristica postura, storta quanto un ramo autunnale. Non incrociava il suo sguardo.
Lei rimase zitta, cercando qualche obiezione. Non si stupì troppo nel non trovarla: suo padre era nato per salvare il mondo, e lei non era certo nata per cambiare il suo destino. Sapeva, forse, che quel giorno prima o poi sarebbe arrivato. Quello in cui la morte sarebbe venuto a portarlo via, come debito per tutte le anime che lui stesso le aveva sottratto.
Lo osservò e si chiese quante volte avrebbe rivangato nella memoria quegli istanti, in futuro.
-Non potrò contattarti altre volte, c'è pericolo d'intercettazione. Se vuoi dirmi addio,- proferì L con voce atona, -forse questo è il momento giusto per farlo.-
-Addio.- disse la bambina, con voce priva d'inflessioni.
L'investigatore le si avvicinò lentamente e si chinò di fronte a lei, con espressione indefinibile.
-Finora mi hai sempre risposto senza badarci troppo, ma ora rifletti. Vorrai prendere il mio posto, quando Near non ci sarà più?- La sua voce era ridotta ad un mormorìo. Il frastuono della notte, auto che ringhiavano sull'asfalto e luci aspre di lampioni e pesantezza di sonno placido nell'aria, quasi la sovrastava con insofferenza.
La figlia frugò incuriosita in quegli occhi pieni di buio, più che fuori dai vetri. Erano traslucidi -poteva scorgere un profilo vago dei suoi lineamenti- ma colmi di qualcosa di ferreo.
-No, non voglio.- dichiarò, con voce limpidamente ferma. L annuì con il capo, piano, quasi non avesse mai avuto dubbi della risposta.
Si chiese, un po' interdetta, come mai non tentasse di persuaderla. O, se davvero rispettava la sua decisione, perchè le avesse fatto quella domanda.
-Lo so che la tua vita non è stata il massimo negli ultimi quattro anni.- iniziò il padre, tranquillo. Lei inarcò un sopracciglio.
-Io ho quattro anni.-
-Credi che non lo sappia? Fammi finire, per piacere.- L fece una pausa, poi riprese. -So che non è stata il massimo, ma non era mia intenzione farti mancare nulla. Non credo di essere stato poi così male, pur non essendo un esperto di bambini. Mi auguro almeno non sputerai sulle mie fotografie, da grande.-
La bambina scosse la testa, con sussiego. -Non esistono tue foto, d'altronde.-
L la guardò.
-No, non sei così male, penso.- confermò infine la piccola, alzando gli occhi al cielo.
-Ancora prima che nascessi, ero convinto che farti nascere sarebbe stato soltanto un inevitabile supplizio. Per me, per te.- L parlò con lentezza, e per la prima volta nei suoi occhi apparve qualcosa di significativo a spezzare la sua imperturbabilità, una coltre di nubi, uno strato di polvere.
-Per la mamma.- Anche la voce della figlia era cauta.
L si riscosse bruscamente. -Sì, anche per lei. Ora ascoltami, perchè non potrai farlo mai più. La tua vita non sarà facile e non sarai tu a rispondere di te stessa, e tutto questo solo per colpa mia. Ti chiedo perdono per tutto quello che ti toccherà, o semplicemente per ogni istante della tua vita che mi perderò. Ma il motivo lo sai.-
Si alzò, in uno scricchiolare impressionante di ginocchia. La fissò per qualche istante, pensoso, prima di baciarle la fronte con labbra fredde e leggere.
La piccola socchiuse gli occhi, imprimendo quel contatto nella memoria e tenendosi ben aggrappata al ricordo, affinchè non si dileguasse. Quel bacio lasciò un segno, un'ustione, una ferita. Rimase lì, come una cicatrice destinata a non lasciarla mai.
Prima di uscire dalla sua vita, prima di chiudersi la porta alle spalle, suo padre parlò.
-Ti elogeranno, ti malediranno, ti odieranno, sarai rovina e salvatrice. Il tuo sarà il compito più importante del mondo, L.-
Queste parole scivolarono lente come foglie morte al vento. La porta si chiuse, il buio ripiombò energico.
L. La bambina sospirò, rassegnata, realizzando che non era mai esistita nessuna scelta da fare.
L.

Damasco, 2013.

Non si era ancora addormentata quando lo udì. Un rumore appena percettibile, sottile quanto le fusa di un gatto. La finestra che si apriva, scassinata fin troppo abilmente.
