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Autore: Sylphs    18/12/2012    6 recensioni
I Lawrence, antica, ricchissima e corrotta famiglia svedese, si sono macchiati di innumerevoli peccati, il peggiore dei quali è stato l'imprigionamento del figlio quartogenito Raphael, trasformato in un mostro da un patto stretto dal padre e per questo nascosto al mondo. Quindici anni dopo che ha ucciso il genitore e il terzo fratello, fa ritorno alla dimora di famiglia per vendicarsi definitivamente e pretendere di essere riconosciuto e, a questo scopo, rapisce la fidanzata dell'unico fratello rimasto in vita, Jesper, ricattandolo con la vita di lei. Ma Jesper, alleatosi con la cognata Christine, ha bisogno della ragazza per motivi ben più oscuri di un semplice matrimonio, motivi legati al passato, ed è deciso a riprendersela, mentre lei e Raphael si scoprono più complici di quanto credessero e una bambina coraggiosa decide di indagare.
Sequel della mia storia "Follia d'amore e d'oscurità", ispirata al celebre romanzo "Il Fantasma dell'Opera" di Gaston Leroux.
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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Capitolo 9
 

 
 
 
 
 
 
Fu l’esclamazione di stupore di Eva, la cameriera, a scuotere Erin dal suo stato di incoscienza, a risvegliare i suoi sensi neutralizzati dalla soffice stretta di Raphael e a farle schiudere lievemente le palpebre nella luce vermiglia che invadeva la camera da letto, tanto oscura quando vi era entrata, tanto luminosa adesso, con l’alba che filtrava in ogni angolo e lo riempiva di sfumature rosse come sangue fresco. Spesso aveva pensato che i riverberi scarlatti emanati dal sole fossero i flussi sanguigni che scorrevano dal suo corpo accecante, tingendo il cielo all’intorno, e che si fosse tagliato le vene per il dolore che gli causava l’impossibilità di stare accanto alla luna da lui amata, nella fervida fantasia della sua mente di bambina. Quando aveva provato a dirlo a suo padre, lui aveva aggrottato le sopracciglia nella posa severa che conosceva così bene e aveva fatto un gesto brusco: “Hai un’immaginazione decisamente contorta, piccola”.
Con sua madre non ne aveva neanche fatto parola.
Furono proprio quei raggi color sangue a restituirle i ricordi, uniti alla voce rauca e isterica dell’anziana domestica che correva ansiosa per la camera, frugando ogni cantuccio alla ricerca di qualcosa che non si palesava, e che invocava inutilmente, alzando sempre di più il tono: “Signorina Ullmann!”
Erin appoggiò con cautela una mano sottile al freddo pavimento e fece leva per mettersi seduta, la maschera che, perso l’appiglio su un orecchio, rimaneva a penzolarle instabilmente sull’altro, e osservò per qualche attimo l’agitazione crescente di Eva, senza dire una parola. Harriet non avrebbe potuto risponderle, non più. Il signor R l’aveva presa, per condurla nel suo reame di ombre, e non l’avrebbe ceduta indietro tanto facilmente. Un senso di gelo calò sul suo cuore e i suoi occhi azzurri si incupirono come un cielo in tempesta.
Il signor R era stato lì, per la seconda volta. E per la seconda volta lei non era riuscita a trattenerlo, a capire, a spiegarsi l’incomprensibile attaccamento che nutriva nei suoi confronti e che non s’era attenuato, neppure dopo che l’aveva ridotta all’incoscienza. Un attaccamento che s’era fatto ancora più forte adesso che lo aveva visto in faccia e che ogni finzione era crollata, rivelandole il suo viso…il viso di un giovane dai lineamenti segnati dalla più nera sofferenza e dalla più torbida solitudine, un giovane sperduto e tormentato quanto lei, che nascondeva dietro ad una mostruosità apparente il proprio animo lacerato…un giovane che li odiava, che odiava i Lawrence, e per una ragione ben precisa, giacché Erin non poteva credere che li detestasse senza un motivo, e lei doveva scoprire qual era, e perché lo aveva spinto a rapire Harriet.
In quell’istante la porta della camera si spalancò brutalmente, andando a picchiare contro lo stipite, ed entrarono sua madre e lo zio Jesper, seguiti da una singhiozzante Eva che evidentemente, mentre la bambina era persa nelle sue riflessioni, doveva aver dato l’allarme e che tentava con affanno di spiegare la situazione. La colpì profondamente l’agitazione che sembrava essersi impossessata di Jesper e Christine, un’agitazione che non si spiegava, dal momento che non si erano mai interessati di Harriet, prima: il volto di suo zio era pallido in modo quasi mortuario, gli occhi dilatati in un’espressione di terrore e di furia cieca, e sua madre, anche se si sforzava di contenersi, aveva nelle iridi bluastre quello sguardo felino e vibrante che le incuteva una paura antica e viscerale giù, nello stomaco. L’uno in vestaglia, l’altra in camicia da notte, offrivano uno spettacolo oltremodo indecente, soprattutto Christine, con il trucco sbafato del giorno prima e i capelli in disordine. Piombarono nella stanza come furie ed Erin si rannicchiò istintivamente contro il muro, abbracciandosi le ginocchia, sperando di sfruttare le proprie piccole dimensioni per passare inosservata.
