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Autore: Subutai Khan    06/07/2007    2 recensioni
Questo racconto, oltre che un piacevolissimo esercizio di stile da parte mia, serve per tutti i lettori che non hanno ben capito cosa è successo in 1001 Modi per Fregare la Morte. Funziona, come appunto suggerito nel titolo, come ponte fra le vicende narrate in Claustrofobia e quelle narrate nel sopracitato scritto.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Asuka Soryou Langley, Misato Katsuragi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Claustrofobia, Manuali per Incompetenti e Altre Amenità'
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Mi chiedo che diavolo ci faccio qui.
Queste mura bianche, asettiche come il becco Bunsen di uno scienziato matto, le conosco sin troppo bene per i miei gusti.
Ancora che non ci sto io, in quel lettuccio spoglio.
Ci sta quello sconsiderato di Shinji.
In coma.
Forse irreversibile. I medici dicono che molto, molto, molto difficilmente si sveglierà. L'ultimo bollettino gli dava un dieci per cento scarso di riaprire gli occhi.
E perché si trova lì, quel maledetto genio del male? Solo perché ieri mi sono fatta, secondo il suo personalissimo punto di vista, prendere troppo la mano.
Non ne siamo sicuri dato che, chiaramente, c'è l'impossibilità a chiedere conferma al diretto interessato. Ma l'Alphine di Misato con lui dentro fatta totalmente a pezzi a duecento metri da casa e un'impressionante quantità di lattine di Yebitsu vuote sul tavolo della cucina non mi fanno pensare ad altro.
Il signorino deve aver avuto la straordinaria pensata di alzarsi nottetempo, ridursi a uno straccio come un vecchio beone senza hobby e far finta di essere un Nigel Mansell incapace.
La sua stupidità mi fa rabbia.
Con che coraggio ha messo in piedi una scenata del genere? Solo perché mi sono un minimo incazzata?
La tua vita vale davvero tanto poco, baka?
Questo qui, al solito, è fuggito dal problema. Problema che vede solo lui, intendiamoci.
Solo che stavolta ha deciso di fare le cose in grande. Mica gli bastavano più i teatrini da smidollato. Mica gli bastava più frignare come una femminuccia a cui hanno rotto la bambola preferita. Mica gli bastava più, al cretino.
Che stronzo. Gettarsi nella tazza in una simile maniera è una delle cose che meno sopporto.
Dov'è finito il tuo testosterone, testa di letame? Te lo sei dimenticato nell'utero di mamma Ikari?
Misato, accanto a me, non fa che piangere. Per fortuna delle mie orecchie si limita a una cosa tranquilla, molto sommessa. Ma non per questo meno sentita, ci giurerei.
Ogni tanto mormora qualcosa. Il suo tono è ai livelli di un sussurro strozzato e faccio molta fatica a capire, ma mi sembra di cogliere qualche implorazione di scuse. Per quale motivo lei debba scusarsi non lo so mica, e neanche mi interessa più di tanto.
“Misato, andiamocene. Stare qui non serve a niente”.
Con queste parole, uscitemi forse più acide di quanto intendessi, la vedo voltarsi verso di me: “Ma tu sei fatta di ghiaccio? Non hai un briciolo di dolore per questa tragedia?” singhiozza.
Colgo un'accusa? Non ci provare neanche, cocca.
“Io? Guarda che non sono io quella che ha deciso di provare a trasformare le strade di Neo Tokyo-3 in un circuito di Formula Uno avendo nel sangue un tasso alcolico troppo alto. Prenditela col premio Nobel sotto le coperte”.
Per un istante mi trasmette la netta, trasparente sensazione di volermi dare uno schiaffo. Poi si quieta, appoggia il braccio sul fianco e si limita a uno stringato commento: “Schifosa”.
Che cosa? Schifosa? A me?
Come ti permetti, vecchia ciabatta?
Monto su tre quarti delle furie. Non su tutte, sennò raderei al suolo l'ospedale della NERV e poi sì che sarebbero cazzi amari.
Senza preavviso la prendo per un braccio e la trascino fuori dalla stanza.
Nel corridoio sfodero la migliore me stessa.
“Hai per caso qualcosa da dirmi, Misato?”. Tono di voce: litigata sostenuta.
La vedo farsi incredibilmente gradassa mentre appoggia le mani sui fianchi e mi squadra con due iridi infuocate: “Ne ho una lista bella lunga, stronzetta. Ma comincerò dalla più palese. Non hai neanche la sensibilità necessaria per capire che quel ragazzo, adesso, è ridotto così solo ed esclusivamente per colpa tua”.
Tu deliri, residuato di guerra. “Colpa mia? Mica gli ho detto io di ingozzarsi con la tua orripilante birra di sottomarca e di farsi un giretto sul tuo catorcio”. Tono di voce: alterato andante.
Alza le mani al cielo in un gesto di rassegnazione. Sta per controbattere ma dalla sua bocca non esce alcun suono. In compenso si volta come una saetta e dà un forte pugno sulla parete. Dalle sue nocche, che immagino rotte, zampilla fuori qualche goccia di sangue.
“Come diavolo ho fatto a non capire finora di che razza di pasta sei fatta? Sei quasi al livello del comandante Ikari in tema di bastardaggine”.
Il limite è superato. Paragonarmi a quella merda umana è davvero, davvero troppo.
“Stammi bene a sentire, carcassa. Non accetto di venir messa sullo stesso piano dell'illustre Gendo Ikari, una persona il cui animo dev'essere sporco quanto il cesso del peggior autogrill della galassia”. Tono di voce: irato crescente.
Invece di rispondere alla mia ultima fucilata si lascia cadere in avanti finendo con tutta la pancia contro il muro. Dopodiché volta la testa verso il cielo e mugugna: “Shinji, quel che hai fatto è stato inutile. Avresti dovuto lasciare le cose come stavano. Mi dispiace”.
*zack*
Dolore. Immenso. Fortissimo. Peggio di una scimitarra che mi attraversa il cranio da parte a parte.
Mi porto i palmi delle mani sulle tempie.
Casco a terra emettendo qualcosa che vorrebbe assomigliare a un urlo, ma ci riesce solo nelle mie fantasie. Credo sia uscito più come il rumore di uno sciacquone.
Ho appena la forza di alzare la testa di qualche grado, giusto quelli sufficienti per vederla ancora intenta a strusciarsi sensualmente contro l'intonaco, sempre immersa nelle sue patetiche scuse silenziose a Mister Debosciato.
Cazzo. Guardami. Sto male. Non pensare a quel sacco di viscere che sta dormendo il sonno dei giusti. Pensa a me, cristo. Io sono viva.
Faccio per alzare un braccio nella sua direzione quando ho come un flash.
Improvvisamente non sono più nell'ala ovest dell'ospedale interno della NERV.
Sono in un posto piccolo e lercio, con una squallidissima lampadina a illuminare debolmente l'ambiente.
Mi trovo seduta su un cumulo di qualcosa che dovrebbe essere stata paglia, qualche era geologica fa. Non mi sento più il cervello trapassato da spuntoni arroventati.
Ma quando provo a muovermi mi accorgo che il corpo non risponde agli stimoli nervosi.
Bella roba. Intrappolata in me stessa, impossibilitata a fare alcunché... e in compagnia di Shinji.
Che incubo di merda.
Vabbè, data la mia impotenza tanto vale stare a vedere che succede.
E quel che vedo succedere non mi piace per nulla.
Lui se ne sta lì, seduto a pochi passi da me. Ha un sorriso ebete stampato in faccia e sembra il ritratto della gioia di vivere. La luce emanata dal suo volto avrebbe potuto accecare anche Ray Charles.
Lo sento delirare di essere chiuso a chiave in uno stanzino, presumo si riferisca a questo, con la persona che...ama?
Amare? Me?
Matto oltre che fifone.
E io non so da meno in quanto a sparate. Sento la mia voce proclamare solennemente un mucchio di sciocchezze su come io sia in realtà una persona diversa, di come non creda davvero alla mia intrinseca superiorità, di come non voglia essere acclamata per le mie eccezionali doti di pilota di Evangelion.
È la follia più pura.
*zack*
Oh. Sono di nuovo in controllo.
E il dolore alla testa è sparito.
Ma cos'era quello che ho visto? E perché, da qualche parte dentro al petto, percepisco in modo lapalissiano come tutto questo non sia un pessimo scherzo della mia mente?

Dal giorno del ricovero di Shinji ho avuto altre visioni. Sempre accompagnate da un mostruoso martellamento di maracas sulla calotta cranica; sempre ambientate in quel loculo maleodorante; sempre con me ridotta a semplice spettatrice; sempre uguali in termini di andazzo, cioè senza tentativi di sbudellamenti vari.