L si sollevò rapida dal materasso, sgranando gli occhi, spaventata ma ben consapevole di ciò che doveva fare. Come suo padre le aveva raccomandato molti anni prima, frugò nell'armadio che fiancheggiava il letto e tastò il fondo alla cieca. Lo sentì, qualcosa di freddo e liscio: una maschera di porcellana candida. La strinse fra le mani, poi con un attimo di esitazione afferrò anche quello che vi era sotto e richiuse l'armadio, appellandosi a tutto il coraggio possibile, per poi aprire la porta e mettersi a correre lungo un corridoio buio. Il silenzio era distaccato e spaventoso, come una trappola in attesa di scattare. La tensione attese, sfibrante, dolorosa.
L indossò la maschera e camminò in punta di piedi. Il suo obiettivo era la porta in fondo, che conduceva alla scale della cantina, dove lei sapeva esserci una botola che l'avrebbe condotta fuori. Dubitava che ci sarebbe potuta arrivare, d'un tratto quella distanza le parve infinita. Le piastrelle erano fredde sotto le piante dei suoi piedi, l'aria arida nella gola riarsa.
Nella cortina del buio, due occhi rossastri seguivano la sua fuga.
-Ciao, L. Che bello conoscerti.- La sua voce risuonava limpida come gocce d'acqua in una grotta cavernosa.
L sospirò rassegnata, un rivolo di paura sottile a scivolare lungo le sue ossa. Scosse la testa.
-Perchè sei venuta qui? Torna a casa, Rowena.- replicò secca, con fermezza. Ma la paura strappava ed inghiottiva la sua determinazione, brandello dopo brandello.
-Come perchè? Come perchè?- Emerse, dal buio rannicchiato in fondo al corridoio, la figura di una ragazzina magra, esile, dai capelli castano pallido sforbiciati malamente in ciocche disuguali. Il volto cadaverico era contratto in un'espressione di giubilo, euforia, esaltazione quasi folle. Alla luce spettrale di una luna pallida gli occhi non sembravano rossi, piuttosto neri; erano strabuzzati grottescamente, in maniera convulsa, spaventosa. C'era qualcosa di malsano nel suo viso, poco infantile, quasi una frenesia deleteria.
Doveva avere all'incirca la sua età, forse un po' più giovane. Non era bella, quell'emozione che deturpava il suo volto.
-L, L...- canticchiò trasognata, fissandola con un'intensità dolorosa, incidendola a fondo, come se desiderasse sottrarle i pensieri dagli occhi. -Quanto parlava di L, mio padre. Sempre L. E poi si arrabbiava, perchè allo specchio vedeva qualcuno...- Iniziò a camminare, senza fretta, esaurendo a passi misurati la distanza sempre più breve che le divideva. Non aveva un'espressione palesemente minacciosa, ma i suoi occhi erano ancora sgranati ed ora, grazie ad un soffio fugace di luna, L riuscì ad intuirne all'interno una sfumatura corniola. Aveva un'espressione assente, assorta, e la sua voce leggera e sfibrata si perdeva nell'aria rigida di tensione.
Si impose di non arretrare. Dimostrare paura era sbagliato. Rendeva deboli, fragili agli occhi dell'avversario. Ma era dannatamente difficile guardarla e rimanere fermi, mentre una voce cauta nella sua testa le bisbigliava come un disco rotto di scappare lontano.
-... qualcuno,- ripetè in un sussurro che sfiorò il silenzio, -che assomigliava molto ad L. Sembrava L. Socchiudendo un po' gli occhi, sarebbe potuto essere L. Ma non... era L.-
Un bagliore di ferro, freddo e acuminato, fendette la cortina del buio rapidamente. Rowena lo fece scivolare dalla manica con naturalezza, senza gravità, quasi non fosse quel che era. Nemmeno quel gesto fu fatto con rudezza, ma ormai la situazione era inequivocabile.
-Perchè tieni quella addosso, L? Perchè ti nascondi? Fuggi da me?- La sua voce si fece appena acuta, facendola assomigliare paradossalmente ancora più ad una bambina.
-Fai la cosa giusta e vattene. Rowena, ascoltami.- L stabilizzò la voce, adirata, ma scossa da un tremito. -La guerra è finita.-
Rowena ora le sorrise. Se possibile, la curva sulle sue labbra fu così morbida e spontanea che per un attimo dubitò della pericolosità della persona che le stava di fronte. Un attimo.
Quella era una ragazza pazza. Dimenticarlo poteva essere letale. 