“Come sarebbe a dire, è scomparsa!” ruggì Jesper, alterato da una furia autentica che sbalordiva Erin sempre di più. Considerava lo zio un uomo freddo e calcolatore, il cui fascino consisteva appunto nei modi contenuti e suadenti, e la folle angoscia che dominava le sue pupille, stravolgendole, la smorfia raccapricciante che gli torceva le labbra lo facevano sembrare un’altra persona. Dunque, in realtà, amava Harriet? Lei e la fanciulla si erano sbagliate nel giudicarlo? Era preoccupazione, il sentimento che lo rendeva così instabile? Incombette su una terrorizzata Eva e le rivolse uno sguardo carico di una minaccia terribile, d’un odio atavico: “Avevo dato ordine che la sua stanza venisse sorvegliata giorno e notte, vecchia! Come avete potuto lasciar entrare uno sconosciuto?!”
“S-signor Jesper” balbettò quella, appiattendosi alla parete e facendosi scudo col braccio come se temesse l’arrivo d’una percossa. Del resto, il giovane aveva un’espressione così stravolta che non era da escludersi: “P-posso assicurarle che nessuno è entrato in questa camera, stanotte. Io…”
Christine proruppe in una derisoria risata che rese il suo volto ancor più glaciale e arcigno: “E allora come ha fatto a scomparire nel nulla, stupida? È stata forse rapita dal Fantasma del Natale Passato?!” la sua mano dalle unghie laccate scattò in avanti e diede un violento spintone all’anziana donna, mandandola a sbattere contro il muro e strappandole un fioco grido. Erin sobbalzò nel vedere la scena e aprì la bocca, senza riuscire a emettere un monosillabo. Le torture e i soprusi inflitti ai deboli e agli oppressi la toccavano nel profondo, giacché aveva dovuto subirli fin dalla nascita, e c’era qualcosa di orribilmente sbagliato nel modo in cui i due avevano chiuso Eva in un angolo, tagliandole ogni via di fuga e terrorizzandola con le loro domande urlate e i loro corpi tesi e pronti a colpire, qualcosa che ricordava un comportamento animale, il branco che circondava l’elemento debole e lo faceva a pezzi senza pietà, e l’orrore le si agitava dentro come un cavallo selvaggio, l’orrore e il senso di ingiustizia. La domestica lavorava a Lawrence Borg da anni ed era sempre stata brava e fedele, non meritava quel supplizio!
“La prego” singhiozzando in maniera incontrollabile, Eva si appellò a Jesper, colui che aveva visto crescere e a cui si era affezionata: “La prego, mi creda, sto dicendo la verità! Nessuno è entrato e nessuno è uscito!”
“Taci!” gridò lui, fuori di sé, spintonandola nuovamente contro al muro; la testa della vecchia cozzò contro l’intonaco raffinato e un rivolo di sangue le scese dalla tempia, accompagnato dall’ennesimo grido, suo e di Erin. Christine gli appoggiò una mano sul braccio: “Jesper…”
“Come hai potuto farlo?!” ringhiò il giovane, cieco e sordo ad ogni cosa, bruciando la vittima con le fiamme del suo sguardo stravolto e furibondo e spingendola per l’ennesima volta, come se non potesse farne a meno, come se l’idea d’aver perso Harriet, l’unica speranza di ottenere ciò che voleva, l’unico sottile velo che lo separava dalla follia, avesse scatenato dentro di lui una bestia a lungo sopita, ma mai eliminata. Eva urlava e lo implorava di avere pietà, ma le afferrò i radi capelli grigi e le diede uno schiaffo in pieno volto: “Tutto quello che dovevi fare, vecchia, era prenderti cura della mia fidanzata, e avvertire i miei uomini se qualcuno avesse attentato alla sua sicurezza! E tu non hai fatto niente, niente!”
“La prego, la prego…” i rantoli e i singhiozzi dell’anziana donna erano divenuti isterici, il sangue le colava dalla ferita alla tempia e il fragile corpo scricchiolava nell’urtare il muro. Erin era balzata in piedi e gridava a squarciagola, le guance rigate di lacrime: “Basta, basta!”
“Non capisci che ora è tutto inutile?!” proseguì Jesper, incapace di fermarsi, di staccare le mani dalle deboli membra della sua vittima: “Non capisci che senza di lei non potrò più mettere le cose a posto?! Non lo capisci?!”
“JESPER!” quello di Christine fu un grido acuto, un comando imposto con la veemenza di chi cerca di acquietare uno spirito furibondo, e la donna, nel lanciarlo, si gettò impetuosamente su di lui, allontanandolo a forza da una sanguinante Eva e cercando invano di incontrare i suoi occhi allucinati: “Jesper, smettila!” continuò, strillando. C’era da riconoscerle che era intervenuta con notevole sangue freddo e che non tremava, mentre prendeva nelle sue le mani sussultanti del giovane e le serrava in una morsa ferma: “Smettila. Non tutto è perduto! Cosa credi di fare, eh? Pensi che uccidere questa idiota ci riporterà indietro Harriet?”