Che minchia ti prende, Asuka? Cosa significano?
Ragiona, cretinetta.
Escludiamo pure gli effetti nocivi di sostanze alteranti visto che hai la fedina penale più pulita di quella di una suora.
Però, se non fossero trip da acido, non saprei proprio dire cosa potrebbero essere.
Inoltre, ad aggravare la situazione, concorre quella stessa sensazione provata in occasione del primo flash, quello avuto all'ospedale mentre battibeccavo con Misato. La sensazione che mi dice, forte e chiara, come quello che vedo durante questi viaggi onirici abbia un fondamento e non sia solo un parto di qualche zona malata del mio cervello.
In un certo senso sono loro stessi a urlarmi che sono veri. O, se non proprio veri, non delle fregnacce complete.
E da quel giorno, accumulando in me queste esperienze molto strane, non sono più riuscita a considerare l'atto di andare a visitare il baka come una scocciatura.
Perché forse, da qualche parte nella sua montagna di chiacchiere, la mia tutrice dai capelli violetti non ha tutti i torti.
Forse è davvero per causa mia che Shinji ha messo in piedi tutto quello che ha combinato.
Forse è davvero per causa mia che ha preso una decisione tanto estrema.
Forse è davvero per causa mia se ora giace in coma.
In tal senso ci sono state delle novità. Ulteriori esami medici hanno stabilito che non è un vero e proprio coma profondo, quindi una minima possibilità che si ridesti c'è. Solo che il suo dottore, quando l'ha comunicato a Misato, ha paragonato l'eventualità di un suo risveglio a quella di una guerra termo-nucleare fra Atlantide e gli omini verdi di Marte. Percentuale di successo: zero virgola zero zero zero zero uno.
Per farla breve ci ha caldamente consigliato di considerarlo morto.
Da qualche giorno accarezzo l'idea, un po' matta ma piuttosto plausibile, di essere vittima di una prolungata amnesia. Questo spiegherebbe qualcosa: ad esempio il perché io non ricordi nulla di ciò che mi è successo prima del mio incidente a bordo dello 02. Certo, ricordo che Ritsuko aveva accennato a un trauma cervicale, ma ricordo anche che aveva parlato di tre giorni di buio. Ma io ho ben più di tre giorni di buio. L'ultima cosa che ho impressa in testa, prima di essere uscita da quella specie di vasca verticale in titanio, è il compito in classe di matematica della settimana prima.
Sette giorni, dunque. E non tre.
E sa il diavolo cosa può essere successo nel frattempo.
L'ipotesi “amnesia”, però, non copre altri buchi. Perché, tanto per dirne una, io avrei detto simili cose a Shinji? Cose che non ammetterò mai come vere neanche con me stessa e che, chiariamoci, non credo tali? E dov'è che saremmo stati? Perché isolati, io e lui, in un posto simile?
Oggi ho intenzione di discuterne con Misato. Se non altro per appurare la mia teoria, il resto lo terrò per me.
Da quel momento ci siamo raramente rivolte la parola, già, però so che lei non è tipo da tenere il broncio per più del dovuto. E spero abbia capito che non avevo intenzione di essere tanto aggressiva. Davvero. Giurin giuretta.
Anzi, tanto vale che se ne chiacchieri subito.
Mi alzo dal letto e vado a cercarla. La trovo, nel più classico dei colpi a botta sicura, che si beve tranquilla una birra in salotto.
“Ciao, Misato”. Cerco di suonare il più conciliante possibile. La mia ricerca di risposte esige un comportamento posato.
Si volta verso di me con un accenno di sufficienza, ma appena vede il mio sguardo rilassato si rallegra: “Oh. Ciao, Asuka. Tutto bene?”.
Mi siedo tranquillamente vicino a lei. Il linguaggio del mio corpo trasmette, a chiare lettere, il messaggio “adesso io e te, da brave persone civili, chiariamo questo mistero. Insieme”.
“Sì, grazie. Sto bene. Tu?”.
“Non c'è male, grazie”.
La pacatezza di queste battute, seppure un pochino fredde, la fanno virare sui binari della quotidianità: “Oh, dopo ti spiacerebbe andare a fare la spesa? Io sono di turno alla NERV fino a tardi e dubito che riuscirò a passare al supermercato”.
“Sì, certamente. Anche perché non ho alcuna intenzione di digiunare”.
Una risatina da parte sua mi esorta a buttare la conversazione su ciò che mi preme sapere.
“Senti, Misato...” comincio, lasciando volontariamente a metà. Spero di cogliere la sua curiosità.
“Dimmi. C'è qualcosa che non va?”. Obiettivo centrato.
“Sì, in effetti sì. Ti ricordi di quando la dottoressa Akagi mi ha spiegato cosa mi era successo dopo l'attacco dell'ultimo Angelo?”.
La vedo scurirsi in volto.
“S-sì, ricordo”.
“Beh, c'è qualcosa che non mi torna nel suo racconto”.
A questo punto si può dire che è quasi terrorizzata.
Tentenno. Ho come l'impressione di star scoperchiando la pentola infernale.
No, non devi mollare. Fregatene.
“Aveva parlato di tre giorni di vuoto mentale dovuti alle ferite. Ma io sono sicura di non ricordare nulla che risalga a non prima di una settimana a quel giorno. Com'è possibile questo?”.
Si stropiccia le dita, chiaro segno del nervosismo. Devo aver toccato qualche punto bollente.
“Non...non lo so. Magari ha solo sbagliato la diagnosi e il trauma da te riportato è più grave di quanto previsto”.
Non che non sia possibile, in effetti. Anche Ritsuko Akagi è fallace.
Però non mi convince. Manco per nulla.
“D'accordo, ma se ci fosse dell'altro? Non credi che possa, per esempio, aver conteggiato male di proposito?”
“Per quale astruso motivo la dottoressa Akagi avrebbe dovuto fare una cosa del genere?”.
“Dai Misato, lo sappiamo tutte e due che alla NERV non succede nulla per caso. Guarda, io sto dicendo che i miei ricordi, non intesi come confuso ammasso di ombre, si bloccano di netto a una settimana prima dell'incidente. Sono sicura di ciò che dico e sono altrettanto sicura che la spiegazione non risieda nell'errore umano, né tantomeno in una casualità. Chiamalo intuito femminile”.
Si alza senza preavviso, percorsa da fremiti di irrazionalità.
“Davvero, non ne ho idea. Ora scusami ma devo andare al lavoro. Gliene parlerò”.
Le lascio fare esattamente cinque passi, poi le dico con voce ferma che esigo una risposta convincente.
“Sì, certo. Ti lascio sul tavolo della cucina la lista della spesa e i soldi” mi risponde di rimando, cercando malamente di svicolare.
“Va bene” ribatto rassegnata.
Buco nell'acqua. Anche se solo fino a un certo punto, onestamente.
Perché la mia domanda, sebbene innocente, l'ha messa in difficoltà più del previsto. E questo può voler dire solo una cosa: sta cuocendo qualcosa nella tinozza. Qualcosa di grosso.

Un maledettamente lungo anno.
Da tanto Shinji dorme. Da trecentosessantacinque giorni esatti.
Misato ha avuto un colpo di genio degno del peggior clown: gli ha portato una piccola torta.
Come se fosse una data da festeggiare. Disgraziata.
Dov'è finito il tuo cervello, è affogato nella birra?
Perché me la prendo tanto per qualcuno di cui mi frega poco e nulla?
Perché... perché...
Eh. Difficile ammettere certe cose, vero Asuka?
Me la prendo perché mi manca, quello scemo.
Mi manca.
Non l'ho mai fatto notare a nessuno. Io stessa ci ho messo tantissimo tempo per capirlo. Ma davvero sento come un buco nella mia vita.
Non ho più il mio punching-ball preferito accanto.
Non ho più il mio coinquilino accanto.
Non ho più... lui... accanto.
Quelle fottute visioni. Potevano restarsene nel loro cazzo di mondo parallelo e non venire a rompere le balle a me.
Potevano ma non l'hanno fatto, le stronze.
Senza qualcuno su cui sfogarmi mi hanno quasi obbligata a riflettere.
Su di me. Su di lui. Su di... noi.
E mi sono impietosamente resa conto di come quella faccia da pirla fosse davvero importante per me. In una maniera tutta sua, ma lo era.
