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Autore: _maya96_    20/12/2012    2 recensioni
Era accaduto tutto così velocemente, neanche mi ero resa conto di cosa fosse realmente successo. Una serie di immagini sfocate, a cui cercai di dare un senso, mi trapassò la mente, mentre chiudevo gli occhi, forse per l’ultima volta.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Klaus, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parte 2

-Broken Rose- 

-Rosa Spezzata- 
 


 
 È arrivato il momento, riesco a percepirlo.
Accorto, comincio a muovermi nell’oscurità, affondando con le scarpe su un terreno fangoso.
Tutto quel freddo e gelido silenzio diventa nullo e quell’adrenalina, sintomo di una paura troppo ingente, mi pulsa avida insieme al sangue frenetico nelle vene.
Mi avvicino.

* * *




“Mi sembri spaventata, little sweetheart” dissero quegli occhi di ghiaccio, avvicinandosi. “C’è forse qualcos’altro che ti turba oltre all’atmosfera di questa festa?”. 
Fece un passo verso me. Una gelida distanza che si stava pian piano estinguendo. Il mio più crudele incubo divorava lo spazio nel quale avrei lambito la mia fuga.
“Magari una persona?”.
Quella sua profonda e scaltra voce m’indusse a indietreggiare, ma quel lieve tragitto che ero riuscita a distanziare fu nuovamente colmato da un altro suo calcolato ed effimero passo in avanti.
“O forse, i ricordi di quella notte sono così vividi dentro il tuo cuore, da coltivare temibili sensi di colpa?”
Quelle crudeli parole mi penetrarono nella carne come frecce avvelenate, provocando delle invisibile ferite sanguinanti.
La mia inquietudine, invece, sembrò rafforzarlo. Il suo perfido ghigno parve incupirsi e la sua alta figura si fece ancora più vicina alla mia.
Un invisibile cerchio di un minuscolo raggio si delineò intorno alle nostre immagini, imprigionandole tra gabbie di ferro, mentre i miei irregolari respiri spezzavano l’aria e quel senso di colpa mi stava esplodendo all’interno.
Preferirei morire pur di non vedervi mai più.
Quella frase mi giunse come uno schiaffo in pieno viso, facendomi sussultare il cuore, che perse un battito e lui parve capirlo.
“Il rimpianto ti sta uccidendo” disse lui, avanzando ancora impotente verso la mia minuta figura. “Riesco a sentirlo divorarti pezzo per pezzo”.
Sei un mostro.
La testa mi pulsava violentemente, immagazzinando parole taglienti, che ormai non potevo più sostenere.
Meriti di soffrire.
Indietreggiai e mi presi tra le mani la testa dolorante, cercando di fermare quelle brutali sentenze, ma erano troppo forti, non riuscivo a zittirle.
“Continuerà finché non rimarrà più niente di te e farai fatica addirittura a riconoscerti allo specchio” continuò lui, divorando insensibile l’aria che ci circondava. “Forse ha già cominciato”.
La tua vita non ha alcun significato.
Delle calde lacrime mi punsero gli occhi, ma li negai la libertà, lui non doveva vederle.
Tu li hai uccisi. Meriti di soffrire.
“Basta, smettila!” Dissi con tutto il coraggio rimasto in corpo, non riuscendo però a mettere a tacere la mia paura dinnanzi a lui, che riuscì a trasformare la mia debolezza nella sua forza più potente.
“Perché, mi sto sbagliando?” Mi chiese, facendo un altro passo in avanti, tanto che dovetti alzare la testa per vederlo in volto. “O forse una ragazzina piccola come te non riesce a sopportare tutto questo?”
Preferirei morire, pur di non vedervi mai più.
Ogni cosa, tutto incominciò a girarmi confusamente in testa. I loro volti, le mie parole, i loro sguardi, quella maledetta strada, le mie cicatrici e quell’ombra che piano si avvicinava. Tutte le ferite che dopo mesi erano riuscite ad emarginarsi, lui le aveva riaperte in un banale secondo, senza nemmeno toccarle con un dito.
Sei un mostro.
No! Non è vero.
Meriti di soffrire.
No!
Quella voce divenne più forte, più acuta. Mi urlò dentro le orecchie, distruggendomi i timpani.
La tua esistenza non ha alcun significato.
Basta! Ti prego.
Rimasi immobile, ascoltando ciò che invece avrei preferito non sentire mai. Tutta quella verità, che maligna mi si dipingeva in faccia, macchiando il mio animo di tutto ciò che avevo commesso.
Tu li hai uccisi. Loro sono morti per colpa tua.
Le lacrime cominciarono a cadere come fiumi dai miei occhi serrati . Tenni la testa bassa per paura di vedere i suoi occhi di ghiaccio nei quali si rifletteva il mio sguardo colpevole.
“Perché mi fai tutto questo?” Gli chiesi con la voce rotta dal pianto. “Io non ti ho fatto nulla”.