Lui parve tornare in sé dopo aver vagato a lungo in una dimensione rossa e caotica, dominata unicamente dalla rabbia, lo sconforto e il dolore nella sua forma suprema. Batté le palpebre, alternando lo sguardo dalla figura accasciata a terra della domestica a quella di Christine che ancora lo cingeva in un abbraccio di contenimento, e la smorfia folle si dissipò lentamente dai suoi tratti, senza abbandonarli del tutto: “Non è più qui!” disse in un impercettibile fil di voce: “Senza Harriet noi…”
“Lo so” ribatté con calma Christine, accarezzandogli i capelli sudati e indugiando sulla pelle arrossata del suo volto: “Ma non dobbiamo perdere la testa, Jesper. Ormai il danno è fatto, però possiamo risolverlo, se manteniamo i nervi saldi. Lui non è uno stupido, ammazzarla non gli porterebbe alcun beneficio. È ovvio che l’ha presa in ostaggio, e finché è viva, le nostre speranze vivranno con lei”.
Le iridi sconvolte di Jesper sprofondarono in quelle bluastre dell’alleata, due laghi tranquilli e luccicanti che celavano tempeste e pericoli nelle loro profondità, ed esse le catturarono, avvolgendole in una stretta cristallina e spegnendo a poco a poco il fremito che le rendeva tanto folli. Pian piano, i suoi muscoli si rilassarono nel forte abbraccio della donna e il respiro si fece meno irregolare, le membra cessarono di essere scosse da tremiti e sussulti. Incurante della presenza di Erin ed Eva, Christine sorrise morbidamente nel vederlo più calmo e si mise in punta di piedi, sfiorandogli le labbra in un bacio dolce e sensuale. La bimba trasalì, indietreggiando istintivamente da quello spettacolo sbagliato e inaspettato e il volto di suo padre le si stagliò dolorosamente nel cervello, suo padre che tuttora era disperso chissà dove, suo padre che quei due stavano tradendo, e nella maniera più gretta. Venne assalita da un senso di nausea, di disgusto, e distolse bruscamente lo sguardo, sentendosi più che mai debole e impotente, incapace di difendere Eva o l’onore perduto del genitore. Le lacrime si erano asciugate sulle sue gote ma le bruciavano ancora la retina, consumandola.
Se fossi grande e forte come il signor R si soprese a pensare Non oserebbero baciarsi così davanti a me.
Christine si staccò infine dal giovane e, tenendogli una mano, si rivolse seccamente ad Eva, senza curarsi del suo pianto isterico e del suo capo che sanguinava: “Hai trovato niente? Qualcosa che possa essere stato lasciato al posto della signorina Ullmann?”
Cercando riparo contro la parete, la vecchia indicò tremante il comodino di fianco al letto e affondò la testa nelle ginocchia. Senza degnarla più d’un’occhiata, Christine raggiunse il mobile e le sue palpebre si assottigliarono in un’espressione di sospetto e di concentrazione, mentre sollevava tra le mani un singolo foglio bianco: “Un messaggio…”
“Cosa dice?!” anche se era riuscito a ritrovarsi, Jesper non si era certo liberato dalla cupa consapevolezza di aver perso la sua leva, il suo tesoro, la fonte delle sue speranze, e fu con un gesto brusco e frenetico che strappò la nota di mano a Christine, tuffandosi al suo interno e divorandola con avidità mista ad odio, un odio ancestrale, nero, divorante, che cresceva ad ogni parola elegantemente scritta con inchiostro rosso sangue:
Caro fratello,
è con intenso rammarico che ti lascio questa lettera, e posso assicurarti che non c’è alcuno qui più perplesso e addolorato di me. Ti avevo concesso due giorni esatti per darmi ciò che mi spettava, ma non lo hai fatto, né hai accennato a prendere in considerazione i miei bisogni. Di conseguenza, io ho sorvolato sui tuoi, poiché è evidente che non hai alcuna intenzione di gestire civilmente la faccenda. Di questo sono dispiaciuto e pieno di disappunto, dal momento che sei un uomo intelligente, e certo non avrai pensato che i tuoi uomini potessero fermarmi, giusto? La mia mano giunge a distanze incommensurabili e può agire ovunque, in qualsiasi luogo.
Ti consiglio di non sottovalutarmi, fratello, per il tuo bene e per quello della tua promessa. Mi sono preso la libertà di invitarla presso la mia nuova dimora e di godere della sua dolce compagnia per quindici giorni, non uno di più, non uno di meno. In questi quindici giorni, non avrà padrone di casa migliore né più premuroso di me, e provvederò ad ogni sua necessità. Se al termine di essi tu avrai accolto la mia richiesta, te la restituirò e non sentirete più parlare di me. Ma se persisterai nella tua ostinazione, te la rimanderò chiusa nel legno di ciliegio, tra soffici lenzuola crespate.