Adesso che non è più sempre in mezzo ai piedi desidero fortemente che ci torni. Che torni a balbettarmi ridicole scuse per evitarsi una sana ripassata. Che torni a fare quella carinissima faccia da bambino troppo ritardato per capire dei concetti difficili. Che semplicemente torni.
...
...
...
Sto impazzendo.
E non tanto perché penso cose del genere. No, troppo facile.
Sto impazzendo perché non le nego.
Anzi, sono cristallina. Con me stessa, che sono sempre stata notoriamente la mia interlocutrice più ostica. Con cui non ammettevo niente di niente, neanche che sono... una persona sola.
Ancora.
Do tre testate al cuscino del letto su cui sono sdraiata. Non mi riconosco più.
È possibile che l'assenza del baka pesi così tanto sul mio stato psico-fisico?
Colpa delle visioni. Colpa loro. Loro.
Le odiose ritornavano. Mica si limitavano alla prima, no. Facevano pure le repliche.
Potrei citarle a memoria tanto le conosco.
“Non sono più disposta a gettare i migliori anni della mia vita nella tazza del wc. Ho quattordici anni, cristo. Non posso passare il resto della mia adolescenza a sculettare in giro e a far pesare ai miei coetanei il fatto che sono laureata e che guido un robot alto come un palazzo”.
Oppure “innanzitutto devo ringraziare la nostra prolungata permanenza in questo cesso di posto. Mi ha dato modo di riflettere, sgombra com’ero da pensieri più superficiali e meno importanti. C’è chi cambia facendo i viaggi spirituali in India o dal Dalai Lama, io l’ho fatto rimanendo seduta su tre strati di paglia lercia. Sono cose della vita”.
O ancora “Eppoi vedrò di darmi una regolata e mostrare a tutti chi sono realmente, non quell’orrenda maschera di pezza che ho indossato finora e che ha finito col deformarmi il volto”.
Recito come se stessi leggendo un copione teatrale con abilità da attrice consumata. Suono terribilmente convincente, in special modo alle mie ottuse orecchie.
Se e quando ho pronunciato queste frasi ci credevo davvero.
Lo sento. Lo so.
Risvegliano in me sensazioni che credevo sepolte sotto chili di armatura e autoconvinzione.
Ah, naturalmente da Misato non ho ottenuto nulla sul lato “che diavolo mi è successo in quella famosa settimana di black-out”. Sarebbe stato troppo bello e troppo facile chiedere e avere una risposta chiara.
Ogni volta che ritiravo fuori l'argomento lei, in ordine sparso: tergiversava, mi rifilava scuse di comodo tipo “smettila di farti tutte queste domande, è passato un sacco di tempo e non ti serve a nulla saperlo adesso”, cambiava repentinamente l'oggetto della discussione. Una volta che ho sollevato la questione in un frangente particolarmente delicato mi sono beccata una lavata di capo epocale e non ho quasi avuto il coraggio di rivolgerle la parola per due settimane tante erano le scintille che emetteva dagli occhi e che minacciava di usare per disintegrarmi sul posto.
Quindi sono punto e a capo.
Eppure, in più di un'occasione, ho cercato di farle intuire quanto significasse per me venire a capo dell'enigma. Cavolo, non mi sembra strano se uno cerca di capire quanto è ammattito perché ha le allucinazioni mistiche in cui si vede rinnegare i primi quattordici anni della propria vita nella loro interezza. Sarà un mio fottuto diritto, no?
Ma non è servito a niente. Anche se, a sua discolpa, posso dire di aver chiaramente percepito più di una volta come tutta questa faccenda la metta a disagio e come, seppur non ne abbia fatto cenno a parole, si vedesse in lei la voglia di spiegarmi davvero tutto.
L'ultimo tentativo in tal senso risale a ieri. Ho provato a tirar fuori il funesto anniversario che cade oggi per smuoverla, ma se sono qui a lamentarmi della mia infinita sfilza di fallimenti non dev'essere andata tanto meglio delle precedenti.
Arrivata a questo punto posso solo ipotizzare che dietro a tutto ciò si nasconda qualcosa di innominabilmente turpe. Robe che alla NERV sono di casa, oramai.
Magari salta fuori che sono un esperimento genetico come l'Allieva Modello.
...
...
...
...
...
Asuka, turati quella tua cazzo di bocca e non dire mai più simili bestialità.
Mai più.
Sei già abbastanza psicologicamente scossa da questa situazione morale del cavolo senza che ti vada a complicare la vita con le tue manine di giada.
Che diavolo mi sta succedendo?
Io sono davvero Asuka Soryu Langley?
Sono io la laureata precoce, la ragazza prodigio, il vanto della Germania?
Sono io quella che ha fatto a pezzi il settimo Angelo con un solo colpo?
Sono io quella che non deve chiedere mai?
No. Non sei più niente di tutto questo. Forse non lo sei mai stata realmente, o non in fino in fondo.
Quella che non deve chiedere mai? Finiscila di raccontarti fandonie. Era per caso la Vispa Teresa quella che, intrappolata in fondo al vulcano in compagnia di un Angelo, implorava silenziosamente aiuto? Sei ridicola.
Laureata precoce ci sta, è un dato di fatto. Ma ragazza prodigio è assai opinabile, visti i memorabili exploit che sei riuscita ad ammassare uno dietro l'altro coi tuoi coinquilini, coi tuoi compagni di classe, con la tua unica amica. Il prodigio dove starebbe, esattamente? Nel cercare di farsi disprezzare dal maggior numero possibile di persone?
Di nuovo. Di nuovo questa agghiacciante chiarezza. Dove sono finite le bubbole, le bugie, i colpi di coda che usavo per schermarmi dal giudizio della gente? Perché mi avete abbandonata? Eravate così comode per proteggermi dal vorace e malefico mondo esterno. Mi eravate utili.
Anche se false come Giuda.
Eravate solo un cumulo di imbarazzanti balle ciclopiche che ostentavo, come il peggiore dei parvenue ostenta la sua roba kitsch, per fuggire dagli altri, dal loro severo sguardo di disapprovazione, dalle loro sparlate alle mie spalle.
E per fuggire dal giudice più inflessibile che conosco: me stessa.
La stessa parte di me, prima buttata così in profondità in fondo al mio cuore da crederla dispersa in guerra, che ora scalcia, sbraita e si dimena per non abbandonare nuovamente il palcoscenico su cui è stata precipitosamente posizionata dal succedersi degli ultimi eventi e dalle mie recenti esperienze extra-sensoriali.
L'Asuka retta. Onesta. Realista.
L'Asuka scomoda. Scocciatrice. Importuna. Che non è disposta a star zitta di fronte a una sfuriata di troppo.
L'Asuka che sa chiedere scusa. Che sa perdonare. Che sa sorridere.
Non è morta, no. È stata debolissima per lungo, lungo tempo. Ma la tenacia non l'ha mai abbandonata e le ha permesso di sopravvivere alla mia stupidità.
Allo stato attuale delle cose posso ormai smettere di fingere: odio la mia maschera. Odio dover mostrare strafottenza, superiorità, incostanza e irascibilità. Odio trattar male gli altri di proposito.
Asuka Soryu Langley non è questo tipo di persona.
In realtà Asuka Soryu Langley è una ragazza orgogliosa, testarda e magari non facilissima da gestire. Ma di sicuro non è un'arpia inacidita da decenni di zitellaggine e buona solo per sputar veleno.
Vedo solo adesso con chiarezza, tanta chiarezza che quasi acceca. E dire che è di una semplicità disarmante.
Mi lamentavo che la gente mi trattava male. Ma brutta testa di minchia che non sei altro, è normale che se consideri chiunque alla stregua di una ruota bucata riceverai in cambio altrettanto astio e antipatia. È la legge fisica dell'azione e della reazione: a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.
Se esce bruttura non può che rientrare bruttura.
E chi devo ringraziare per questa rivelazione che, ne sono sicura, sconvolgerà la mia esistenza nelle sue stesse fondamenta? Ovviamente quel baka di Shinji, com'è tradizione dei migliori romanzi rosa.
Dovrei erigere un monumento a quel ragazzo. È stato preziosissimo, quasi più da mezzo morto che da vivo.
Ora più che mai voglio scoprire se quel che vedo nella mia testa, a intervalli irregolari, è davvero mai successo o se mi sto involontariamente preparando per un soggiorno vita natural-durante in una casa di cura per malati mentali.
Voglio sapere. Devo sapere.

Porto un fiore a Shinji. Lo metto con delicatezza dentro al vaso che sta sul suo comodino, vicino al piatto su cui per tanto tempo è stata lasciata la torta fattagli da Misato.
