Cinque
Father, if Jesus exist, then how come he never lived
here?
Padre, se Gesù esiste, perché non
è mai venuto a vivere qui?
Novosibirsk, 5 Dicembre 2012
Ностальгія,
7 Достоевский
Проспект
Nostal’hiya, 7 Dostoevskij Prospekt
Nostal’hiya, 7 Prospettiva Dostoevskij
Casa Puškin
I
looked out across
The river today
I saw a city in the fog
And an old church tower
Where the seagulls play
And
all this time
The river flowed
Endlessly
To the sea
Oggi ho guardato fuori
Al di là del fiume
Ho visto una città avvolta nella
nebbia
E un vecchio campanile
Dove giocano i gabbiani
E per tutto questo tempo
Il fiume ha scorso
Senza fine
Fino al mare
(All
This Time, Sting)
-Левочка! Завтрак!-
Levočka! Zavtrak! Levočka! La colazione!, gridò Fëdor
alle otto e quaranta del mattino, apparendo in pigiama sulla soglia della camera
del figlio.
-Я
иду, папа, я
иду...- Ya idù, papa,
ya idù... Vengo, papà, vengo..., sussurrò Lev, affacciandosi da dietro la
copertina di Война и Мир (Vojna i Mir, Guerra e Pace), che stava
rileggendo almeno per la settima volta.
Molti non arrivavano
nemmeno alla fine, ma lui...
Lui di Tolstoj aveva il
nome, e adorava quel libro da quando aveva undici anni.
-Хорошо...
Я иду одеться-
Khorošò... Ya idù objét’sya. Va bene...
Io vado a vestirmi, rispose Fëdor, guardandolo con un sorriso davvero
dolcissimo, un sorriso che non aveva da
sei anni.
Era così felice che suo figlio fosse tornato...
Che Lev ce l’avesse fatta, che Lev fosse più forte
di lui.
E ringraziava Anastasija.
La ringraziava per avergli lasciato lui.
Parevano fratelli, a prima
vista, i due Puškin.
Anche se Fëdor aveva i
capelli nero ossidiana e Lev biondo grano, avevano gli stessi occhi azzurri, lo
stesso sguardo che lasciava senza fiato e al contempo terribilmente confuso
chiunque lo incontrasse.
Lev aveva ventun anni e
Fëdor trentasette, davvero in pochi li avrebbero detti padre e figlio, davvero in
pochi avrebbero indovinato.
Aveva un’aria così da ragazzino,
Fedja, ma senza fare assolutamente niente per averla, un’aria smarrita da
bambino e la mania di mordersi le labbra continuamente, tra una sigaretta e
l’altra.
Quando camminava per la
strada dimostrava vent’anni, vent’anni e un sogno massacrato in fondo agli
occhi, un amore graffiato via dal cuore da una legge forse non troppo sbagliata
ma maledettamente ingiusta per lui, per lui che aveva perso sua moglie, per lui che tra le dita stringeva aria gelida e non i capelli dorati di Anastasija, per lui
che sembrava la reincarnazione di Dostoevskij o di Raskòlnikov, per i mille
tormenti e per le mille ferite.
Lev, invece, era sempre
così sicuro...
Magari distrutto, ma
sostanzialmente sicuro.
Fëdor a volte lo
invidiava, gl’invidiava quell’aria spavalda che lui aveva perso a sedici anni,
quando i poliziotti avevano messo le manette ad Anastasija e lui era crollato
sul marciapiede in preda alle lacrime e agli spasmi dell’epilessia.
Era sempre stato troppo
fragile, Fedja, in fondo.
Ma Lev aveva preso da
Anastasija, Lev non avrebbe mai lasciato andare una sola stella, Lev era l’eroe di Fëdor, l’eroe di suo
padre, e tutta la sua speranza.
Fëdor era il figlio di un
Antistalinista, era il figlio di un proletario siberiano che aveva passato
dieci anni ai lavori forzati ed era stato ucciso, poi, a cinquantanove anni, sul
Lungoneva Dvorcovaja di San Pietroburgo da un uomo del quale era stata
riconosciuta solo la divisa dell’Esercito Olandese.
Lo stesso uomo che gli aveva sparato nel 1982,
quando Fëdor aveva sette anni e suo padre, allora quarantunenne, l’aveva
accompagnato al Новосиби́рское
Водохрани́лище
a pattinare.
Fëdor non avrebbe mai dimenticato gli scintillanti
occhi grigi di quell’uomo.
L’Olandese che aveva sparato a suo padre e poi
l’aveva ucciso, diciannove anni dopo.