Nella speranza di risolvere al più presto questo spiacevolissimo affare, ti porgo i miei più sinceri saluti,
R
“Maledetto” le dita di Jesper stringevano il foglio tanto forte da stropicciarlo, i denti erano serrati in una posa dura e animalesca, carica d’un rancore così intenso che, se avesse potuto, avrebbe senz’altro ridotto in cenere quella minacciosa e infausta missiva, mandatagli dal mostro che ancora una volta aveva distrutto il suo equilibrio, i suoi sogni, i suoi progetti, lasciandogli in mano nient’altro che un pugno di mosche, un niente. E rivide l’orrore e la delusione scolpiti in profondità nei lineamenti di Ursula, la sua voce cristallina spezzata dalla rabbia che lo allontanava per sempre, il suo corpo che rifuggiva svelto dentro la propria casa, chiudendo fuori lui, il suo amore, la sua maledizione. La scorse mentre abbandonava precipitosamente il motorino sul ciglio della strada e correva impaurita nel bosco, scappando da lui, ancora una volta, come se fosse un lupo cattivo, un essere immondo, e lei una dolce e indifesa Cappuccetto Rosso, troppo candida per restare accanto al fratello di un assassino.
“Maledetto…” la carta frusciante si accartocciò nel pugno livido in cui la chiuse, tremando convulsamente per quell’ennesimo affronto, quell’ennesimo ostacolo alla felicità che meritava e che gli veniva negata. E Christine la scorse di nuovo, la bestia celata da quel viso bello e affascinante, la creatura sanguinaria che aleggiava sopra Jesper, e prese in mano la situazione con la prontezza di chi è ancora capace di ragionare e di pensare con lucidità: “Lo troveremo, Jesper” gli assicurò sicura: “Ci riprenderemo Harriet e dimenticheremo questa storia. Andrò in paese, dal signor Berg, lo metterò in condizione di accettare. Come hai detto tu, lui conosce come funziona la mente di quel folle, non gli sarà difficile scovarlo”.
Jesper si limitò ad abbassare le palpebre, le spalle curve sotto un fardello che s’era fatto ancora più pressante e difficile da sostenere, la lettera stropicciata che cadeva piano sul pavimento, quella lettera che aveva gettato sale sulle sue ferite e sul suo rimorso. Le grida acute e disperate di Ursula, della sua piccola Cappuccetto Rosso, echeggiavano intorno a lui più assordanti che mai.
Christine si voltò, decisa a mettere in atto i suoi piani seduta stante, e nell’attraversare la stanza diretta alla porta il suo sguardo risoluto si posò su Erin, rincantucciata esangue nel suo angolino, pressoché ignorata fino a quel momento. Un brivido percorse la schiena della bambina allorché la madre si arrestò, fissandola, un brivido pieno di timore e di avversione, di amore e odio insieme, sentimenti contrastanti e fortissimi che quasi le toglievano il respiro. Perché temeva e venerava Christine come il fedele teme e venera la divinità a cui è votato, strisciando per ottenerne l’approvazione e maledicendola per i tormenti che gli infligge, e quando la fissava a quel modo, con le iridi blu scintillanti e la bocca rossa semiaperta, aveva sempre paura che la divorasse, dilaniandola prima con le lunghe unghie smaltate.
Tu” sibilò la donna, le pupille dilatate per lo stupore di trovare quella figuretta in un ambiente a lei tanto incongruo e in una situazione ancor più assurda, senza neanche usarle il riguardo di chiamarla per nome, quel nome che era stata lei stessa a darle ma di cui non si serviva quasi mai. E si appiattì al muro, Erin, sentendosi sferzata da quel tu quasi fosse stato un dardo intriso di veleno, un veleno che acutizzava in lei la consapevolezza d’essere una nullità, e forse ancor meno, per la madre.
Non si è neanche accorta della tua presenza cantilenò una voce dentro di lei, malevola e ridacchiante sei stata qui per tutto questo tempo, e non se n’è resa conto!
“Che cosa ci fai qui?” proseguì Christine in un ringhio soffuso, scavandole dentro col suo sguardo bluastro che era sempre riuscito a cavarle fuori ogni segreto o pena, senza però dargli la minima importanza e limitandosi a prenderne atto con precisione telegrafica. Uno sguardo da cui Erin cercò disperatamente di difendersi, bardandosi d’un’armatura immaginaria, ignorando il bruciore che avvertiva al viso e nel petto, perché sapeva che sua madre era sospettosa per natura e che si domandava se per caso sapesse qualcosa, se fosse una testimone, e lei non aveva intenzione di tradire il signor R, giacché aveva compreso, o almeno intuito, che il loro interesse per Harriet aveva qualcosa di malsano, di orrendo, e doveva tenerla al sicuro. Non era il giovane mascherato, il suo vero nemico.
“Ho…ho sentito Eva urlare e sono entrata” mentì balbettando, furiosa con se stessa per la poca credibilità del suo tono, una poca credibilità di cui Christine si avvide subito, abituata com’era alla menzogna e agli inganni, stringendo le palpebre ancora di più e afferrandola per le spalle con una presa rude, feroce, priva del benché minimo affetto, una presa dolorosa per via delle unghie che le penetravano nella carne, quasi volessero estorcerle l’informazione assieme al sangue: “Non dirmi bugie” sibilò, piena di velate minacce: “Harriet è tua amica, dico bene? Non vorresti lasciarla in mano al suo rapitore, no!”