Trentasei mesi, oggi. Trentasei mesi che non apre più gli occhi.
Nessun segno di progresso. Stazionario. Cioè sempre con un piede e tre quarti nella fossa.
Mi siedo vicino a lui e gli accarezzo una mano. Da un po' mi è tornata in mente quell'atroce frase che mi ha vomitato addosso il giorno stesso dell'incidente: “saresti dovuta morire lì, sappilo”. E non riesco a trovare un solo motivo per non essere d'accordo.
Lì per lì, da brava Asuka Versione 1.0, mi ero limitata a incazzarmi come una biscia idrofoba di fronte a cotal insulto. Era qualcosa che credevo di non poter sopportare in nessun caso. E invece ero in torto tanto marcio che neanche il pesce dopo quattro giorni da che l'hanno cotto.
Dio, come ho potuto essere così meschina? Così insensibile? Così maledettamente stronza da non capire niente di niente?
Da non capire come Misato avesse mille volte ragione, la prima volta che siamo venute a trovarlo, quando mi ha sgridata con tanta veemenza?
Da non capire come tutto ciò che Shinji voleva da me era non essere sommerso da una valanga di letame gratuito? Anche se, stando alle mie ormai usuali visioni -che si son ben guardate dallo smettere di ripresentarsi quando ne avevano voglia-, lui era innamorato perso di me. Ma penso che il trattarlo in modo quantomeno decente gli sarebbe bastato, almeno come inizio per quello che lui sperava potesse succedere fra noi. E chissà se...
Non capivo. Ero cieca come una talpa bendata e parecchio stupida.
O meglio, facevo finta di esserlo. Mi era più semplice. Affrontavo i problemi di ogni giorno con la baldanza di un bullo ignorante e gradasso che considera come esseri viventi i ragazzini più piccoli solo dopo averli pestati ed essersi portato via i soldi per la merenda.
Che schifo. Mi viene la nausea solo a pensarci, adesso.
Oh sì, posso dire col cuore leggero che mi sono lasciata alle spalle quei foschi giorni di idiozia strillata a tutto volume.
Sono una persona diversa. Spero migliore.
Misato, dopo qualche tempo che avevo deciso di cambiare, si è talmente meravigliata che una volta mi ha presa in disparte, alla NERV, e mi ha chiesto se per caso stessi male. Al che io, con un sorriso a sessantaquattro denti perfetto per una pubblicità, le ho serenamente risposto che erano finiti i tempi in cui il soprannome “Diavolo Rosso” mi riassumeva alla perfezione.
Sono maturata. Mi sento veramente... bene. Per la prima volta in vita mia non ho sentimenti nascosti che covano attendendo futilmente il loro momento per emergere.
Perlomeno adesso cerco di vivere onestamente. Con me stessa e con gli altri.
Certo, per esempio mi arrabbio ancora e neanche troppo raramente, ma solo quando sono profondamente convinta di essere dalla parte del giusto. Mi sono trovata passatempi migliori, oramai.
Ho sperimentato un primo assaggio di cosa siano la gentilezza, la comprensione e la calma. Propria e altrui.
E, ragazzi miei, è molto meglio così.
Le tue giornate non sono un grumo di incazzatura, nevrosi, fiato corto.
Gli altri? Hanno, come buon senso vuole, reagito più che positivamente. A scuola nessuno mi guarda più con disprezzo e respiro attorno a me un clima estremamente rilassato e pacifico. A casa sono cinque mesi che non alzo la voce, se non per roba davvero di poco conto capitata in momenti di stanchezza acuta.
Non ho nemmeno più picchiato nessuno, neanche per scherzo. La cosa più violenta che mi concedo di fare è quella che ormai viene amichevolmente chiamata “pacca Asuka”: un colpo relativamente secco sulla schiena. Nessuno è mai rantolato moribondo per terra dopo averla ricevuta.
La mia ferita non è guarita ma la considero in netto miglioramento.
Eppure c'è ancora una falla. Gigantesca.
Lui.
Shinji.
Gli stringo più forte la mano cercando di cogliere un movimento.
Poi scuoto sconsolata la testa all'ennesima speranza infranta.
Comincio seriamente a temere che non si potrà mai più risvegliare. E questo mi spacca in due. Il solo pensarlo mi devasta.
Devo moltissimo a Shinji.
Se non fosse stato per lui sarei rimasta la solita, incomprensibile cazzona egocentrica. Non avrei fatto il minimo passo in avanti, in nessun senso.
Gli sono immensamente grata. Anche se, e la cosa mi ferisce oltre ogni dire, ha dovuto farsi tutto questo male per smuovere la mia testa di granito.
Ha dovuto anteporre... la mia... salvezza... alla sua.
Il pensiero balbetta perché questa è una frase che ricorre molte volte nelle mie visioni. Era un'astrusa richiesta che gli facevo e che lui, dopo lunghe elucubrazioni, accettava senza paura delle conseguenze.
Un fatto che ha dello straordinario. Tanto bello da risultare finto, buono solo per una di quelle stucchevoli commedie americane.
A me è successo davvero, invece. Forse. Ma so che sarebbe potuto succedere.
Sei una persona meravigliosa, Shinji Ikari. Hai mostrato lo spirito di un eroe. E io stavo per rovinare tutto.
Stupida Asuka. Stupida stupida stupida.
Ritraggo la mano. Non ho il diritto di stare qui.
Esco velocemente dalla sua stanza. Mentre mi volto per salutarlo si forma nel mio cervello l'intenzione, prima sussurrata appena e poi dichiarata a linee chiare e precise, che non posso più permettermi di vederlo ridotto in quelle condizioni pietose. Non se voglio continuare a guardarmi allo specchio senza odiarmi per gli anni a venire.
Significa fuggire, me ne rendo conto. Fuggire da lui, dalla possibilità di doverlo affrontare se mai dovesse uscire dal coma e dal senso di colpa che ora preme, a mò di martello sull'incudine, alla base del mio collo.
Ma è uno strazio indicibile vedere a che limiti ha dovuto spingersi per aiutarmi a diventare una persona normale.
Mi fa troppo male. Troppo.
Corro via. Nel farlo, con la testa bassa e rosa dall'amarezza, sbatto senza volerlo contro qualcuno. Il colpo mi fa rotolare a terra.
“Asuka! Che diavolo combini?”. L'inconfondibile voce della mia tutrice mi perfora un orecchio con la sua inusuale gracchiosità. Che pessimo neologismo.
“Scusa” bofonchio nel rialzarmi “ma ero di fretta e non ti ho proprio vista”.
“Venivi dalla stanza di Shinji, vero?”.
“Beh, sì. La cosa ti stupisce, immagino” ironizzo malcelando il sarcasmo, unico residuo della vecchia Asuka che ancora oso sfoggiare.
“No, affatto. Dovrebbe?” rimarca con un risolino soffocato.
“Scema”.
“Oh, suvvia. Scherzavo. Piuttosto, ci sono novità?”.
“No. Ammazzerei l'inventore del detto nessuna nuova, buona nuova”.
Si fa torva in volto, di quella scurezza che ho tristemente imparato ad aspettarmi di vedere ogniqualvolta si parla di Shinji.
Non sono la sola ad avere il cuore più o meno in briciole.
Sta per dire qualcosa ma la sovrasto con cipiglio: “Senti Misato, avrei bisogno di parlarti. Possiamo appartarci un po'? Non mi va che tutta questa gente” e indico distrattamente i camici bianchi impegnati in un divertentissimo andirivieni per il corridoio “si faccia una scarica di fatti nostri”.
Abbozza un sorriso mentre acconsente senza rimostranze. Ci dirigiamo verso il suo ufficio privato, e nel farlo lei sottolinea una volta di più come apprezzi questa mia nuova attitudine. Sostiene, testualmente, che “una volta non avresti mai chiesto gentilmente di chiacchierare con me di qualcosa che, dato il tuo tono, presumo sia grave o comunque molto importante. Sono davvero felice di vedere quanti progressi hai fatto”.
Mi schernisco dicendo che non è niente di speciale, in fondo, e che qualunque mentecatto con un minimo di sale in zucca ci sarebbe arrivato prima o poi.
“Sì, forse. Ma tu hai abbattuto, o almeno pesantemente incrinato, la cappa che ti soffocava. Ti assicuro che c'è chi non ci riesce neanche dopo mille anni”.