I suoi occhi indifferenti e distaccati si legarono ai miei, ma la sua espressione non mutò nemmeno davanti alle mie lacrime, come se fosse davvero privo di sentimenti.
“Non sono le mie parole a ferirti tesoro, ma quelle che t’infliggi tu stessa” rispose lui con la sua solita e gelida voce calma. “La coscienza talvolta può essere davvero crudele, credimi lo so bene”.
Rimasi in silenzio davanti alla sua perfetta ed impotente figura, ascoltando le sue crudeli, ma veritiere parole.
Aveva ragione. Ero io stessa quella di cui avevo realmente paura, ero io la mia ombra e colei che faceva sanguinare le mie ferite, per questo non riuscivo a dimenticare, la parte irrazionale di me non me lo permetteva.
Non potevo continuare a fuggire, dovevo affrontarla, dovevo spegnere la luce, cercando di combattere il buio.
Ma come potevo?
Quei ricordi si trasformavano in odio, odio verso me stessa. Io mi odiavo. Odiavo me per quel che avevo fatto a loro.
Non potevo continuare così, mi stavo distruggendo, stavo riducendo in frantumi tutto ciò che ero stata fino ad adesso.
Uccidevo ogni singola certezza che avevo e non riuscivo davvero a riconoscere la ragazza imprigionata dentro lo specchio, nel quale mi riflettevo ogni mattina.
“Odiarsi è davvero una triste pena” disse, abbassando il volto verso il mio, per farsi ancora più vicino, tanto che solo un respiro riuscì a separarci. “Se non riesci più a fidarti di te stessa, su chi altro puoi contare?”
Abbassai lo sguardo, sentendo il suo sorriso dipingersi sul rosso delle sue labbra, che sputavano parole di fuoco.
“È notevole che tu abbia resistito così a lungo, ne sono sorpreso”.
Non volevo più ascoltarlo. Volevo andarmene da quel maledetto posto e tornare a fingere di star bene, forse la cosa che riuscivo a far meglio.
“Cosa vuoi da me?” Gli domandai con lo sguardo basso sui miei piedi ancora nudi.
Volevo sapere perché mi dicesse quelle cose, per quale motivo voleva farmi odiare ancor di più me stessa?
Io non gli avevo fatto nulla, per quale ragione doveva ferirmi?
Le sue affusolate dita di ghiaccio si avvicinarono al mio volto e mi alzarono il mento, come un gelido respiro.
“Tesoro, saprai solo quello che ti concederò di sapere, nulla di più”.
Quegli occhi così meschini parvero rapirmi, attirandomi fino alle profondità del mare, dove nemmeno i raggi del sole riuscivano a salvarmi.
Fui costretta ad assistere ad un suo altro spaventoso sorriso e da quella distanza riuscì a scorgere qualcosa sui suoi denti perfetti.
Una minuscola macchia rossa scarlatta, sporcava quell’immenso biancore vicino al canino sinistro, talmente piccola che feci fatica a vederla. Forse aveva bevuto qualcos’altro oltre a quella scadente birra, stasera.
“Klaus finalmente sei arrivato, incominciavo a sentire la tua mancanza”.
Una profonda voce femminile ci raggiunse alle spalle.
Mi voltai e vidi la raggiante figura dai capelli ramati, che cadevano in perfetti boccoli di Samantha.
Come facevano a conoscersi?
Klaus era una persona pericolosa e anche se non sopportavo Samantha, lei non doveva stargli vicino.
La rossa si avvicinò a noi e con un sorriso smagliante sulle labbra si mise al fianco di Klaus.
“Ti sei già stancata di Scott?” Mi chiese acida, squadrandomi dalla testa ai piedi.
“Non essere così scortese con Alba, la conosco da quando era una bambina” disse lui, riuscendo ancora una volta a farmi rabbrividire per il fatto che mi conoscesse da così tanto tempo, quando io invece di lui conoscevo solo il nome. “Ho insistito io, con i suoi zii, a renderla partecipe a questa festa”.
Il respiro mi si spezzò effimero in gola e le gambe parvero cedere sotto il mio peso al suono di quelle parole.
Ecco perché mia zia mi aveva praticamente costretta a venire, glielo aveva chiesto lui, ma perché lo aveva fatto?
Perché ci teneva così che io partecipassi a questo party sulla spiaggia, che lui aveva stesso organizzato?
Forse sapeva che mi sarei sentita così, perché sapeva benissimo la mia storia, lui mi conosceva spaventosamente bene. Ma perché, se era così amico dei miei genitori, io non sapevo nulla di lui?
Doveva aver sicuramente qualcosa in mente…
“Ti senti bene, sweetheart?”
Alzai lo sguardo ed incontrai il suo. Quelle fredde lamine di ghiaccio, di un qualcuno che aveva già previsto tutto.
“Si, io…io sto bene” risposi, raccogliendo quel poco di coraggio rimasto. “Vado a prendere qualcosa da bere”.
Mi voltai senza aspettare una loro risposta e mi feci largo tra la folla, cercando la via più vicina per tornare a casa, quella che costeggiava il bosco.
 