-La guerra non finirà finchè ci sarà qualcuno disposto a combatterla.-
Quando le si avventò addosso, non la vide. Fu come il balzo di una tigre, istantaneo e improvviso, così che la sua mente non ebbe nemmeno il tempo di realizzare quel movimento. In un secondo, sentì la testa colpire bruscamente la durezza implacabile del pavimento e si trovò a guardare il riflesso della sua maschera candida nelle iridi eccitate di Rowena.
-Cos'è questa? Perchè la tieni sulla faccia? Scommetto che sei bella, L. Fammi vedere che bella che sei. Fammi vedere che bel nome che hai.-
Sfiorò, con la punta delle dita e una curiosità quasi morbosamente vogliosa, la porcellana.
Era spaventosamente consapevole e padrona dei suoi movimenti; fluida, rapida, efficace. Una guerriera, una macchina da guerra. Fu una fortuna, per L, che la ragazza indugiasse a deliziarsi dell'immagine di lei a terra, debole e impotente: colse l'attimo e afferrò la pistola lungimirantemente infilata nei pantaloni del pigiama.
La premette contro il mento di Rowena, e non tremava. Le sue iridi erano immobili, ferme, decise.
-Vai via.- ripetè, piano, con voce bassa e risoluta. Rowena spostò lo sguardo sulla canna della pistola, con disappunto, più infastidita che spaventata, e le afferrò il polso fulminea.
L se lo aspettava. Altrettanto rapidamente le sparò, con precisione, all'avambraccio che reggeva il coltello: Rowena gemette come gemono le bambine, con voce squillante e lamentosa, quasi incredula davanti al dolore, e strizzò gli occhi forte. La lama esitò fra le sue dita, ma non cadde. L approfittò della sua distrazione e svincolò da sotto di lei, rialzandosi, la pistola stretta fra le dita. Rowena sollevò la testa, le iridi spalancate di sorpresa e amarezza, come delusa da quel comportamento.
L'altra la ignorò, non si voltò nemmeno indietro. Scappò, con urgenza dettata dal terrore, come solo chi teme d'essere inseguito può fare. Le sue gambe erano incerte, ma lei corse lo stesso. La maniglia della porta finalmente arrivò, insperata, e vi si aggrappò forte. Aprì. Guardò solo un'ultima volta la figura di quella ragazza a terra, che si stringeva convulsamente il braccio, poi la salutò mormorando anche se sapeva perfettamente che non l'avrebbe sentita.
Era un arrivederci, il suo saluto.

Kyoto, 2025.

Craig non sapeva davvero che dire. Come poche volte in vita sua, le parole si squagliavano sulla punta della lingua non appena si accingeva a pronunciarle.
Fissò stranito quella minuscola bambina e i suoi occhi bui, simili a pozzi senza fondo. Erano stranamente consapevoli, adulti, quasi lei avesse la situazione molto ben chiara. Infatti lo osservava senza curiosità, con cupa rassegnazione e insieme un'opaca indifferenza, in maniera tutt'altro che propria ad una della sua età.
Craig si strofinò il naso a disagio. -Ehi, ciao. Ehm, io mi chiamo Craig, e... sarei una specie di... agente segreto. Figo, eh?-
La bambina non battè nemmeno le palpebre. Aveva uno sguardo quasi severo. Okay, no.
-Ehhhm... senti, ci sarebbe una persona che vorrebbe conoscerti. Si chiama Marion e... beh, sarà lei a spiegarti bene chi è. Non è facile dirlo così su due piedi.-
Tossicchiò, con un sorriso nervoso. La piccola non rispose, limitandosi a trafiggerlo con quegli occhi gravi imbrattati di nero. Iniziava ad apparirgli inquietante. Che avesse qualche problema? Che fosse sorda, o muta? Eccheccazzo, non aveva ancora battuto le palpebre!
La dottoressa alle sue spalle, le braccia conserte contro il petto, sorrideva sprezzante. -Non sottovalutare la sua capacità di apprendimento. Trattarla come una ritardata mi sembra leggermente inadeguato.-
Craig avvampò furiosamente, lanciando un'occhiata sconcertata prima alla dottoressa, poi alla bambina. -Ma... ma non è assolutamente quello che stavo facendo! Io non penso affatto che...- Sbuffò. -Non andiamo molto lontano, così. Perchè non mi rispondi? Ti prego, dimmi ciao. Muovi una mano. Fammi capire che sei viva.-
L'espressione della piccola era indecifrabile, una maschera priva di lineamenti. Lo ignorò in maniera spiazzante. Craig non sapeva più che fare, che dire, o come reagire.