Tiro un sospiro di sollievo quando finalmente giungiamo nel suo piccolo sancta sanctorum. Il parlare così insistentemente di me mi mette, ogni tanto, un po' a disagio: sento una particina del mio stomaco che tenta la ribellione dicendo frasi melliflue, qualcosa sulla falsariga di “ecco, non ti piace sentirti lodare in modo tanto sperticato? Perché sei venuta meno al tuo antico proposito, quello di farti adorare dalla marmaglia che ti circonda?”. E io ho chiuso con quell'odiosa e smargiassa voglia di primeggiare, anche se a volte mi tenta in maniera così suadente che rischio pesantemente di ricascarci come l'ultima dei fessi.
Mi fa cenno di accomodarmi mentre fa altrettanto.
“Bene. Ti ascolto”.
Inspiro. Penso alle parole giuste. Cerco di fermare l'innaturale tremolio della mano sinistra.
E dire che volevo cercare di apparire il più calma possibile. Sembro una malata di Parkinson.
“Ecco... come dire... scusa, hai dell'acqua? Sono molto tesa”.
Senza lamentarsi si alza e mi procura un bicchiere pieno.
“Accidenti però, Asuka” esclama improvvisamente mentre me lo consegna “non hai bisogno di farti venire un infarto. Qualunque sia il problema stai tranquilla che lo risolviamo”.
Bevo avidamente e non mi sento più un pellegrino sperduto nel deserto.
“Sarei molto felice se davvero fosse così semplice”.
“Cos'è successo di tanto catastrofico? Hai l'AIDS e ti restano tre giorni di vita?”.
Scuoto la testa con fare greve: “Beh, no. Per fortuna non è così tanto disastroso. Ma poco ci manca, per quanto mi riguarda”.
Prendo un'altra grossa boccata d'aria mentre lei se ne sta a braccia conserte attendendo pazientemente che io sputi il rospo.
“Io voglio andarmene da Neo Tokyo-3”.
La guardo. È ammutolita, con lo sguardo fisso verso qualcosa che temo non esista.
“Non... non credo di... aver capito bene”.
“Su, sei troppo giovane per essere sorda. Hai capito benissimo”.
Mi afferra le spalle.
“Perché vuoi fare una cosa senza senso come questa, Asuka? Dove vuoi andare? E con che soldi? Come ti manterrai?”.
La raffica di domande mi stordisce. In effetti non avevo pensato a tutto ciò.
“Non lo so. Non mi interessa. Io non ce la faccio più, Misato. Non ce la faccio più ad entrare nella stanza d'ospedale di Shinji e vederlo costretto a letto, sapendo che potrebbe non svegliarsi mai. Il rimorso mi taglia le gambe ogni volta, da un po' di tempo a questa parte”.
Con un tono amaramente sarcastico, del tutto inadatto alla fragile situazione attuale, si permette di sottolineare come credeva che io non potessi sapere cos'è il rimorso. Una volta l'avrei sbudellata per questo commento, ma per una lunga serie di motivi soprassiedo.
Proseguo imperterrita nella mia ammissione di colpa: “Ormai mi sono pienamente resa conto di quanto io sia stata parte in causa per arrivare dove siamo oggi. O meglio, dov'è lui oggi. E non riesco a sopportarlo, non più. Col passare dei giorni prima, delle settimane poi e alfine dei mesi mi sono accorta di come mi gravasse un macigno addosso e di come sia del tutto impotente per porre rimedio alle mie spregevoli azioni passate. Quindi non mi è venuto in mente niente di meglio che questo. È una soluzione palesemente fallata, incompleta ed egoista da parte mia, lo so benissimo. Non ho più il fegato per nascondere le mie responsabilità e le mie debolezze in modo tanto smaccato. Eppure non vedo altra via d'uscita per la mia sanità mentale. Perché sento che, se proseguissi così, presto sarei a fargli compagnia. Mi taglierei i polsi. Tenterei il suicidio. E non lo voglio, sarebbe stupido e inutile. Meglio una vigliacca fuga”.
Concludo.
Sul suo ufficio cade una cupola di mesto, soffocante silenzio.
La vedo lasciare la sedia, rovistare in un cassetto della scrivania e prenderne qualcosa che mi porge con fare materno.
Un fazzoletto.
Sto piangendo?
“Non hai la benché minima idea, Asuka, di quanto tu sia riuscita a rendermi felice per quello che hai appena esternato. Nonostante il momento difficile sei stata limpida e onesta con te stessa in maniera brutale e ti sei caricata sulla schiena tutto il peso di ciò che hai fatto. È ammirevole. Davvero ammirevole. Il tuo desiderio di cambiare ti ha portata lontana, figlia mia. Ora asciugati le lacrime, per favore”.
...
Mi...
... ha chiamata...
... ”figlia”.
“Scusa, puoi ripetere l'ultima frase?” sussurro a mezza voce.
Lei per un istante non capisce, poi viene fulminata sulla via di Damasco e ribadisce: “Ti ho detto di asciugarti gli occhi. Non ti eri accorta di star piangendo?”.
Un mezzo rantolo le fa capire che non mi riferivo a quello. Comunque ne approfitto per darmi una sistemata al volto che dev'essere un disastro.
Ma la furbastra ancora non arriva al punto. Sostiene il mio sguardo avido con fare appena sufficiente, probabilmente chiedendosi cosa voglia da lei.
Scoccati i dieci secondi di mutismo mi secco di attendere oltre: “Parlavo di quella cosa che comincia con figlia e finisce con mia”.
Al che, con mio sommo stupore, le nasce un sorriso solare: “Ah, quello. Spero vivamente che non ti sia offesa, ma mi è uscito naturale. Ormai sono quasi quattro anni che abitiamo insieme, che ti vedo svegliarti ogni mattina e andare a dormire ogni sera. In quell'istante mi si dev'essere scollegato il cervello ma mi sono proprio sentita una mamma con la sua figlia teenager, bella e intelligente, alle prese con i problemi tipici dell'età. Scusa, è stata un'uscita infelice da parte mia”.
Senza nemmeno pensarci la strizzo in un abbraccio da grizzly.
“Che fai? Dai, e se ci vedesse qualcuno?” mormora, imbarazzatissima.
“Ci facciano pure delle foto da strillare su Internet come lo scandalo mediatico del secolo, non me ne frega un accidente. Quel che hai detto lo considero un miracolo. E non c'è stata alcuna mancanza di rispetto da parte tua, solo un'immensa dolcezza che ha alleviato il cuore pesante di questa cretina”.
E, finalmente, sento le sue braccia strette attorno alla mia schiena.
“Grazie, Asuka”.
“Grazie a te, mia preziosa madre di riserva”.
A questo punto scoppia in un pianto dirotto. Mi ci vogliono trenta minuti buoni per calmarla.
Una volta placata mi dice, con la voce ancora leggermente tremula, come fossero anni che non si commuoveva in modo tanto infantile. Allora la rimprovero bonariamente dicendo, col miglior tono adulto di cui sono capace, che non ha nulla di cui vergognarsi e sottolineo più di una volta che l'essere chiari con se stessi e con i propri sentimenti è uno dei primissimi passi verso lo stare davvero bene. È stata la prima cosa che ho realizzato nel mio complesso cammino interiore.
“Ah Asuka, vorrei specificare una cosa che ritengo davvero importante. Ricordi quella brutta, bruttissima frase che ti ho spiattellato in faccia la prima volta che siamo andate a trovare Shinji? Su come quel che ha fatto sia stato inutile?”
Starà scherzando. È uno di quei fatti che non si dimenticano nemmeno dopo una lobotomia totale.
“Certamente, è ben stampata nella mia testa”.
“Cancellala. Qui e ora me la rimangio, con buona pace del mio orgoglio. Per quanto le conseguenze di quel gesto siano state le peggiori possibili ora posso dire, senza alcun timore di venire smentita, che ne è pienamente valsa la pena. Hai fatto tali passi da gigante che certe volte, ancora, non credo che tu e quell'altezzosa piccola vipera appena arrivata dalla Germania siate la stessa persona”.
Ridacchio, felice di sentirla parlare così. Poi aggiungo: “Oh, io e lei siamo la stessa persona. Abbiamo lo stesso nome, gli stessi capelli e gli stessi occhi” sottolineo con un plateale gesto da primadonna. “Però sono fiera di poter affermare che lei è deceduta in un inferno di fiamme e lava dal quale sono uscita io. Diciamo che ho fatto un bagnetto catartico nel vulcano Krakatoa”.
“Ti sei segnata l'indirizzo, vero? Potrebbe servire anche a me”.
“Ma certo. Quando vuoi”.
