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Autore: Lovely_dreamer    18/12/2012    4 recensioni
C’era un solo posto dove si sentiva veramente a suo agio, dove nessuno aveva da ridire sul suo aspetto fisico, la sua incapacità negli sport di qualunque tipo, l’astio nei confronti delle feste e l’amore smisurato per il telefilm che riempivano di chiacchiere i suoi pomeriggi solitari: Twitter.
Lì smetteva di essere Becky Hamilton, la sfigata della classe con voti troppo alti e i vestiti sempre troppo stretti sui fianchi e la pancia, per diventare @loveharrylove o più semplicemente You make me beautiful, Harry.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PLAIN BECKY
il miracolo

 

Era iniziato tutto per caso.
La giornata era stata noiosa come poche altre, due interminabili ore di letteratura e altrettante di matematica, per finire poi con la tortura insostenibile di un’ora di educazione fisica.
Non era mai stata particolarmente coordinata, il più delle volte che finiva a terra non era in grado di spiegarsi quale fosse stata la dinamica delle azioni che l’avevano portata letteralmente col culo al pavimento, e la sua naturale avversione pressoché completa per gli sport che prevedevano l’uso della palla non faceva che peggiorare la situazione.
Becky era sopravvissuta ai temibili mesi del e del calcio in virtù della grandezza della palestra: le era stato sufficiente rintanarsi nell’angolo più lontano possibile dalla palla e lasciare che fossero le sue compagne di squadra a fare il resto.
La sua goffaggine non era mai stata un grosso segreto – le sue linee morbide non erano che l’ennesima riprova della totale mancanza di coordinazione tra la sua idea di sé e ciò che realmente era – e lei non si era mai fatta scrupoli nel delegare agli altri la fatica degli sport.
Ora, alle prese con la pallavolo, la situazione era diversa.
Non poteva rintanarsi in un angolo del campo, troppo piccolo per permetterle di sfuggire agli occhi di falco del professore che vegliava dall’alto del trespolo da arbitro, né poteva correre il rischio di toccare la palla.
L’ultima volta l’aveva fatta schizzare dritta sul naso di Chloé, minacciando di romperglielo.
Come se la stronza non mi odiasse già abbastanza, aveva digitato con frustrazione disperdendo l’ennesimo twit della giornata nella vastità dell’etere.
La verità era che quando Madre Natura aveva deciso di distribuire tutta la bellezza del mondo Becky era già troppo impegnata a lamentarsi online per prestare attenzione al fatto che la sua acerrima nemica non solo l’aveva superata in fila, ma aveva pure avuto la brillante idea di requisire per sé la quota che le sarebbe invece spettata.
Così Chloé era tanto alta, magra e bionda quanto Becky era bassa, rotondetta e con una zazzera di riccioli castani che avrebbero fatto pietà a chiunque.
E come se non bastasse, i suoi occhi non solo erano di un insulso color palude ma erano pure miopi e non c’era volta che lo sguardo vellutato, grigio di nebbie e irridente di sarcasmo, di Chloé non glielo ricordasse al di là del muro trasparente delle lenti degli occhiali che era costretta ad indossare.
C’era un solo posto dove si sentiva veramente a suo agio, dove nessuno aveva da ridire sul suo aspetto fisico, la sua incapacità negli sport di qualunque tipo, l’astio nei confronti delle feste e l’amore smisurato per il telefilm che riempivano di chiacchiere i suoi pomeriggi solitari: Twitter.
Lì smetteva di essere Becky Hamilton, la sfigata della classe con voti troppo alti e i vestiti sempre troppo stretti sui fianchi e la pancia, per diventare @loveharrylove o più semplicemente You make me beautiful, Harry.
You make me beautiful, Harryera tutt’altro che un’emarginata.
Era divertente, un po’ sfrontata, sicuramente non coraggiosissima ma indubbiamente senza peli sulla lingua; era tutto ciò che non riusciva ad essere nella vita vera e la nutrita schiera di follower che la contattavano quotidianamente bastava a scacciare dalla sua testolina ricciuta il sospetto che la realtà presto o tardi avrebbe bussato alla sua porta presentando il conto della sua incapacità di relazionarsi con esseri umani in carne e ossa.
Non che le importasse molto, in realtà, di quello che un giorno sarebbe stato.