-Non è una novità. Lei non parla mai.- commentò la dottoressa, intervenendo di nuovo. -Compila soltanto i test che le vengono sottoposti. Lavoro qui da quando è stata creata, e credo di non avere mai sentito la sua voce.-
Il ragazzo rabbrividì istintivamente sotto la giacca. Era qualcosa di conturbante, indubbiamente, inconcepibile e insieme spaventoso. Come poteva una persona non parlare mai?! Era proprio di ogni essere umano esprimersi attraverso un linguaggio, non farlo era innaturale. Non ci avrebbe creduto, se non si fosse trovato in quel preciso momento davanti all'oscurità nascosta in quelle iridi di pietra.
-Sicura che capisce quello che diciamo?- chiese, osservandola dubbioso. Non esprimeva la minima reazione, era questo che induceva Craig a pensarlo. Sarà anche stata un genio, ma doveva per forza avere qualche problema.
La dottoressa inarcò un sopracciglio. -Meglio di me e te.-
Lui decise di lasciar perdere: ogni cosa al suo tempo. Avrebbe avuto tutto il viaggio in aereo per ideare una strategia, per cercare di strapparle una parola di bocca.
-Beh, sarà ora di andare. Anche se non mi parli... facciamo che io ti tendo la mano. Okay? La mano destra. Tu adesso la guardi per benino e decidi se ti fidi e vuoi venire con me, oppure no.-
Craig le sorrise, allungando appunto la mano nella sua direzione, gli occhi castani a riflettere quelli vuoti e immensi di lei. Anche la dottoressa osservava la scena, vagamente incuriosita.
Come avrebbe reagito il loro esperimento? Avrebbe accettato quella che sembrava una vera e propria evasione da una vita tranquilla e sicura, e si sarebbe avventurata in un mondo che non aveva mai visto? Sarebbe rimasta con i ricercatori o avrebbe seguito un perfetto sconosciuto? Si limitava ad una scelta fra noto ed ignoto.
La piccola non lo guardò nemmeno per sbaglio. Dopo pochi istanti si mosse, alzandosi su due gambette che parevano davvero troppo magre per sostenere un corpo.
Fece un passo verso di lui, ma non gli strinse la mano. Rimase solo lì, a fissare la luce giallastra ed insistente che filtrava dalla porta. Sui suoi capelli lucidi e corvini comparvero riflessi argentei.
La dottoressa in camice scosse la testa, sorpresa. -Una reazione interessante. Forse dovremmo annotarla.-
Craig la fulminò con un'occhiata indignata. Non poteva soffrire quel suo atteggiamento del tutto distaccato, quasi fosse una mera cavia da laboratorio e non un piccolo essere umano. Non che lei facesse granchè per smentire questa convinzione, avvolta dal suo manto d'apatia.
Gli venne in mente una cosa ovvia, talmente ovvia che gli parve assurdo non essersela domandata prima. E che neanche Marion l'avesse domandata.
-A proposito, come si chiama?-
La dottoressa sorrise di nuovo, freddamente, quasi lapidaria. -Lei è l'esperimento 4091626. Non ha un nome, naturalmente.-

Il padre di L era l'omonimo investigatore famoso in tutto il mondo, la madre una delle peggiori delinquenti che Damasco avesse mai visto. Alia aveva una vera e propria fama, in città, era la leggenda che faceva tremare i bambini sotto le coperte. Una ragazza d'una bellezza ombrosa ed esotica, non troppo appariscente, con una carnagione ambrata e lisci capelli d'ebano, all'apparenza; la sgozzatrice, la chiamavano nei notiziari: nessuno capiva come riuscisse a tranciare le teste alle vittime in quella maniera. Tagli netti, precisi, quasi millimetricamente perfetti, mutilazioni spaventosamente esatte, indici di una genialità perversa. Le vittime da due divennero cinque, poi dieci, poi venticinque, poi sessantasette; corpi scempiati - con quella mutilazione inconfondibile e una certa macabra eleganza- venivano trovati nelle vasche da bagno, nel letto con le coperte rimboccate, nei laghetti del parcogiochi, nelle vetrine dei negozi, appesi come burattini di una lugubre recita.
E poi arrivò L.
Non ci mise granchè a scoprire quello a cui nessuno era arrivato. Alia usava cavi d'acciaio, spessi, robusti, e li faceva scorrere sulle gole delle vittime fino a reciderle. Dopo un'intensa partita a gatto e topo la trovò e la catturò, assegnandola alla giustizia. Otto mesi dopo, in un penitenziario per psicopatici, lei diede alla luce una bambina dagli occhi di colori diversi.