Fëdor aveva seri problemi
mentali, era epilettico e aveva il cuore infranto, ma Lev gli bastava per
combattere le sue crisi, gli sarebbe bastato, adesso ch’era libero.
Lev era il figlio di uno
pseudo - eroe sedicenne che tutto il coraggio che aveva l’aveva bruciato
nell’amore e di una ragazzina straordinaria, una madre incosciente che lui
aveva perdonato subito, anche se forse non avrebbe dovuto, anche se forse un
altro al suo posto non l’avrebbe fatto.
Lev era il figlio di Anastasija e Fëdor, ed era
figlio della Siberia, della Giustizia proletaria e della Rivoluzione.
Quando Lev andò in cucina
per la colazione, Fëdor, con un paio di jeans scuri, una camicia azzurra
stropicciata fuori dai pantaloni e a piedi nudi, stava fissando un biscotto con
il buco con aria persa e un sorriso distratto.
Levočka sorrise
intenerito, sembrava proprio un bambino, suo padre.
Se non fosse stato per il pacchetto di sigarette
mezzo vuoto accanto alla tazza del thé, se non fosse stato per il veleno che
aveva dentro, se non fosse stato per quel destino infame.
-Привет!-
Privjét! Ciao! esclamò Lev, allegro,
e Fedja alzò lo sguardo.
Gli s’illuminarono gli
occhi, quando lo vide.
-Присять-
Prisját’, Siediti, gli sussurrò,
indicandogli la sedia accanto a lui.
-Как
тебя дела?- Kak tibjá dilá? Come stai?, gli domandò
Lev, sedendosi.
Fëdor scrollò le spalle,
evasivo.
-А
тебя?-
A tibjá?
E tu?
-Спасибо,
хорошо...- Spasibo, khorošo... Bene, grazie... brontolò Levočka,
insoddisfatto dell’atteggiamento del padre.
-Что
ты делаешь
сегодня?-
Čto delayeš’ sivódnja?
Cosa fai oggi?
-Сегодня...-
mormorò Lev, pensieroso -Я не знаю.
Но...-
Sivódnja... Ya ne znaju. No...
Oggi... Non lo so. Ma...
-Вчера...
Одна девушка.
Так
красивая... Белокурой,
невероятный
волосы. Я...
Учился
в Гимназии,
она-
Včerá... Odná djévuška. Tak krasívaya... Belokuroy, neveroyatnyy volosy. Ya...
Učilsya v Gimnazii,
ona.
Ieri... Una ragazza. Così bella... Bionda, dei
capelli incredibili/favolosi. Io...
Studia al Ginnasio, lei.
-И...?- I...? E...? chiese Fëdor, con gli occhi
luminosi, curioso di conoscere le intenzioni del figlio.
Lev gli rivolse un sorriso
enigmatico e uno sguardo sognante.
-Я
ещё не знаю-
Ya ješčó ne znaju.
Ancora non lo so.
Lascia
che sia
Tutto così
E il vento
Volava
Sul tuo foulard
Avevi già
Preso con te
Le mani
Le sere
La tua allegria
Non tagliare i tuoi capelli, mai
Mangia un po' di più, che sei tutt'ossa
E sul tavolo, fra il thé e lo scontrino
Ingoiavo pure questo addio...
Lascia che sia
Tutto così
E il cielo
Sbiadiva
Dietro le gru
No, non cambiare mai
E abbi cura di te
Della tua vita
Del mondo
Che troverai
Cerca di non metterti nei guai
Abbottonati il paltò per bene
E fra i clacson delle auto e le campane
Ripetevo: “Non ce l'ho con te”
E non
darti pena, sai, per me
Mentre il
fiato si faceva fumo
Mi
sembrava di crollare piano piano
E tu piano
piano andavi via...
(Solo,
Claudio Baglioni)
[...]
La vita è
un sogno senza senso
Eppure ne
ho un bisogno immenso
E penso a
lei, e penso a lei
È tutto
quanto, è tutto quello che vorrei
(Ancora
No, Claudio Baglioni)
Ностальгія,
9 Достоевский
Проспект
Nostal’hiya, 9 Dostoevskij Prospekt
Nostal’hiya, 9 Prospettiva Dostoevskij
Casa Dostoevskij
Sette e quarantacinque.
E quarantacinque!
Aljona si maledisse per
l'ennesima volta.
Il ritardo, la sua eterna
condanna.
Ma perché non riusciva mai a svegliarsi in tempo?