Appena finito questo scambio mi guarda con un'aria a metà fra l'arrabbiato e il dispiaciuto. Si alza per l'ennesima volta e si mette di fronte alla finestra, dandomi scortesemente le spalle. Poi riprende come se nulla fosse successo: “Comunque continuo a pensare che la tua sia una pessima idea, se non altro a livello puramente pratico. Ti chiedo di nuovo dove hai intenzione di andare e come farai per sopravvivere”.
Sono ancora sprovvista di tali risposte ma cerco di imbastire qualcosa di convincente sul momento: “Beh, per la spinta iniziale posso chiedere a mio padre. Sono sicura che sarà disposto a mandarmi un po' di soldi. Per il resto vedrò di cavarmela da sola. Devo forse ricordarti che ho sul mio curriculum vitae una laurea in un'età in cui di solito si pensa a quando si prenderà la patente?”. In effetti invocare l'appoggio del mio augusto genitore non è una così brutta trovata. Potrei davvero fare così.
“Sì, ma dove? Non puoi prendere e andare nel primo posto che capita”.
“Veramente posso, e credo proprio che se non opporrai eccessiva resistenza lo farò. So che obietti per il mio bene e capisco le tue preoccupazioni. Ma tu cerca di capire cosa mi spinge in tal senso. Te l'ho detto, so anch'io che è una decisione affrettata e pessimamente bilanciata. Ma considera questa opzione e paragonala all'eventualità di vedermi distesa in un letto, accanto a Shinji, con le braccia solcate da cicatrici di rasoio. E questo se già non fossi morta dissanguata”. Sento di essere diventata troppo emotiva nella seconda parte del mio discorso, tanto che mi si inumidiscono di nuovo gli occhi.
Per favore Misato, so che non mi ostacoli per partito preso e per certi versi hai pienamente ragione. Ma vienimi incontro, ti scongiuro.
Trae un lungo e penoso sospiro, quasi a simboleggiare la resa.
Ma, al contrario di quanto mi aspettavo, quando si volta non è per darmi il suo beneplacito.
“E se ti dicessi quello che aneli tanto? Se ti dicessi cosa è successo in quella famosa settimana di tre anni fa? Saresti disposta, in cambio, a desistere?”. La vedo incredibilmente seria. È la sua ultima possibilità di convincermi a restare.
Sei furba, Misato. Giocare questa carta è qualcosa che proprio non avevo considerato.
Penso velocemente a una buona risposta. La cosa migliore che mi salta in testa è cercare di metterla con le spalle al muro, dichiarando come sono disposta ad ascoltarla senza però promettere nulla. Sono troppo determinata per acconsentire al suo do ut des.
“Sta a te, ora. Ho posto le mie condizioni. A meno di emergenze universali nessuna delle due ha fretta, quindi prenditi il tuo tempo” sentenzio solenne.
Stupendomi per la seconda volta nell'arco di minuto dice a bruciapelo, scuotendo la testa: “Non mi serve tempo. Tengo troppo a te per lasciarti andare senza averle provate tutte. Mi va bene. Ti dirò tutto e poi farai come vuoi”.
Sgrano gli occhi.
Non credevo davvero che fosse così attaccata a me. Mi commuove.
Ho ancora in mano da prima il suo fazzoletto.
Lo uso per pulirmi. Ancora.
Ci sediamo, una di fronte all'altra.
Non esita. Non tralascia. Non ha pietà.
Quello che rivela mi travolge come un oceano in tempesta travolgerebbe un'imbarcazione di giunchi e foglie.
Tutto ciò che salta fuori combacia, per filo e per segno, a ciò che ho visto nelle mie visioni.
Tutto.
Movimenti. Atteggiamenti. Insulti.
Specifica che sa perché io e Shinji, una volta liberati dalla nostra prigionia, abbiamo stilato un dettagliatissimo resoconto a uso e consumo della NERV. E la cosa non mi meraviglia affatto.
Suppone inoltre che io non ricordi nulla di tutto ciò per via del famigerato incidente occorsomi combattendo contro quell'Angelo, assommato alla spropositata quantità di brutti ricordi accumulati. Questo avrebbe spinto il mio subconscio a esacerbare gli effetti del trauma cranico, estendendo così il periodo di black-out. Fa ben presente che lei non è un medico e che questa è solo una più o meno plausibile possibilità. Per rassicurarmi conferma che ne parlerà più approfonditamente con la dottoressa Akagi.
Sono genuinamente sconvolta.
Beh, un lato positivo c'è: non sono pazza. A quanto pare, se ci ha azzeccato, al mio cervello o a chi per lui non dev'essere piaciuto troppo il rimuovere di peso tali, importanti esperienze.
Come spiegazione devo peraltro ammettere che si regge in piedi in modo più che decente.
“Mi scuserai” dico senza nemmeno rendermene pienamente conto “ma simili rivelazioni richiedono tempo per essere metabolizzate. Vorrei poterci riflettere sopra prima di darti una risposta precisa”.
Accetta di buon grado e rimarca, beffarda, come a lei ci sia voluto un nonnulla per adottare una precisa linea di azione. Le faccio presente, con un tono non esattamente gentile ma neanche incazzato, che per fortuna non tutti sono dotati della sua spericolatezza. Ribatte ridendo in modo un po' sguaiato ma sincero.
“Hai in mano ciò che volevi, Asuka. Mi hai chiesto di pensare e te ne concedo volentieri la facoltà, dato che capisco bene come una simile scelta vada ponderata. Se non hai nient'altro da rivelarmi, però, temo di doverti mandar via. Sono piena di arretrati da sistemare”.
“Sì, va bene. Grazie della possibilità che mi offri”.
“Ci mancherebbe. Te l'ho detto, non voglio che tu esca dalla mia vita in questo modo. Se non riesco a fermarti così evidentemente non era destino”.
La ringrazio ancora prima di lasciare il suo ufficio.

DRIIN. DRIIN. DRIIN. DRIIN. DRIIN. DRIIN. DRIIN.
“Pronto?”.
“Alla buon'ora, Misato. Pensavo di diventare vecchia mentre aspettavo che tu rispondessi”.
“Asuka. Non dire così. Ci sarà un motivo se sono due giorni che non torno a casa”.
“Sì sì, conosco la cantilena. Lavorare alla NERV è massacrante”.
“Per quale motivo mi chiami?”.
“Ho deciso”.
“Immagino in merito a quella famosa proposta”.
“Immagini bene, sì”.
“La tua risposta?”.
“Rifiuto”.
“... oh... certo...”.
“Non posso davvero. Non reggerei una settimana di più a questo ritmo. Se dovessi di nuovo rivedere Shinji in quel malnato letto cercherei di ammazzarmi nella maniera più truculenta possibile. E se restassi succederebbe, prima o poi. Ne sono mortalmente sicura”.
“... sì, capisco...”.
“So di darti un dispiacere e me ne dolgo. Ti ho però spiegato approfonditamente il perché di questa mia scelta”.
“Non devi giustificarti più del dovuto. Sono adulta e tu, dal tuo punto di vista, stai solo facendo ciò che ritieni giusto per la tua vita. Ho imparato ad accettare come spesso ciò che si spera non accade”.
“Misato?”.
“Sì?”.
“Scusami”.
“Shhh. Ti ho appena detto che non serve”.
“Mi sento in colpa. È per caso vietato?”.
“Non credo, anche se dovrei ripassare il codice legale. Ma, seriamente, non caricarti anche di questo peso. Dopotutto, per quanto la piega presa dagli eventi non mi piaccia, mi rendo conto di come tu sia suscettibile al pensiero di visitarlo di nuovo e, in un modo del tutto egoista, mi fa piacere come ti riesca difficile staccarti da me”.
“Sei infida, te l'ha mai detto nessuno?”.
“Mettiti pure in fila, ragazzina. Non sei la prima e non sarai di certo l'ultima. Hai già sentito tuo padre?”.
“Sì. È stato estremamente comprensivo e ha detto che mi farà avere il più presto possibile un discreto gruzzolo con cui poter partire”.
“Quando hai intenzione di separarti per sempre dalla tua eccezionale tutrice che si struggerà all'infinito per la perdita?”.
“Non essere melodrammatica, dai. Ti telefonerò ogni benedetto giorno. Te lo prometto. È il minimo per ripagarti di tutta la pazienza e costanza che hai investito su di me”.
“Eh, vorrei ben vedere. Non so quante persone non ti avrebbero sgozzata dopo i primi dieci minuti di convivenza”.
“Ahahahahahahahahahahahah. Sei tremenda, davvero, ma incasso la frecciata. Me la merito. Comunque non so ancora il giorno esatto, ma direi non oltre il weekend. Dipende da quando mi arriveranno i soldi”.