La piccola venne affidata al padre naturale grazie ad un giro di conoscenze intricatissimo, Alia rimase in carcere a scontare l'ergastolo, in quel momento era ancora lì e, con un po' di fortuna, non ne sarebbe uscita mai più. Ma forse, come rimuginava L a proposito, era troppo dignitosa per passare tutta la sua vita a fissare i muri, ed immaginare come poteva essere diventata intanto quella figlia che le era stata strappata di braccio appena nata, perciò poteva anche stare organizzando una fuga, per quanto ne sapeva.
La piccola L creebbe quindi con L senior, che a volte restava con lei ed altre era in giro per il mondo a risolvere casi. Di Alia si parlò poco o nulla, non per reticenza del padre ma piuttosto per l'indifferenza quasi glaciale della figlia.
-E' una criminale. Tanto mi basta.- affermava con disapprovazione.
A tenere compagnia ad L c'era talvolta Watari, che si comportava come un nonno affettuoso, oppure il nipote di lui Travis, un ragazzo alla mano ma efficiente che svolgeva il suo lavoro con grande zelo. In definitiva, non aveva un padre granchè normale ma nemmeno una vita molto diversa dal consueto. I problemi, e le responsabilità, arrivarono quando fu costretta -per mezzo di un abilissimo ricatto- ad accettare il ruolo di nuova L.
Tutte queste cose vennero scoperte da una sgomenta Marion grazie ad una e-mail da parte della Wammy's House. La ragazza scorse un paio di volte l'intera pagina di informazioni con il cursore, su e giù, sbalordita. Una delinquente?! L aveva avuto una figlia con una delinquente, che tra l'altro aveva pure piazzato in carcere?! Inconcepibile.
Scoperta la storia della bizzarra ragazza con cui era stata costretta a convivere, la curiosità che le aveva suscitato si placò e sentì di avere la situazione sotto controllo, almeno più di prima. Rimaneva solo da scoprire cosa c'entrasse Rowena con L, come si conoscessero.
Marion lanciò un'occhiata impaziente all'orologio: otto del mattino. Fra poco Craig sarebbe tornato, con la figlia di Near. Quel pensiero accelerò appena il battito cardiaco nel suo petto.
Capì che il modo migliore per tenersi impegnata era parlare con qualcuno, così (visto che Tennyson era fuori per un allenamento di rugby e Harmony ancora a letto) decise di affrontare la questione Rowena con L, una volta per tutte, in modo da fugare ogni dubbio.
Uscì dalla sua stanza, lasciando il computer in stand by e chiudendo la porta. Una sfilza di corridoi e scale dopo si trovò davanti alla porta dell'ufficio di Near; aprendo, pensò distrattamente che la cicatrice della sua morte doleva senza stillare sangue. Qualcosa in lei la stava lentamente accettando, senza ancora essere insensibile alla sua asprezza ma sopportandola a denti stretti.
Osservò lo studio che si presentava davanti ai suoi occhi e dovette realizzare, sorpresa, che era vuoto. Si guardò intorno, confusa, quasi si aspettasse di vederla spuntare all'improvviso da qualche parte. Ipotizzò a mente lucida che fosse andata in bagno, o in camera, o ad ordinare qualcosa da mangiare come al solito, e decise di aspettarla lì. Titubante, si avvicinò alla grande sedia girevole accostata alla scrivania, che ormai era considerata proprietà dell'investigatrice turchina. La cosa, stranamente, non la infastidiva: non la vedeva più come una potenziale rivale, nemica, rivale con cui competere ma una persona interessante. Un'amica no, probabilmente, non avendo mai parlato di faccende personali o cose del genere, piuttosto una collaboratrice fidata e preziosa. Sedette, quasi sperando di evocare L grazie a quella provocazione, e girellò annoiata sulla sedia con lo sguardo perso a vagare sul soffitto. I minuti si succedevano faticosamente, trascinandosi uno dopo l'altro, e Marion detestava restare con le mani in mano e perdere tempo.
Era sul punto di alzarsi e andare a cercarla, risentita e nervosa, quando il suo sguardo cadde su un post-it appiccicato in bella mostra sul bordo della scrivania. Non ci aveva fatto molto caso, prima, perchè trovare un appunto in un ufficio poteva stupirla quanto vedere sabbia in spiaggia, ma notò che pareva messo lì affinchè qualcuno lo guardasse.