* * * *

 
Adesso.
Quel breve e coinciso messaggio, che ho così a lungo aspettato, ora si trova tra le mie mani.
Lo rileggo ancora una volta per essere sicuro, cercando nello zaino una strana polverina, frutto di una strega troppo ingenua.
Sento delle voci in lontananza, di ragazzini che probabilmente si erano appartati abbandonando la festa.
Ciò potrebbe complicare le cose, ma ho imparato ad avere sempre un piano B.
 

* * * *

 
Camminai velocemente su quel sottile lembo di sabbia, che innocente divideva il mare dal bosco, il buio dalla luce come una fascia intermedia distanzia il giorno dalla notte.
L’odore salato del mare m’impregnò le narici e il sussurrio dell’infrangersi delle onde intonò una dolce melodia, che poteva perfettamente unirsi alla mia sconosciuta canzone, che ogni sera riusciva a far addormentare Joseph.
Pensai a lui, al suo primo passo al quale avevo assistito e al secondo che avevo rinunciato a vedere per venire in questa squallida festa.
Possibile che ogni volta ricadessi nello stesso errore?
Forse era una sorta di maledizione. Qualcuno si divertiva a mettermi alla prova e io come una stupida cadevo in quella trappola invisibile, costruita apposta per me.
Forse una volta non mi era bastata, avevo bisogno di riprovarlo per capire davvero quanto fossi una stupida.
La coscienza talvolta può essere davvero crudele.
Quelle parole pronunciate con tale indifferenza, così fredde e meschine che mi congelarono il cuore, riducendolo in cumolo di ghiaccio, che non riusciva neanche più a battere il dolce suono della vita.
Erano come morte. Impassibili parole di un estraneo che ero certa fosse entrato nella mia vita con l’inganno, ma erano così vere, che sentirmele dire non mi provocò indifferenza.
Il rimpianto mi stava uccidendo e lui riusciva ad ascoltare ogni pezzo che si dissolveva del mio essere, ogni singolo frammento della mia anima si stava disperdendo pian piano in uno sperduto oblio. Lui riusciva a sentirlo, mentre io che lo vivevo, ormai, non ci facevo più caso.
Forse non lo sentivo più ferirmi come faceva all’inizio o forse semplicemente mi ero abituata al dolore.
Ma quando il dolore diventa parte di noi stessi diventa davvero difficile cercare di liberarsene, perché separarti da lui significherebbe non riconoscere più te stessa e io di questo avevo paura. Avevo paura di me. Non riuscivo più a capire quali fossero i miei limiti, non riconoscevo più a chi fossero dovute le mie lacrime e tutte quelle notti passate a guardare il freddo soffitto era perché avevo paura di sognare.
Io non entrerei mai in un giardino senza nemmeno una rosa.
Quella semplice frase pronunciate da una bambina forse troppo piccola per comprendere la realtà, mi entrò dentro la pelle sotto forma di un sano ricordo.
Come se il giardino costituisse un’intera esistenza, ma quelle semplici rose, rappresentate dai sogni, fossero le sole a dargli un colore.
Un’esistenza senza sogni non era degna di essere vissuta.
Questo avevo sempre pensato, ma quando i sogni si trasformano in incubi si ha paura a dormire la notte e tutte quelle rose si trasformano in rovi e quel giardino diventa solo un rimpianto.
Odiarsi è davvero una triste pena. Se non riesci più a fidarti ti te stessa, su chi altro puoi contare?
Era vero.
Su chi altro potevo confidare?
Ero da sola, nessuno mai sarebbe riuscito a comprendere qualcosa di cui neanche io riuscivo a trovarne un significato.
Forse mi odiavo. Anche se non l’avevo mai detto a nessuno, anche se non l’avevo mai detto a me stessa, forse nel profondo me lo sentivo. Sentivo quelle crudeli e spoglie pareti di una stanza troppo vuota rinchiudermi, fino ad arrivare a comprimermi in quell’immenso nulla, che colmava la mia vita.
Ma se il nulla non esisteva, allora io chi ero?
Quel dubbio mi si delineò in mente, assaporando effimero quella paura e quella sofferenza.
L’origine del dolore è la brama di esistere, ma forse io non esistevo neanche.
Un secco rumore trafisse avverso i miei più intimi pensieri, facendomi tornare per l’ennesima volta alla realtà, che forse ormai non riuscivo più a distinguerla.
Mi avvicinai ai quei fitti rami di quel bosco divorato dall’oscurità e sentì soltanto quel freddo vento scotere fioco le alte fronde, dove dominava il silenzio delle creature della notte, ma non riuscii a scorgere nessuno.
 