“Io non so niente” Erin aveva voglia di piangere. Affondò i denti nel labbro inferiore per impedirselo, mordendo con tanta forza da avvertire il sapore dolciastro del sangue. Sua madre aveva potere su di lei, molto potere, ne era consapevole ora più che mai, e probabilmente lo sapeva anche Christine, a giudicare dal suadente sorriso che sostituì la smorfia acida di prima, e dal modo in cui le lasciò andare le spalle, cessando di martoriarla con le unghie: “Se hai visto o sentito qualcosa, piccolina” mormorò con voce tenera e affettuosa, una voce che Erin bramava ardentemente di udire fin dalla nascita e che mai aveva adottato per rivolgersi a lei: “Allora devi dirlo alla mamma. È la cosa giusta da fare, amore” le accarezzò dolcemente i capelli e la bimba si odiò per la fitta di piacere che la spinse a socchiudere gli occhi e ad inarcare la schiena, una fitta pericolosa e degradante, sintomo di un amore che non avrebbe dovuto provare, non per una donna che la usava e non le voleva bene, né mai gliene avrebbe voluto.
“Allora?” la sollecitò: “Devi raccontare qualcosa alla mamma, Erin?”
Dilaniata dall’incertezza, lei si costrinse a scuotere la testa, a restare fedele a se stessa, malgrado una parte del suo animo desiderasse con tutto il cuore l’affetto e la considerazione di Christine: “No. Eva ha urlato e mi sono preoccupata, tutto qui”.
Il sorriso trasudante falso amore materno scomparve come una folata di vento estivo e tornò l’espressione che conosceva ormai a menadito, quella mescolanza di fastidio, astio e indifferenza, che non cessava mai di ferirla.
“Bene” sibilò Christine, rialzandosi e allontanandosi a labbra serrate: “Se le cose stanno così, smettila di girovagare per il castello e va in camera tua a fare i compiti. E togliti quella ridicola maschera dal viso!”
Erin non pianse, non le diede questa soddisfazione. Un tempo forse lo avrebbe fatto, ma adesso, dopo aver visto quanto i Lawrence avessero ferito anche Raphael, sapeva di dover essere forte per entrambi. Sua madre e lo zio Jesper avevano in mente qualcosa, qualcosa che riguardava Harriet, e il signor R era in qualche modo legato alla sua famiglia…lei avrebbe scoperto ogni cosa, dato un senso alle menzogne e salvato lui e la sua amica.
Era l’unica cosa che potesse fare.
 
Harriet mugolò, con la sensazione di emergere da un denso, nero, umido mare di catrame appiccicoso, una sostanza viscida che le avviluppava i sensi e annebbiava i pensieri, e si mosse debolmente nella morsa implacabile delle corde, serpenti di canapa che le affondavano nella carne e la vincolavano alla sedia alla quale era legata, scomoda prigione di legno in cui era finita a causa del suo eccessivo coraggio e impeto di ribellione, doti che aveva creduto essere vantaggiose, ma che non le avevano portato altro che disgrazie lì, in quel luogo dimenticato da Dio, buio e freddo come una catacomba, dimora dell’essere che l’aveva rapita e strappata alla luce del sole. L’aveva costretta a bere un liquido dall’insopportabile sapore amaro, tenendola ferma per la nuca, e per quanto fosse riuscita a rovesciarne gran parte sul davanti della camicia da notte, lunghe sorsate erano scivolate giù per la gola e avevano spento in lei ogni energia, lasciandola intontita e semincosciente.
(…maledetto ti ucciderò se riuscirò ad averti tra le mani io…)
Si divincolò inutilmente, gemendo allorché la ruvida canapa le scavò la pelle dei polsi, lacerandola e aprendo ferite purulente. Da un certo punto di vista, si era meritata quella scomoda e degradante posizione; vi erano persone che, in circostanze come la sua, davano prova di grande integrità e sangue freddo, mantenendo la calma e recitando la parte dell’ostaggio passivo, ma aveva scoperto in se stessa un furore e un’aggressività che in alcun modo era riuscita a trattenere e che le avevano procurato quella sedia e quelle funi, annodate tanto abilmente che il minimo movimento le serrava di più intorno al suo corpo.
Non sapeva che ore fosse, se splendesse il sole o regnasse la luna, giacché in quelle gallerie non filtrava il minimo raggio di luce, ma ricordava di essersi coricata sul suo letto abbastanza presto, lieta di rifugiarsi nel soffice abbraccio delle coltri dopo la scoperta misteriosa del crisantemo e le rivelazioni sul conto di Jesper e della sua antica fidanzata, Ursula. Il sonno non aveva tardato ad avvolgerla, un sonno profondo, riposante, privo di sogni, e proprio mentre dormiva le era stata tolta la libertà, il bene più prezioso che un essere umano possieda, il tesoro al quale aveva già sufficientemente rinunciato.