Scorse con gli occhi ciò che vi era scritto e gelò.
Deglutì, rileggendo, incredula e sconvolta. Rilesse. Rilesse.
Poi strappò rudemente il foglietto dalla superficie di legno e si precipitò fuori, a svegliare Harmony.
Vado a risolvere il caso. Se tutto andrà bene, tornerò a brindare per l'arresto di Kira.
Se le cose andranno diversamente, i nostri nomi saranno vicini in un necrologio.
Solo tu, stupida arrogante detective, potevi lasciare un messaggio tanto melodrammaticamente egocentrico, pensò Marion, spaventata a morte.

Quando i passi di qualcuno iniziarono a farsi sonori sulle scale, Marion rammentò con un sussulto. Craig. La bambina. Dopo la gran cazzata che aveva combinato L, si era completamente dimenticata di loro. Come aveva potuto?! Oh, c'erano così tante cose da dire, e così poco tempo per scoprire cos'avesse quella svitata in mente... Perchè tutto nello stesso giorno?!
Harmony parve accorgersene insieme a lei. Sollevò la testa e si alzò, mentre Craig apriva la porta.
La gemella gli si gettò fra le braccia, appendendosi al suo collo. -E' tornato quel figo del mio gemellino! Che cazzo, non puoi sparire così per un secolo e non farmi nemmeno una minchia di telefonata!- protestò, la voce lamentosa soffocata contro la sua spalla.
Lui abbozzò un sorriso ironico. -Un secolo sarebbe un giorno, per l'esattezza, e ti ho chiamata sia ieri sera che oggi a mezzogiorno... alla faccia degli eufemismi.-
-Stai zitto e dammi ragione.- bofonchiò la rossa. 
Marion non sentì nulla di questo scambio. Da quando la porta si era aperta, il suo sguardo era crollato sulla piccola esile figura accanto a Craig e non era più riuscito a scostarsi.
Immediatamente, la sua mente confusa sovrappose il viso che stava osservando a quello del suo tutore. Nell'affondare in quegli occhi che credeva di avere perso per sempre udì una stridula lacerazione nel petto, come vetro preso a morsi, e la nostalgia squartò tutto i coraggio che finora era riuscito a cicatrizzare le sue ferite.
Sì, su quel piccolo volto Near era presente: negli occhi di buio e silenzio, indubbiamente, occhi che sapevano tutto e non dicevano nulla. E poi nella piega rigida e impassibile delle labbra, nell' espressione di apatia lontana, di sinistra consapevolezza. Lo stesso incarnato cereo, la stessa ossatura fine, la stessa fisicità minuta. Le parve di averlo davanti, Near, e le venne voglia di piangere.
Craig incontrò gli occhi stracciati e storditi della ragazza e capì, preoccupato. Pensò che fosse ora delle presentazioni.
-Questa è Marion, quella di cui ti ho parlato.- disse, rivolto alla piccola. Stava guardando Marion, senza curiosità nè stupore, formulando solo una vaga distaccata analisi della persona che aveva di fronte. Nessuna domanda scintillava nelle sue iridi nere.
Harmony squadrò la piccola, con incredulità crescente. -Ma come è vestita?!-
Indossava un paio di jeans dall'aria un po' hippie, adornati da arabeschi ricamati e perline intessute nel denim azzurro chiaro, e una maglietta spiegazzata a maniche corte di un vecchio concerto dei Sex Pistols. Craig si strinse nelle spalle, divertito.
-Glieli ho comprati io all'aeroporto. E' stata ubbidientissima, li ha messi senza dire beh.- proferì orgoglioso, quasi il merito fosse tutto della sua abilità di educatore.
-Tu non sai nemmeno cosa sono, i vestiti.- ribattè Harmony scuotendo la testa. -Dopo glieli trovo io, dei vestiti veri.-
Marion non disse nulla. Rimase a fissare le sue guance magre, la frangetta che ricadeva ordinatamente coprendole la fronte, il caschetto d'ebano che le sfiorava il mento. Non riusciva a concepire l'idea, però sì, quella ragazzina minuscola e diffidente davanti a lei era la vera figlia del suo tutore. Una parte di lui, un frammento di lui, un ricordo di lui intrappolato in iridi opache.
La ragazza aveva un nodo in gola. Deglutì.
-Come ti chiami?- domandò con voce stentata. La piccola rimase a fissarla, quasi annoiata, un'impronta di maturità estenuante nello sguardo ombroso.