Nemmeno mettere Ты
моей никогда
не будешь (Ty moyey nikogda ne budesh', Tu non sarai mai mia) di Dmitrij
Malikov come sveglia sul cellulare era servito.
Quando suonava s'incantava
ad ascoltare la canzone, e quando finiva, puntualmente, si riaddormentava.
O fantasticava.
Chissà se lei avrebbe mai incontrato un ragazzo che
non sarebbe mai stato suo.
Si vestì velocemente,
tenendo d'occhio l'orologio con il cuore in gola.
Jeans grigi, camicia lunga
a fantasie bianche e blu, golfino attillato nero e stivali neri.
Poi si sfilò dal polso
l'elastico per capelli azzurro, il suo preferito, e, dopo un discreto numero di
spazzolate e un’accurata distribuzione di olio d’Argan sulla parte lunga, si
raccolse quell'invidiabile folta massa di soffici boccoli dorati in una coda
alta, che nonostante l'altezza, e nonostante anche Aljona fosse alta,
all'incirca un metro e settantatré, le sfiorava l'inizio delle cosce, ondeggiando
ad ogni suo movimento.
Sarà stata anche in abbondante ritardo, ma i
capelli non li poteva trascurare per nulla al mondo.
Gettò un'ultima occhiata critica allo specchio,
dunque, abbastanza soddisfatta, prese lo zaino che aveva appoggiato sul letto
per ultimarlo con i libri di quella mattina, acchiappò al volo il cellulare dal
comodino e si affrettò a scendere in cucina.
-Добрий
день!- Dóbrij
djén’! Buongiorno!, esclamò allegramente sulla soglia, vedendo Katja
sorseggiare il suo thé con aria estremamente seria, troppo seria.
-Добрий
день- rispose la sorella, con un fil di voce.
-Ehi...-
-Non perdere tempo,
Aljonka. Sei già in ritardo-
-Ma...-
-Ti ho scaldato un
cornetto al burro. È ancora nel microonde, prendilo-
-Va bene... Grazie-
-Stai attenta-
Aljona inarcò un sopracciglio
biondo, perplessa.
-Al cornetto?-
-Ma no... Quando esci... Stai attenta-
-Sto sempre attenta, Katja-
-In questo periodo... Di più-
-Oggi esci con Aleksandr?-
-Да,
почему?-
Da, počemù?
Sì, perché?
-Lui lo sa che non lo ami?-
-Aljona...-
-Buona giornata, Ekaterina!-
Aljona bevve un sorso di
thé, prese il cornetto dal microonde, lo avvolse velocemente in un tovagliolo
di carta e poi corse fuori di casa.
Aveva un tremendo nodo in
gola.
Perché Ekaterina si comportava così?
Lei davvero non capiva...
Ma Ekaterina non voleva che lei capisse.
Non voleva farle capire.
-Aljona...-
Ekaterina si morse
nervosamente le labbra, guardandola uscire di fretta, offesa, arrabbiata e
triste per la sua assurda apatia.
Allontanò la tazza di thé
con un gesto di stizza e si alzò da tavola, confusa.
Dieci minuti dopo era in
camera sua, la testa affondata nel cuscino.
I suoi lunghi capelli neri
sconvolti, arruffati da far spavento, il trucco colato sui suoi occhi azzurri.
Le scarpette da ballo di
raso bianco lanciate contro il muro, una canzone interrotta sull’ipod che
stringeva tra le dita, guardandosi le unghie dallo smalto graffiato e cercando
di non pensare al titolo.
Ты
моей никогда
не будешь, Дмитрий
Маликов.
Ty moyey nikogda ne budesh’, Dmitrij Malikov.
Tu non sarai mai mio.
E un sorriso terribilmente
consapevole che le nasceva sulle labbra screpolate, morsicate a sangue per la
rabbia e l’impotenza, il dispiacere per la reazione di Aljona e la paura.
Aveva ragione, la sua sorellina.
Ma lei non voleva darle ragione.
Non voleva che lei sapesse.
Non voleva che lei incontrasse...
Lev.
Il suo Lev.
Ad Aljona lei invidiava l’innocenza.
La dolcezza e la fortuna di essere così tanto diversa
da lei.
Sono più grande, ho dormito più di
lei
E del suo cuore
Chiuso in cantina
Delle sue guance
Pane caldo della mattina
Di quel suo viso
Diamante puro
Di quella schiena che le tiene l'anima stretta al sicuro
(Signora delle ore scure, Claudio
Baglioni)
Aljona si guardò intorno,
cercando Khaadija tra gli studenti affollati davanti al Ginnasio.