(….nessuno mi salverà non sono niente solo la figlia di un uomo morto caduto in disgrazia, comprata dal giovane rampollo Lawrence che come me potrebbe averne a bizzeffe…)
Quando si era destata non aveva scorto intorno a sé le rassicuranti pareti bianche della sua camera da letto, o il profilo delle colline alberate fuori dalla finestra aperta, ma un’oscurità così densa che quasi ne aveva sentito il sapore, un’oscurità marcia e venefica a cui si accompagnava un puzzo di muffa e stantio e una serie di aspri, dissonanti rumori metallici in sottofondo, stridori che spezzavano il silenzio e le graffiavano le orecchie come artigli acuminati, portandola a drizzarsi a sedere con uno scatto terrorizzato e confuso, a premersi una mano tremante sul petto squassato da ansiti e a dischiudere le labbra in un gemito strozzato, il sospiro di un urlo che non trovava la via per esplodere, perché non era più a Lawrence Borg (o almeno così sembrava), nel suo letto, al sicuro, e perché qualcuno, un nemico, senza alcun dubbio, l’aveva portata via da lì, conducendola in quel pozzo senza fondo, in quell’ambiente a lei celato dal manto di buio, bestia nera e immensa che non si sarebbe aperta per lei ma che le si chiudeva intorno come una tenaglia, rubandole aria ai polmoni. E più della consapevolezza di essere sola nel covo di una presenza ostile era stato appunto quel non poter vedere, quel non avere idea del posto in cui era capitata o delle eventuali creature che strisciavano nelle vicinanze a gettarla in preda ad un panico isterico, ad una paura antica come il tempo, poiché non c’è nulla che gli umani temano quanto l’ignoto.
“Dove sono?!” aveva esalato in una via di mezzo tra un rantolo e un grido, il sangue che le martellava convulsamente le tempie e il sudore che colava fin dentro lo scollo della sottile camicia da notte, troppo leggera per il freddo mordente che pervadeva la sua prigione, un freddo che, unito all’umidità di cui l’aria era impregnata e alla totale assenza di luce, l’aveva portata a ipotizzare d’essere stata condotta in un sotterraneo, una catacomba o un dedalo di gallerie. Tastando con gesti frenetici il giaciglio nel quale mani ignote l’avevano deposta, aveva scoperto che si trattava d’un vero e proprio letto, con coperte di lana e guanciali morbidi, un letto dalla struttura in ferro battuto circondato da una cortina così vecchia e fragile che al minimo tocco si era pressoché disfatta. La sensazione di cattività e terrore cresceva rapida dentro di lei, aveva bisogno di capire dove fosse finita, per cui aveva appoggiato i piedi nudi sul gelido pavimento di pietra, rabbrividendo fino al midollo, ma in quell’esatto momento una voce maschile, raschiante come metallo e melodica come lugubri note d’arpa, era strisciata nel buio e l’aveva bloccata, ghiacciandole il sangue nelle vene.
“Non un passo di più, ragazza. L’oscurità è insidiosa e fin troppo irta di pericoli per chi non la conosce”.
Harriet si era irrigidita da capo a piedi, scossa nel profondo da quella voce il cui timbro le risultava stranamente familiare, come se lo avesse udito in un sogno o in un ricordo molto lontano, e aveva conficcato istintivamente le unghie nel materasso del letto, muovendo a scatti gli occhi completamente ciechi nell’oscurità circostante ed esalando rapide nuvolette di condensa: “Chi sei?” aveva bisbigliato in un soffio, sforzandosi con disperazione di non cedere ai nervi. Era lui il suo nemico, il suo rapitore, la bestia che l’aveva privata della libertà e condotta in quella catacomba ignota, e se c’era una cosa di cui era sicura, beh, quella cosa era che non doveva farsi sopraffare dal panico; una rabbia sotterranea le pervadeva le membra, quel fuoco che le ingiustizie subite avevano acceso in lei si era ridestato e serrava forte i denti, combattendo contro la paura e l’orrore. Non sapeva nulla del suo carceriere, né indovinava i motivi che lo avevano spinto a rapirla, ma già lo odiava, con intensità incandescente.
“Sempre i soliti noiosi interrogativi” aveva ribattuto la voce inquietante, da un punto della stanza del tutto diverso rispetto al precedente. Harriet si era voltata di scatto, spaventata dalla rapidità silenziosa con cui lui si muoveva: “Chi sei? Cosa vuoi? Perché mi hai portato qui? Un tempo questo gioco mi divertiva molto, ma sono stanco ormai, e non mi sono mai piaciute le domande. Certo, prima il bello era porle, però, curioso, persino questo mi ha stancato!” nel suo tono vi era una sorta di lugubre ironia, di umorismo nero: “Anzi, meglio mettere le cose in chiaro da subito, fanciulla. Non voglio sapere nulla di te, cosa ti piace, cosa non ti piace, chi è la tua famiglia, chi ti ha fatto battere il cuore…”
Harriet aveva conservato il silenzio, limitandosi ad alzarsi cautamente in piedi per aggrapparsi alla struttura del letto. Il suo rapitore stava facendo tutto da solo, giacché lei non aveva dato cenno di voler parlare di sé, ma le andava benissimo che si distraesse in un monologo. Confidava nel fatto che fosse cieco, in quel buio, così come lo era lei, e che dunque non potesse controllare i suoi movimenti. Aveva teso al massimo le orecchie, cercando di capire da dove esattamente la sua voce provenisse, ma si spostava continuamente, come se rimbalzasse sui muri, sul soffitto, sul pavimento, e non ci fosse alcun corpo a emetterla, come se scaturisse da un fantasma, analogia che le aveva strappato un brivido e che aveva risvegliato nella sua mente il ricordo della festa di Halloween..