Un giorno era un mucchio di tempo davanti a lei, e l’oggi invece reclamava la sua attenzione con un continuo vibrare di notifiche, menzioni e retwit.
Ci avrebbe pensato quando sarebbe stata grande abbastanza per preoccuparsi di qualcosa che non fosse il monitoraggio costante delle pagine dei suoi idoli.
Perché era quello che riempiva i suoi pomeriggi e le sue sere, oltre il costante invio di pensieri e il ripetitivo – ossessivo – risuonare delle stesse canzoni nelle quattro pareti della sua camera, tutto il suo tempo libero era teso e dedicato allo sforzo di imbroccare la coincidenza perfetta che le avrebbe permesso di trovare online se non tutti, almeno uno dei membri dei One Direction.
L’unico, quello che con solo un sorriso sapeva illuminare le giornate più buie.
L’unico, quello con due occhi così azzurri che un cielo senza nubi al confronto sarebbe risultato scialbo e scolorito.
Harry.
Non era mai stata particolarmente loquace quando si trattava di esprimersi in pubblico, era timida da quando aveva memoria, ma se qualcuno solo le avesse chiesto perché ogni singola fibra del suo essere risuonasse in risposta a qualsiasi parte di lui riuscisse a percepire… tutte e ventiquattro le ore di una giornata probabilmente non le sarebbe bastate, così come tutte le parole del vocabolario non sarebbero state sufficienti a raccontare il grumo incandescente di amore, incredulità, meraviglia e commozione che le si agitava in petto con l’impazienza di un cucciolo bizzoso.
Che poi non fosse sicura valesse la pena di affrontare la tortura per raccontare e raccontarsi ad un branco di persone che non sarebbero state in grado di capire veramente, era sicuramente una questione differente.
I One Direction erano una costante, una ferma certezza nel suo universo di nebulosi problemi e insormontabili umiliazioni: si svegliava al mattino sulle note di They don’t know about us covando in petto il sottile piacere di una fantasia innocente che la vedeva passeggiare lungo i viali di Hyde Park mano nella mano con Harry Styles, faceva colazione masticando cereali e I want costruendosi una corazza di note e speranze che poi indossava assieme al cappotto quando usciva di casa e il suo piccolo inferno personale si scatenava.
Gli sguardi impietositi nei corridoi affollati della metro, la sensazione che tutti i presenti nel suo vagone non facessero che guardarla con la bieca commiserazione di chi non ha mai avuto un problema nella vita o semplicemente sceglieva di ignorarlo additando i difetti altrui.
Poi c’era la scuola, cosa che non poteva proprio evitare, e l’infinito supplizio delle schermaglie verbali – monologhi, più che altro – di Chloé che apparentemente doveva garantirsi la popolarità a suon di insulti e attentati gratuiti al suo quieto vivere.
Aveva evitato l’interrogazione di matematica con una scusa da poco e passato quelle di letteratura leggendo un romanzo che si era portata da casa e che aveva abilmente nascosto tra le pagine del libro di testo.
Quella giornata non era stata diversa dalle altre.
Che c’è, non avete mai visto una ragazza in carne?
Avrebbe voluto urlarlo, se l’alzare la voce non avrebbe finito con l’attirare inesorabilmente l’attenzione su di lei una volta ancora.
Non era sopravvissuta – uscendone solo con un livido violaceo sul gomito – all’ora di ginnastica per poi morire di vergogna in uno sporco vagone della metropolitana londinese.
Non era sopravvissuta alle risate delle sue compagne quando era inciampata nei suoi stessi passi per poi soffocare nel troppo imbarazzo a sole tre fermare da casa. Così aveva stretto i denti, affondato il mento nella sciarpa e alzato il volume dell’ipod.
Baby you light up my world like nobody else era una promessa dolcissima e sussurrata ad esclusivo beneficio delle sue orecchie, e aveva preferito credere a quello piuttosto che alle occhiate maligne.
Si alzò prima che il treno rallentasse la sua corsa, impaziente di uscire dal grumo di cunicoli sotterranei che correvano sotto la capitale britannica per riemergere, innumerevoli gradini dopo, nel freddo sole invernale che piangeva luce fredda sulle case di periferia.