-Non parla.- annunciò Craig, con esasperata rassegnazione. -Ho provato a farle spiccicare parola fin da quando siamo usciti dal laboratorio, ma non ha pronunciato mezza sillaba. Anche la dottoressa che mi ha portato da lei non l'ha mai sentita dire alcunchè.-
Marion annuì con la testa, pensosa. Non lo trovava poi così strano, al contrario dei gemelli. Near parlava poco e malvolentieri, preferiva di gran lunga passare interi pomeriggi da solo, a costruire torri impossibili e impalcature meglio congegnate di quelle vere. Rigirò la domanda a Craig.
-Allora, come si chiama?-
Il ragazzo fece una smorfia. -Al laboratorio non le hanno dato un nome. Solo esperimento quattro-zero-qualcosa. Un branco di svitati senza nè cervello nè cuore.-
Lei annuì di nuovo. Nulla riusciva a stupirla, in argomento di crudeltà umana, e se lo aspettava dopo le cretinate che avevano detto Lidner e Gevanni. Non vedeva l'ora di dimostrare loro quanto si erano sbagliati sul conto di quella bambina. La guardò negli occhi di nuovo e, con decisione, le si rivolse.
-Se ti stai chiedendo come mai ti ho fatto portare qui,- iniziò, -sappi che conoscevo molto bene una persona... tuo... un tuo parente. E visto che volevo molto bene a lui, adesso voglio bene anche a te. Non sei obbligata a rimanere, naturale, però ti prometto che qui sarai trattata come meriti e cercheremo di fare il possibile per farti stare bene. Io sarei felice se rimanessi... ma puoi fare come preferisci.-
Craig le sorrise. La piccola la soppesò con lo sguardo, osservandola con la gravità seria e composta degli adulti.
Dopo una lunga pausa gravida d'attesa, allungò la piccola mano sottile di fantasma verso Marion, più un gesto per sancire un accordo che una richiesta di aiuto.
La bionda ricambiò con una stretta vigorosa, stingendo le dita contro la carne debole di quella bambina fragile, e decise che nessuno al mondo le avrebbe fatto del male finchè ci fosse stata lei a difenderla. Non come con Near.
Non era riuscita a difendere il suo tutore, no. Ma in quel momento era diverso.

Mentre una svogliata Harmony era stata obbligata a far fare alla piccola un giro per la casa, Marion raccontò cosa aveva combinato L. Craig ascoltò, visibilmente in ansia, poi aggrottò le sopracciglia confuso e si piazzò davanti al computer.
-Cosa hai intenzione di fare?- chiese Marion con voce tersa, incrociando le braccia.
-Sicuramente qualcuno le ha riferito delle novità rilevanti, per farla prendere ed andare via. Un'informazione preziosa... essenziale. Potrebbe essere stato Kira stesso a contattarla.-
La ragazza s'irrigidì nervosamente. -Kira?! Impossibile. Deve essere stato per forza qualcun altro... quel suo amico, quello... aspetta... Travis. Ieri le è arrivata una sua mail, ti ricordi?- rammentò euforica.
Lui non rispose. Aprì la pagina riservata alle mail e non si stupì per niente nel trovarla chiusa. Chi, se non L, poteva voler custodire i suoi segreti?!
-Password.- annunciò con voce neutra. -Mi toccherà inventarmi qualcosa.-
Marion annuì. Sentì qualcuno digitare il codice per entrare, così si accostò alla porta: alla soglia comparvero Harmony e la bambina, la prima piuttosto annoiata, la seconda caparbia nella sua indissolubile apatia.
-La signorina sballo, dopo un giro di trenta secondi, conosce la pianta di casa meglio di noi.- annunciò con voce piatta la rossa.
La ignorò. -So che non è troppo accogliente, ma spero ti piaccia. Vedi, noi qui passiamo il tempo perlopiù a lavorare.- spiegò.
La bambina osservò con i suoi occhi immensi la ragazza che aveva di fronte. Poi si voltò e, risoluta, indicò il computer con l'indice esile.
Marion si sorprese. -Vuoi vedere?-
Nessuna risposta, così la ragazza si fece da parte per farla passare e le indicò una sedia, stupita. Craig non la sentì nemmeno, chino sulla tastiera del computer a scrivere incessantemente sulla tastiera.
-Come va?- domandò Marion, rivolgendogli uno sguardo preoccupato. Lui scosse la testa e basta, cupo.