“Va bene. Io finisco a breve, si spera. Appena rientro ti starò attaccata come una cozza fino al momento clou. Desidero avere dei ricordi indimenticabili dell'ultimo periodo che trascorreremo insieme”.
“Non potrei chiedere di meglio”.

Stringo forte nella sinistra lo SDAT di Shinji. So che è appropriazione indebita, questa. Ma a lui potrebbe anche non servire mai più.
Il chiasso dell'aeroporto è assordante. Faccio quasi fatica a sentirmi pensare.
Misato non accenna a mollarmi. Ha specificato a chiarissime lettere come, dipendesse da lei, si staccherebbe solo una volta a bordo dell'aereo, con la cintura di sicurezza allacciata.
Benedetta donna. Come hai fatto ad affezionarti così tanto a me? Non sono sicura di meritare tanto affetto da parte di qualcuno che ho ripetutamente ferito e umiliato in passato. Mi fa sentire viziata, in un certo senso. Come quei bambini che, a prescindere dalla gravità delle loro marachelle, alla fine vengono sempre coccolati dalla mamma.
“Allora signorinella, ci siamo quasi eh?”.
“Già. Se il frastuono non ha ingannato le mie martoriate orecchie dovrebbero mancare non più di venticinque minuti al momento dell'imbarco”.
“Los Angeles. Mi chiedo perché”.
“Non c'è un vero motivo, lo sai. Ho preso un mappamondo e ho scelto la prima città che mi ispirava. Niente di preordinato o preorganizzato. Solo sesto senso”.
La guardo. Mi sorride radiosa, anche se so benissimo che sta soffrendo come un cane bastonato. Eppure ho la sensazione che non stia fingendo, non del tutto almeno. Mi piace credere che veda in questa scelta la possibilità che mi do per forgiarmi un futuro il più possibile incontaminato dalle scorie di una giovinezza spericolata e malsana. E che questo, nonostante tutto, la renda felice per me.
“Dai Misato, puoi pure levarti quel sorriso posticcio. Spero che tu non creda che io sia disposta a bermi la tua finta”.
Non so perché ho detto questo. È suonato terribilmente maleducato.
“Quale finta, Asuka? Io sono in pace con quanto sta succedendo. Hai deciso nella maniera più responsabile e matura possibile e questo mi intristisce, ma nel contempo mi riempie di fierezza. Sei cresciuta, forse più di quanto avrei mai voluto. Però è semplicemente il corso della vita che si dipana inflessibile e che, giustamente, non è disposto a rallentare per aspettare un'attempata signora che si avvia verso la mezza età”.
Ciò che odo mi fa montare qualcosa che credevo estinto: rabbia.
Ma non è la rabbia a cui un tempo ero abituata, di quella cieca e sdegnatissima per una qualche presunta offesa rivoltami da un temerario suicida.
È una rabbia, se così si può dire, “giusta”. Perché non mi piace per nulla sentirla denigrarsi in questo modo.
Attendo un suo attimo di distrazione, poi la mia mano destra scatta fulminea e anche Misato Katsuragi entra nella lista delle vittime della pacca Asuka.
“Non ti azzardar mai più a darti dell'attempata signora, almeno non entro i prossimi venti o venticinque anni. Ma ti sei vista allo specchio? Sei ancora nel fiore degli anni, porca miseria”.
La poveretta non riesce a spiccicar parola di rimando, intenta com'è a massaggiarsi la schiena dolorante. È stata una bella botta, una delle migliori che mi siano riuscite.
“Ci siamo capite?” concludo con un ringhio più finto dei capelli di un parrucchino.
Riguadagna velocemente la postura eretta, si volta verso di me e con un gesto eloquente mi fa capire come non devo più tentare colpi di testa del genere se alla pellaccia ci tengo ancora.
“Ok, ok. Sei stata chiarissima. Alla prossima così mi farai pentire di essere nata. Peccato per te, però, che non ci sarà una prossima”.
Ancora? Perché sto facendo di tutto per farla sentire il peggio possibile? Già per lei è difficile così, non ha senso che le rigiri il coltello nella piaga.
Smettila stupida. Non ricadere in vecchi cliché che hai superato.
“Scusa. Sono stata scortese” aggiungo per correggermi in corsa.
“Zut. Ti ho già detto che per me questa faccenda è risolta. Magari non per il meglio, ma è risolta. Chiusa. Finita. Kaputt. Non parliamone più, per favore”.
Chiusa, eh? Sì, chiusa come un rubinetto che perde. Non è che son proprio nata ieri.
Devi proprio rovinare sempre tutto a tanto così dalla fine, vero stupida Asuka?
“Piuttosto, perché non mangiamo qualcosa? Il cibo sugli aerei è rigorosamente pessimo. Almeno qui hai ancora la possibilità di ingollare qualcosa di decente”.
“Mi sembra una buona idea. Ma in fretta, il gate da cui parte il mio volo è piuttosto lontano da qui” rimarco indicando l'uscita numero tredici. La mia è la trentacinque.
Ci incamminiamo con passo sostenuto, mantenendo un decoroso silenzio.
Lei ha probabilmente solo tristi parole di commiato da rivolgermi e per quelle c'è ancora tempo. Io, invece, ho l'irrazionale ma motivata paura di dire qualcosa di terribilmente sbagliato. Ne ho già fatte due di cazzate, non è il caso di aggiungerne altre alla sin troppo nutrita collezione.
Quindi entrambe ci guardiamo bene dal dire qualcosa. Credo che nessuna delle due voglia rompere quest'atmosfera un po' strana e imbarazzata, almeno da parte mia. Inoltre si rischierebbe di cadere nella banalità del “Cosa farai? Dove abiterai?” e simili, e non mi va proprio.
Giungiamo rapide al più vicino bar dove ordiniamo due frugali panini imbottiti. Consumiamo il misero pasto senza nemmeno scambiarci il più fugace degli sguardi, ognuna apparentemente concentrata sul proprio hot-dog fumante.
Eh, va bene il non dire cazzate ma così mi sento soffocare.
Esclamo, a mò di petardo che esplode in mano senza preavviso: “Misato, non ce la faccio a star ancora zitta. Manca così poco tempo e non ho nessunissima intenzione di gettarlo nello sciacquone del cesso riservandoti un immeritato trattamento del silenzio”. Scaglio per terra ciò che stavo mangiando controvoglia e la abbraccio, sfogando in un tranquillo ma sentito pianto il turbinio di fuochi contrastanti che provo in questo momento.
Sì, sono contrastata.
In un orecchio c'è la voce della ragione che, posata nella sua consapevolezza di essere nel giusto, mi bisbiglia senza malizia come la mia decisione sia ciò che di meglio posso fare se voglio preservarmi una vita futura degna di questo nome.
Nell'altro orecchio, invece, c'è la voce della furia, dei sentimenti sin troppo repressi, degli occhi offuscati dalle lacrime. Questa è, chiaramente, l'esatto opposto dell'altra: un rombo di tuono che, imperioso nella sua consapevolezza di essere altrettanto nel giusto, mi urla come lo smisurato affetto di Misato nei miei confronti sia stato pugnalato a morte in modo vergognoso.
Cosa fare? Devo andare ma in realtà non voglio.
È solo fredda logica quella che mi spinge a imbarcarmi verso gli Stati Uniti d'America. I ribollenti moti dell'animo, invece, stanno facendo di tutto per farmi cedere.
“Vai, Asuka”.
Alzo la testa dal suo petto. Sono un fiume in piena in cui gli argini risultano solo uno sbiadito ricordo.
Il tono con cui mi ha sussurrato quelle due semplici parole è quanto di più delicato possa anche solo immaginare.
“Devi andare. Sei ancora giovane e hai mille possibilità di rifarti. Non approvo la tua scelta per una questione egoistica, lo sai, ma non ho difficoltà ad ammettere che è la soluzione migliore per il tuo avvenire e per la tua stabilità fisica e mentale”. Nel momento in cui pronuncia “migliore” comincia a singhiozzare incontrollata, travolta dall'onda emotiva.
Ma perché?
Perché capitano tutti a me i santi?
Prima Shinji e poi Misato.
Sono stata benedetta in una vita precedente, per caso? Altrimenti non mi spiego questa insperata, immotivata, ingiusta fortuna.
Quando succedono scene madri simili mi convinco che non merito neanche un'oncia di ciò che gli altri fanno nei miei confronti.
La gente quasi si ammazza per me. La gente si sacrifica fino al limite estremo per me.
Per me. Una che, sino a pochi anni fa, avrebbe reagito con un cenno di stizza o un'arrogante risata piena di disapprovazione.