“Non ci sarà alcun rapporto tra di noi” aveva continuato con fredda cortesia la presenza nascosta nelle tenebre: “Al di là di quello che unisce ospite e padrone di casa”.
Qui Harriet non era riuscita a trattenersi e le era scappato un risolino isterico, mentre nel cervello continuavano a succedersi le immagini della festa ormai trascorsa, risolino a cui era seguita un’aspra replica, replica che l’aveva lasciata stupefatta dal momento che non si era mai ribellata a nessuno in vita sua: “Io non sono tua ospite, bastardo! Sono tua prigioniera! Fatti vedere, se hai un minimo di amor proprio! Ti diverte terrorizzare una ragazza senza che lei possa neppure guardarti in faccia? Perché mi hai rapita?! Che cos’è che vuoi?!” la sua mente lavorava febbrile: “È per Jesper? Perché sono la sua fidanzata?” improvvisamente, la nebbia che le impediva di rammentare chiaramente gli eventi di Halloween si era dissipata e aveva sgranato lievemente gli occhi, levando un’esclamazione: “Il Fantasma dell’Opera! Tu sei l’uomo travestito da Fantasma dell’Opera!”
Tutto acquistava un senso nuovo, adesso! Ecco qual era il tassello mancante! Quando aveva abbandonato il balcone, ubriaca, e aveva lasciato soli Jesper e lo sconosciuto mascherato, si erano senz’altro parlati…e per giunta il giovane Lawrence si era mostrato alquanto teso e angosciato negli ultimi due giorni…e il crisantemo! Anche la comparsa del fiore si spiegava.
(…stupida che non sei altro davvero credevi che te l’avesse regalato un genio gentile?)
“Così è per Jesper” aveva sibilato, serrando le mani sulla testiera in ferro battuto e digrignando i denti per il disgusto che le causava la propria condizione, un disgusto che annientava e sopprimeva la paura, sostituendola con la rabbia: “Mi hai presa in ostaggio per avere il suo denaro, porco!”
La voce raschiante si era alzata di tono e vi era serpeggiata una percepibile sfumatura di astio: “Tieni a freno la tua graziosa lingua, ragazza, se non vuoi che un mostro te la strappi! Le ragioni per cui ti ho condotta qui ti rimarranno sempre ignote, e mai nessuna luce rischiarerà questo luogo nei quindici giorni che trascorrerai presso di me. Ma posso assicurarti” e qui era di nuovo sopraggiunta la folle garbatezza di poco prima: “Che non ti mancherà mai nulla e avrai a disposizione ogni tipo di comodità. Basterà che tu chieda qualcosa e subito l’avrai. I pasti ti verranno serviti sul comodino di fianco al letto e per raggiungere il bagno non dovrai fare altro che cinque passi a sinistra, quella porta sarà per te sempre aperta, e dentro troverai una candela accesa, l’unica fonte di illuminazione che ti verrà concessa e che in nessun modo dovrai portare in questa stanza. Io lo saprò. Il buio è il mio più fedele amico, cara, e nel buio vivremo. Le uniche regole a valere saranno le mie”.
Harriet aveva agito d’istinto. Mentre lui le spiegava quelle che sarebbero state le condizioni della sua prigionia, non l’aveva ascoltato neppure per un secondo, il corpo ridotto ad un fascio di nervi frementi per la furia e l’odio. Già era stata intrappolata in un matrimonio di convenienza e in un’unione infelice, non avrebbe accettato a capo chino anche quest’ultima ingiustizia, non si sarebbe tramutata docilmente nell’ostaggio con il quale quel bastardo senza volto voleva ricattare Jesper! Qualcosa era saltato dentro di lei, l’ultimo vincolo, l’ultima catena, e levò un grido penetrante nello scagliare in direzione della voce il primo oggetto che le era capitato a tiro e che si rivelò essere una lampada polverosa sistemata sul tavolino da notte, lampada che fendette l’aria e che di sicuro lo mancò, a giudicare dal clangore metallico che emise toccando il pavimento. Ma la ragazza non aveva perso tempo e si era lanciata in avanti alla cieca, le mani tese di fronte a sé per attutire eventuali urti, i capelli al vento, consapevole della folle inutilità del suo gesto, delle poche possibilità che aveva, però piena di una determinazione selvaggia e incontenibile.
In pochi secondi era inciampata con un mezzo strillo in un divano e vi era piombata distesa, le ciocche che le si spargevano disordinatamente intorno al viso. Si era rialzata, ansimante, dominata dalla foga, annaspando, e aveva provato di nuovo ad affrontare il muro di buio e a cercare un’uscita invisibile, ma qui il suo rapitore, che evidentemente l’aveva lasciata fare senza intervenire, l’aveva afferrata per la vita da dietro e lei aveva urlato nel sentirsi premere contro un petto maschile e nel percepire il suo fiato gelido accarezzarle la nuca e le sue mani rudi stringerla fin quasi a toglierle il respiro. C’era un che di marcio e opprimente in quella presenza, un alito mefitico, un alone di cattiveria e di peccato che l’aveva disgustata e spinta a dimenarsi inutilmente nella sua morsa, gridando: “Lasciami! Lasciami, vigliacco!”