Non vedendola, diede un
morso al cornetto al burro.
Sebbene fare colazione per
strada non fosse nei suoi programmi, così aveva risparmiato tempo, quindi ora
era in orario, più o meno.
La sua amica uzbeka, però,
non era ancora arrivata, e Aljona rammentò con un certo disappunto di aver
dimenticato la merenda.
Di tornare a casa non se
ne parlava, quindi avrebbe dovuto arrangiarsi a comprare qualcosa al bar.
Doveva avere qualche rublo
nello zaino, per fortuna.
-Aljona!-
La biondina si voltò,
stupita.
Sulle prime non aveva
riconosciuto la voce, ma quando, voltandosi, incontrò i lucenti occhi verdi,
color acquamarina, di Aleksandr Hennadievič Tolstoj, sorrise sinceramente.
-Привет,
Алек!-
Privjét, Alek!
Ciao, Alek!
-Привет,
Алёнка...-
Privjét, Aljonka...
Ciao, Aljonka...
Aveva un’aria malinconica,
Alek.
Era sempre stato un bel
ragazzo, con quei capelli castano chiaro sempre scompigliati e gli occhi
cristallini, l’aria tormentata da eroe romantico e quel sorriso allegro e
fanciullesco così spontaneo e contagioso.
Aveva ventitré anni ed era
di Akademgorodok, a circa venti verste da Novosibirsk, dove frequentava
l’ultimo anno della Новосибирский
Государственный
Университет (Novosibirskij Gosudarstvennyy Universitet,
Università Statale di Novosibirsk),
alla facoltà di fisica nucleare.
Aljona lo trovava “un
ragazzo incantevole” e anche molto simpatico.
Era il fidanzato di
Ekaterina, e questo lasciava sempre a tutti qualche perplessità.
Katja non sembrava poi
così tanto innamorata, anzi.
Lui sì, però.
Lui troppo.
-Твоя
сестра?- Tvoya sistrá? Tua sorella?, le chiese, e Aljona capì tutto.
-Мне
жаль...- Mne
žal’... Mi dispiace..., mormorò
Aljonka, e Aleksandr si accigliò.
-È in casa, ti aspetta, ma
è di pessimo umore-
-Come al solito- cercò di
sorridere Alek, vagamente rassicurato.
-Già. Come al solito-
-Beh. Я
иду, allora-
Ya idù.
Io vado.
-Идешь...-
Idesh’...
Vai...
-Пока!-
-Пока!-
Poká!
Ciao!
(Saluto di congedo)
Aljona si morse le labbra,
guardandolo andare verso casa sua.
Sperava solo che Ekaterina non gli facesse troppo
male.
Sperava.
Quando tu l’hai visto
Sei cambiata
Ti sei illuminata
“È simpatia”
Non era vero
“Io sono tua”
Non era vero
(La spada nel cuore, Patty Pravo)
In quel momento le venne
un’idea.
Ecco cosa poteva comprare per l’intervallo.
Un cartoccio di castagne.
Un cartoccio di castagne alla bancarella del
ragazzo da cui Katja l’aveva messa in guardia la sera prima.
Perché, diceva, lui era
Lev Fëdorovič Puškin, e sei anni prima aveva fatto un attentato a Putin.
Lev Fëdorovič Puškin.
Il ragazzo biondo del 4
Settembre 2006.
Il ragazzo con la pistola.
Il figlio di Anastasija
Nikolaevna Rostova, l’assassina, e di
Fëdor Aleksandrovič Puškin, l’epilettico.
Questo era quello che
sapeva, tutto quello che sapeva.
Ma lei doveva solo
comprare un cartoccio di castagne, e non le sembrava poi così pericoloso.
Del resto, se gli avevano concesso la licenza
adesso doveva essere un po’ più innocuo.
E poi...
Lei non aveva paura.
Non di lui.
Con il portafoglio in
mano, si avviò a passo svelto verso la bancarella.
Doveva fare in fretta.
Forse aveva risparmiato il
tempo della colazione, ma poi si era fermata a parlare con Aleksandr...
Sì, doveva proprio
sbrigarsi.
Quando fu davanti alla
bancarella, alzò lo sguardo sul famoso Lev.
Prima ancora che lei cominciasse a parlare, il ragazzo sgranò gli occhi.
Occhi stupendi, di un
celeste che pareva avere tutte le sfumature del lago ghiacciato su cui Aljonka
amava pattinare.
Le mancò un po’ il
respiro, e fece un passo indietro.
E poi, perché la guardava
così?