I palazzoni tutti uguali, verniciati di bianchi, si inseguivano accanto a lei che correva veloce verso casa incespicando un passo si e l’altro pure: il pensiero del suo computer, del bozzolo confortevole di una realtà reale solo in parte, della tazza di the bollente che avrebbe stretto tra le mani per scaldare il freddo che sentiva dentro erano richiami pressanti, persino più della fame che le faceva brontolare lo stomaco rumorosamente.
“Mamma, sono a casa!” gridò mentre la porta sbatteva, salendo i gradini delle scale due a due e litigando con la sciarpa nel tentativo di svolgerla dal collo.
Non aveva ancora toccato il pavimento che il pc già emetteva un flebile pigolio, inondando la stanza di luce azzurrognola e ronzando una sorda protesta.
Becky non vi prestò attenzione, sfilandosi di dosso la divisa grigiastra che la scuola imponeva in favore delle linee sformate di un pigiama di flanella.
Sua madre, padella in una mano e mestolo nell’altra, la guardò con un sospiro quando fece il suo ingresso in cucina.
“Ma proprio non ti puoi mettere mai niente di più carino di quella roba lì?”
“Cos’ha che non va il mio pigiama? Me l’hai comprato tu, vorrei ricordarti.”
“Per dormire, il pigiama si usa per dormire. Perché non ti metti quei bei pantaloni grigi che abbiamo preso a settembre a Camden? Ti piacevano tanto, no?”
“Il pigiama è più comodo.” Chiosò riempiendosi la bocca con un boccone di carne.
E poi in quei pantaloni non ci entro più, pensò rabbuiandosi e guardando al piatto come fosse un suo nemico personale.
A distrarla ci pensò il cellulare, la vibrazione che la fece sobbalzare e il piccolo uccellino che occupava buona parte dello schermo: una notifica.
“Rebecca Bloombory, non azzardati nemmeno a tirar fuori da quella tasca l’aggeggio infernale!”
“Mamma, ma…”
“Niente ma, almeno durante i pasti mi piacerebbe parlare con mia figlia e non con la cover del suo telefono. Quindi rimettilo in tasca e raccontami come è andata la tua giornata.”
Uno strazio, mia madre è uno strazio, cinguettò venti estenuanti minuti più tardi dopo aver convinto la donna che l’aveva messa al mondo che no, non voleva fare merenda e che no, non aveva appuntamento con nessuna amica per un giro in centro.
Chiuse il libro di trigonometria con uno sbuffo annoiato, accartocciando inavvertitamente il foglio su cui aveva appena finito di risolvere un problema che più difficile di così non avrebbe potuto essere.
“Oh, ma non è possibile, non è proprio possibile!” sibilò tentando di lisciare lo sfortunato pezzo di carta.
Ci aveva messo tutto il pomeriggio – tutto il maledetto pomeriggio! – per tentare di capire come risolvere quel dannato calcolo infernale, e adesso che finalmente avrebbe potuto svagarsi un po’ doveva ricopiare tutto perché lo stronzo che solo fingeva di insegnare trigonometria aveva la malsana e inopportuna abitudine di ritirare i compiti.
Come se farli non fosse già abbastanza.
Perse più tempo a lamentarsi di quanto doveva fare che non a farlo effettivamente, come suo solito, condividendo le sue fortune con due delle persone con cui era solita trascorrere i pomeriggi a chattare e twittare: fu per questo che non se ne rese conto subito, distratta dal continuo trillare dell’iphone e dalla lenta, noiosa, operazione da amanuense col suo problema di angoli e triangoli.
Vide quello che era, di fatto, il suo miracolo personale ben cinque minuti dopo che si era consumato ed era rimasto lì, in attesa che lei sollevasse lo sguardo e lo vedesse.
Nero su bianco, accanto ad una piccolo foto quadrata che le fece schizzare il cuore in gola, una manciata di parole e uno smile sorridente.
Dovette riavviare la pagina per convincersi che era vero.
La riavviò cinque volte di fila, e tutte e cinque le volte il messaggio era sempre lì ad aspettare, a raccontare che sperare non è futile, che sperare alle volte paga, che Dio ogni tanto dall’alto dei cieli si accorge del dolore di qualcuno che grida disperato dal basso delle proprie miserie.
Che tutti i pomeriggi spesi a inviare sempre lo stesso twit, a farsi bruciare gli occhi di stanchezza, a cantare le stesse canzoni fino a perdere la voce, a starsene al freddo in attesa per arrivare a stringere tra le dita il biglietto del loro concerto – un biglietto di sola andata per il paradiso, in pratica – serviva davvero a qualcosa.
Allora ci vediamo al concerto, bellissima.
Harry le aveva risposto.
 
 
 
 

  
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