Cos'ho di così speciale? Spiegatemelo, ve ne prego.
“Bambina mia, fai solo ciò che ritieni giusto per te. Sei tu il centro del tuo mondo, non io e tantomeno Shinji. Hai le tue ragioni, corrette o meno che siano, per andartene. Credici fino in fondo e prendi in mano le redini della tua vita”.
...
...
...
Misato. Piantala, per favore.
Più usi epiteti dolci come “bambina mia” e meno le tue parole trovano un substrato adatto per attaccarsi.
“Come posso abbandonarti così? Sarei la peggiore delle merde viventi”.
“Oh, suvvia. I piccoli prima o poi spiccano il volo da soli. E tu non sei nemmeno nata nel mio nido. Ti ho trovata, infreddolita e con le ali spezzate, in una notte di tempesta. Ti ho presa con me e ho fatto del mio meglio per aiutarti a guarire. Adesso sei uno splendido esemplare adulto ed è sacrosanto che vada per la tua strada”.
Mi stringo più forte alla sua giacca, inondando senza riguardo i suoi vestiti.
“Su, sbrighiamoci. Hai un aereo da prendere” intima con pessimo tempismo, la voce rotta dai singulti e l'autorità di un barboncino appena tosato.
Non riesco a dirle di no e mi lascio trascinare, apatica e ancora in preda ai tormenti morali.
Temo che ormai questa donna mi abbia in pugno. Se mi chiedesse di buttarmi a peso morto dal Golden Gate Bridge credo che lo farei.
Il resto della strada che ci separa dall'arrivo viene percorso da una coppia che potrebbe tranquillamente giocarsela con Stanlio e Ollio per il titolo di Duo più Sgangherato del Mondo: un'adolescente coi rubinetti aperti, il passo vagamente zoppo e l'aria da persona finita da una parte; una signora ancora molto giovane con lo sguardo trasognato, un sorriso idiota appiccicato al volto e la camminata da angelo inciampato dall'altra parte.
Al capolinea tento goffamente di fingere un malore per rimandare, o almeno ritardare, la partenza ma il suo sguardo inusualmente severo mi fa immediatamente cambiare idea.
“Non fare così. Continua a essere coraggiosa come lo sei stata finora, Asuka, e dimostra al mondo che non ti sei sbagliata, che fai bene a imbarcarti per l'America” mi rimprovera, ora con gli occhi da cerbiatta astuta.
Se ne avessi la forza le tirerei un pugno. Invece riesco a malapena a sorriderle stanca. Lo sfogo mi ha privata di molte energie.
Arrivano i saluti di rito, che poi tanto di rito non sono visto che con quest'abbraccio rischia di stritolarmi fino a ridurmi a uno scheletrino. Dopodiché, esaurita la parte violenta, mi lascia un bacino di una tenerezza innaturale sulla fronte.
Spossata come sono faccio una tremenda fatica a ricambiare. Il mio corpo ha un serio bisogno di dormire, adesso. Avrò tempo per pentirmi dopo.
Si dilunga, forse eccessivamente, in raccomandazioni e ammonimenti vari ma proprio non riesco a scocciarmi o ad arrabbiarmi. Non nel mio attuale stato psicologico.
Certo che non aver sentito praticamente mai dalla propria madre biologica frasi come “E non dare confidenza agli sconosciuti!”, dovendo aspettare che sia la propria tutrice e madre adottiva a farlo... beh, vi assicuro che non è una bella sensazione.
Per mia fortuna non la fa poi così tanto lunga. Chiude il discorso con una pacca d'incoraggiamento sulla schiena e il suo caratteristico gesto di vittoria con le due dita, il tutto sempre contornato da uno sperticato sfoggio di felicità.
...
Dio santo, finitela di travestirvi da super eroi. Mi fate sentire inadeguata.
Mimo il gesto di una telefonata per ricordarle la mia promessa, poi mi avvio con fare ciondolante verso il gate che conduce all'aereo.
Misato, sarai la seconda stupida persona che mi mancherà da morire.

DRIIN. DRIIN. DRIIN. DRIIN.
“Pronto?”.
“Ciao Asuka. Com'è il tempo dall'altra parte dell'oceano?”.
“Misato! Che piacere sentirti. Non mi aspettavo questa tua chiamata”.
“Lo so, piccola disgraziata. Hai tenuto fede alla parola per appena due anni e mezzo. Poi hai cominciato a diradare e ora fai la fatica di alzare la cornetta appena una volta ogni tre giorni”.
“Ma dai, non fare così. Te l'ho detto che il lavoro mi assorbe tantissimo e che ho dei problemi a trovare anche il tempo per dormire”.
“Sì, vabbè...”.
“Cos'è questa voce da funerale? È successo qualcosa a casa?”.
“... purtroppo sì. Si tratta... di Shinji”.
“...”.
“...”.
“... che c'è? Non sarà mica...”.
“Purtroppo sì”.
“Ommioddio. Ma come...”.
“Semplicemente il suo corpo ha smesso di lottare. Si è spento”.
“Spento? SPENTO? Mi prendi in giro, Misato?”.
“Ti pare che ti prenderei in giro su una cosa di simile importanza?”.
“... sì, scusa”.
“Spero che troverai il tempo almeno per venire a trovarlo, ogni tanto”.
“Puoi scommetterci. Dio, sono sconvolta...”.
“Non dirlo a me. Ero ancora convinta che ce la potesse fare. Vecchia illusa”.
“... non ho parole...”.
“Beh, ci sentiamo ok? Scusa, mi viene da piangere”.
“... sì... sì, certo...”.
“Ciao Asuka”.
“C-ciao”.
Riaggancio, il cuore trafitto da un uncino di colpa.
Mi volto verso il letto. Il sorriso di Shinji è degno del peggior Jack Nicholson.
“Ma che brava. Hai recitato una parte perfetta” dice senza il minimo tatto.
Mi avvicino a lui. Voglio guardarlo bene mentre gli rinfaccio lo spregevole atto che mi ha appena fatto commettere: “Cosa ti frulla per la testa? Perché hai architettato questa ridicola farsa? La volevi forse uccidere dal rimorso?”.
Gli si illumina il volto di qualcosa che non credevo potesse esistere nel suo animo: sadismo. “Accidenti Misato, sei un genio. Come l'hai intuito?”.
“Non ti riconosco più. Dov'è finito il placido ragazzo a cui volevo bene?”.
“È morto. Non è sopravvissuto al coma. Sai che non ne aveva la tempra. Io, invece, ce l'ho fatta. È stato l'odio che provo nei confronti di quella stronza dai capelli rossi a risvegliarmi, non certo il tuo sciocco affetto”.
Tento un'ultima, disperata difesa: “Shinji, Asuka è cambiata. Qualunque cosa tu possa ricordare di lei è svanita. Ha intrapreso un percorso di espiazione che nemmeno ti immagini, ha digerito rospi grossi come grattacieli e si è pentita di tutto il male che ti ha causato. È una persona nuova”.
“Io pure. Ma temo che l'evoluzione non sarà di tuo gradimento. Oh beh, problemi tuoi”.
Inutile.
Non provo nemmeno a controbattere.
“Vedrai che te la farò pagare, maledetta puttana. Non ti perdonerò mai per avermi sottratto quasi cinque anni della mia esistenza. E soprattutto” aggiunge, spostando con un teatrale gesto il lenzuolo che lo copre dalla cintura in giù “non ti perdonerò per avermi causato la perdita della gamba. Per colpa della tua insensibilità da clone del cazzo l'osso non si è ricalcificato in modo corretto e hanno dovuto amputare. Ma puoi scommettere sulla tua testa da finta tedesca che il conto sarà salato. Non ti basterà una vita intera per saldarlo”.
Me ne vado. Sentirlo sputare parole tanto astiose mi avvelena.
Non posso credere alla piega presa dagli eventi. Finalmente Asuka era riuscita a scrollarsi di dosso tutto il marciume che la soffocava.
Ha dovuto ingoiare prese di coscienza, sofferenza e dolore sufficienti a distruggere anche la più resistente delle persone.
E ce l'aveva fatta. Anche brillantemente, se mi è concesso sottolinearlo.
Eppure, ne sono sicura, il suo calvario è appena iniziato.
Cammino per il corridoio dell'ospedale, la faccia ridotta a una cupa caricatura del mio umore, una volta usualmente gioviale.
Questi ragazzi sono davvero stati destinati all'infelicità, non trovo altra spiegazione plausibile.
Scoppio in lacrime di fronte a tanta ingiustizia.
   
 
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