Brillavano, gli occhi
azzurri di Lev.
Per lei?
-Привет...-
mormorò per primo il giovane Puškin, cercando di controllarsi.
-При...
Привет- rispose Aljona, un po’ turbata.
-Cosa... Desideri?-
Una domanda
incredibilmente cretina, dato che lui vendeva castagne, solo castagne, ma in quel momento il dettaglio non gli sovvenne
proprio.
-Я... Allora...
Uno... Un cartoccio, sì- sussurrò a
voce bassissima, tanto che Lev fece molta fatica a sentirla.
-Di castagne?-
-Да...-
Un filo di voce, un
sorriso tremante.
Il batticuore di Lev
assomigliava allo sfrigolio delle castagne sul fuoco, l’imbarazzo di Aljona la
obbligava a tenere lo sguardo turchino incollato alle punte dei suoi stivali.
Non li aveva mai guardati
così a lungo, né con così tanta attenzione.
Era...
Era un bel ragazzo, Lev.
Era stato in prigione, ed
era anche tanto più grande di lei.
Aljonka era terribilmente
a disagio, e lui, altrettanto emozionato, si concentrò sulle castagne per non
combinare disastri, non con lei.
-Eccole- sorrise, quando
il cartoccio fu pronto.
Aljona aveva letto il
prezzo di un cartoccio medio sul cartello e aveva già disposto i kopeki necessari sulla bancarella.
Prima di allungarglielo,
però, Lev trovò il coraggio di dirle quello che pensava da quando l’aveva vista
il giorno prima.
-У
тебя очень
красивые
волосы-
U tibjá óčin’ krasívyje vólosy.
Hai dei capelli bellissimi.
Aljona arrossì
furiosamente, ma nonostante il grande imbarazzo e la grande emozione cercò
ugualmente di alzare lo sguardo e di accennare un sorriso.
Aveva così tanta voglia di sorridergli, se solo
fosse riuscita a smettere di mordersi le labbra...
-Спасибо...-
Spasibo...
Grazie...
-Le tue castagne-
Lev gliele tese con un
sorriso abbagliante.
-Спасибо-
ripeté Aljona, prendendole.
-Когда
мы снова
увидмся?-
Kogdá my snóva uvídimsja?
Quando ci rivediamo?
La biondina sgranò gli
occhi.
-In... In che senso?-
-Oh... Я
не знаю...
Здесь?-
Ya ne znaju... Zdjés’?
Non lo so... Qui?
-До... До
скорово-
Do... Do skórovo.
A... A presto.
-Ждать...
Как тебя
зовут?-
Ždat’... Kak tibjá zovut?
Aspetta... Come ti chiami?
-Алёна...-
Aljona...
-E poi?-
-Алёна
Сергеевна
Достоевская-
Aljona Sergeevna Dostoevskaja.
Lev sbarrò gli occhi, a
sentire quel patronimico e quel cognome.
Era lei...
Era lei la sorella di Ekaterina.
Mamma
mia, here I go again
My,
my, how can I resist you?
Mamma mia, mi succede di nuovo
Mia cara, come posso resisterti?
(Mamma Mia, Abba)
Note
Father, if Jesus exist, then how come he never lived here? - Padre, se
Gesù esiste, perché non è mai venuto a vivere qui? - All This Time, Sting.
Ed ecco il primo incontro
tra Lev e Aljona, e qualche notizia in più su Fëdor e Katja ;)
Fëdor, ormai penso si sarà
capito, è il mio personaggio preferito, è un po’ a metà tra Dostoevskij e Ròdja
Raskòlnikov, e al tempo stesso è solo il mio Fëdor ;)
Ekaterina è ancora
piuttosto enigmatica, ma penso si sia capito il suo legame con Lev...
Più tra lei e Lev o tra
Lev e lei?
Chi dei due ci teneva di
più?
Abbiamo conosciuto il
fidanzato di Katja, Aleksandr Tolstoj, personaggio che a me piace molto, e
poi...basta, credo, il capitolo è lunghissimo e tra poco devo andare mangiare,
dopo pranzo ho lezione di russo, appunto, e dopo la lezione di russo ho una
versione di greco di compito per domani...
Se mi dilungo anche nelle
note sono finita ;)
Sono aumentati i discorsi
in russo e spero che non vi dispiaccia, mi viene troppo naturale, tutte le cose
che so dire in russo le scrivo, anche perché i nostri protagonisti sono russi,
quindi non ho freni ;)
Spero davvero che il
capitolo vi sia piaciuto!
A presto,
Marty