La piccola fissava lo schermo, senza dire niente, e le due ragazze si sedettero. Il silenzio era duro e stanco mentre i secondi svanivano, rubati dall'impietà del tempo, sempre più incalzanti. Marion si fissò le mani, inutilmente abbandonate in grembo, cercando di disperdere la folla scomposta di pensieri nella testa, la cui protagonista assoluta era L e tutto ciò che poteva starle accadendo. Fissò con disperata insistenza le dita di Craig digitare lettere e numeri ossessivamente, rumore metallico sempre seguito da uno strano verso stridulo che lo avvertiva dell'ennesima risposta sbagliata. Lui cancellava e ricominciava, imperterrito, senza esitare; la bambina strana di fianco a lui osservava il suo lavoro con sguardo impassibile.
D'un tratto le porte d'acciaio si aprirono con un sibilo e permisero a Tennyson di entrare: il ragazzo aveva il fiato corto e il petto scosse da vigorosi ansimi. Si chinò su se stesso, esausto, e si permise di respirare.
Marion lo scrutò, sorpresa. -Ehi, ciao. Cos'è successo? Hai già saputo di-
-Kira è in Giappone!- sbottò lui, interrompendola, le iridi luminose di terrore. -Gli omicidi sono ricominciati in massa qui. Nelle ultime tre ore sono morti ottanta detenuti, fra quelli rinchiusi nel carcere di Kyoto!-
-E cosa sarebbe? Un avvertimento?- ribattè Harmony, persino lei troppo preoccupata per mettersi a flirtare con il ragazzo.
Marion strinse le labbra. -Una conferma. Quella che L stava aspettando... per raggiungere Kira. Si sono messi in contatto, in qualche modo, e sospetto che possa esserci Rowena di mezzo. E' l'unica a conoscere entrambi, Kira sarebbe stato stupido a non sfruttare questa cosa.-
Craig inarcò le sopracciglia fulve, l'ombra di un sorriso trionfante sulle labbra. -Scacco matto.-
Qualsiasi virus illegale avesse utilizzato, funzionò. Marion, quasi inconsapevolmente, lo attirò a sè e gli stampò un bacio sulla bocca con uno schiocco sonoro.
-Bravo. Bravo, bravo, bravo.- Il ragazzo aveva le guance paonazze e la lingua annodata. Sbattè le palpebre come se non potesse credere ai suoi occhi.
Marion si chinò verso il computer, individuò subito la mail il cui mittente era Travis e l'aprì in fretta. Alle sue spalle, Tennyson e Harmony spiavano ansiosi.
Lei lesse ad alta voce, con stupore crescente, in modo che tutti sentissero. Quando arrivò a leggere l'indirizzo, la sua voce si incrinò come un vetro colpito da una pietra.
-A Kyoto. E' qui. Avrei dovuto aspettarmelo.- concluse Marion, in un sussurro. -Vuole incontrare L.-
-Vuole uccidere L.- precisò Tennyson, con voce increspata.
Marion lesse e rilesse quell'indirizzo, convulsamente. Era un po' accigliata. -Cosa credeva di fare, quella stupida, andando da sola?! Vuole interpretare l'eroina?! Noi saremo più veloci. Dopotutto abbiamo un vantaggio.-
Harmony le sorrise.-E cioè...-
-Cioè, Kira non sa della nostra collaborazione con lei. Percui non si aspetterà il nostro intervento.- chiarì lei, impaziente.
Craig parve svegliarsi dal suo torpore confuso, e fissò con occhi nuovi quelle parole.
-Aspetta. Quest'indirizzo...- La sua voce si spezzò. Con gesti affrettati, aprì la pagina di Internet.
-Che succede?- chiese Tennyson.
Craig digitò l'indirizzo nel motore di ricerca, poi fissò i risultati scuotendo la testa lentamente.
-Come credevo.- borbottò fra sè. -Questo indirizzo sarà un po' difficile da trovare.-
Marion era allibita. -Cosa intendi, scusa?-
-Non esiste.-
















































Note dell'Autrice: Sì, lo so, sembrava che fossi morta. E invece no, mica mi dimentico di voi! ^-^
Bah, queste note diventano sempre più inutili. Non so mai che dire. Quindi ecco svelata la storia di L, e a proposito: che sorpresa avrà in serbo Rowena per lei?
Eheh, lo scoprirete... sicuramente dopo Natale. Buone feste a tutti in anticipo!
Lucy
  
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