“È inutile che giochi a Strega di Mezzanotte, bambina” aveva replicato lui in un ringhio minacciosamente atono: “Hai perso in partenza. Questo buio è per me più luminoso di un mattino d’estate mentre tu sei cieca, cieca come la mosca nella tela del ragno!”
Un braccio era serrato attorno ai fianchi di Harriet, l’altro in prossimità della gola, ed era quello che aveva attaccato, incapace di arrendersi, chinando la testa con uno scatto fulmineo e affondandoci i denti. Una parte di lei, quella più irrazionale, si era persuasa d’avere a che fare con qualcosa che non era umano, ma scoprì ben presto che era invece fatto di carne e sangue come tutti quando lo sentì ringhiare e allentare la stretta su di lei. Ne approfittò all’istante per liberarsene; avrebbe potuto tentare di nuovo la fuga, ma sapeva bene che in quel buio era inutile, per cui s’accontentò di incurvare le dita ad artiglio e graffiarlo sul viso. La sua carne era gelida e madida come qualcosa di morto e umida al tocco. Qualcosa in lei fremette di repulsione, ma s’ostinò a cacciare le unghie in profondità nella pelle finché lui, con un ruggito furibondo, non la respinse con un violento manrovescio che la lasciò stordita.
Era stato a quel punto che l’aveva drogata e legata alla sedia, mentre lei giaceva in uno stato di catramosa semincoscienza.
“Sei più stupida di quanto pensassi” sibilò la voce dell’uomo senza volto nella cortina di tenebre, penetrando a fatica la cappa di intontimento calata sulla sua mente: “Ti ho offerto vitto e alloggio e ogni genere di comodità, ed è così che mi ripaghi! Ah, l’ingratitudine è una delle cose che più mi infastidiscono… uno si sforza di essere gentile, di comportarsi con buona educazione, ed ecco qui i ringraziamenti…”
Harriet non cercò nemmeno di ribattere, non avrebbe saputo come farlo. Era di certo caduta nelle mani di un folle, e con un folle non ci ragioni. Si limitò a scoccare uno sguardo colmo d’odio all’oscurità, sicura, a quel punto, che lui potesse vederlo. Non aveva idea di chi fosse, di cosa fosse, ma percepiva ancora l’umidità gelida della sua carne sotto le dita, e l’alone malvagio che emanava il suo corpo, un alone capace di respingere chiunque.
“Quindici giorni, ragazza” proseguì il suo carceriere implacabile: “Quindici giorni e saremo liberi entrambi”.
Non era così vecchio, si disse confusamente la giovane, almeno non tanto vecchio da poterla chiamare ragazza.  
“Il tuo fidanzato deve rispettare un impegno nei miei confronti, e lo rispetterà. Non lascerà annegare nel buio la sua dolce innamorata viva. Perciò non avere paura, e smettila di guardarmi in quel modo. Sto soltanto sopravvivendo. E non c’è nulla di sbagliato nel sopravvivere”.
Una preghiera le saliva prepotentemente alle labbra, ma la ricacciò indietro, troppo orgogliosa per supplicarlo di slegarla. Era la punizione per il suo tentativo di ribellione, e l’avrebbe sopportata in silenzio. Quel folle l’aveva rapita per ottenere qualcosa da Jesper, ma non gli si sarebbe arresa. Non aveva alcuna garanzia che il suo fidanzato pagasse il riscatto e la salvasse, non l’aveva mai amata, e non aveva alcuna ragione valida per privarsi dei suoi averi affinché fosse libera, se non la pietà umana, una virtù che però gli era sempre mancata. Doveva cavarsela da sola, e non lasciarsi sconfiggere dalla situazione e dalle avversità. Non le rimaneva altro che se stessa, e su se stessa avrebbe contato.
“Hai paura del buio?” la voce del mostro non era priva di una sottile vena di sadismo: “Ti ci abituerai. Tutti si abituano prima o poi, te lo dico per esperienza personale. Ho vissuto così a lungo nelle tenebre, ed ero molto più piccolo di te…quando si popolavano di spettri, ripetevo sempre una vecchia filastrocca: un bel giorno nel bel mezzo della notte, due ragazzi morti si svegliarono per fare a botte. Schiena contro schiena si fronteggiarono, tirarono fuori le armi e si spararono. Il poliziotto di ronda che era sordo udì rumori forti, venne e sparò ai due ragazzi morti”.
“Smettila!” rantolò Harriet. Le parve di vederlo sogghignare: “Tu sei cresciuta con dolci ninnenanne. Così sono cresciuto io” in fondo in fondo nella sua voce albergava un odio sedimentato, un’amarezza lugubre, soffocata dal sarcasmo: “Sonni tranquilli, ragazza”.
(…oh sì sonni tranquilli anche a te bastardo perché non avrai vita facile ed io non mi arrenderò mai mai mai…)  
  
  
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