* * * *

 
Il suono dei miei respiri si disperde come un eco lontano e si unisce al fangoso fragore dei miei passi leggeri, mentre sento ancora delle voci poco lontane.
Mi guardo intorno.
Ogni minimo rumore può costituire una minaccia, ma forse non sono abbastanza attento.
Un rametto secco scrocchia sotto il mio peso, senza che nemmeno me ne accorga.
Mi fermo.
Attendo.
Una scura figura dall’altro lato della spiaggia si volta nella mia direzione, ma riesco a non farmi vedere, uno spesso tronco mi nasconde.
Si avvicina.
Trattengo il respiro per paura che lei lo senta, che quella sconosciuta figura possa riuscire a trovarmi. Se mi avesse scoperto sarei stato costretto ad ucciderla.
Uccidere una persona innocente, solo per arrivare ad ucciderne un’altra.
Tutto questo mi sembra insensato, ma in questo mondo ormai nulla ha più un senso, tutto il resto sono solo vittime sacrificabili, così mi ha detto lui.
Si ferma a qualche passo dalla foresta. I chiari raggi lunari le illuminano il volto dai lineamenti fini e la riconosco.
Alba.
Lei non dovrebbe essere qui.
Ho previsto tutto, ho calcolato ogni cosa fino al minimo dettaglio, ma non lei.
Questo non è parte del piano. Non posso permettermi che le accada niente, anche se sarà una distrazione.
 

* * * *

 
“Alba, aspetta”.
Affondai di scatto i piedi in quella soffice sabbia, fermando quel passo che era già partito involontario e mi voltai verso quel dolce suono di quella voce soave, dalla parte opposta in cui avevo sentito quel secco rumore, provocato probabilmente da un animale del bosco.
Una lontana ed indefinibile figura si faceva spazio tra l’oscurità e avanzava diretta verso me, finché il suo volto fu trafitto da dei deboli raggi di luna, che rendevano più pallida la sua pelle diafana, illuminando un colore simile allo smeraldo.
“Scott?”
“Hai dimenticato queste” la sua immagine si avvicinò ulteriormente, tanto che riuscii a distinguerla nel nero della notte. “Hai dimenticato le scarpe”.
Abbassai all’istante lo sguardo sui miei piedi ancora nudi.
L’odio e la rabbia che mi erano divampati all’interno dopo quella strana conversazione con Klaus me le avevano cancellate definitivamente dalla mente.
Arrossii e fui contenta che lui non potesse scorgere nell’oscurità il rossore delle mie guance.
Come avevo fatto a dimenticarmele?
Com’era possibile dimenticare un qualcosa di così tanto banale?
Klaus aveva la capacità di distogliermi, in un modo troppo facile, dalla realtà. Riusciva a negarmela come se fosse un gioco. Un dannato gioco nel quale vinceva sempre e c’era riuscito anche questa volta.
“Non ti preoccupare, capita a tutti” disse Scott, leggendo negli occhi il mio imbarazzo e sorridendo leggermente. “Okkey, non proprio a tutti…”
Sorrisi. Mi veniva spontaneo farlo quando c’era lui, riusciva a farmi ridere anche per le cose più semplici, anche se già di per sé questo fatto faceva ridere.
“Ti ringrazio” gli dissi riprendendomele e facendole calzare ai piedi. “Non so come abbia potuto dimenticarle”.
La voce mi uscì in un flebile sussurro, che si disperse assorto nel vento, mentre quello lo spogliò della parola, quando giunse troppo lontano sotto forma di fragile eco passeggero.
Eravamo lontani dalla festa, tanto che sentivo a malapena la forte musica che mi pulsava nel cuore e lui aveva fatto tutta quella strada solo per riportarmi le scarpe.
Lo guardai. Cercai di decifrare quel suo affabile sguardo nell’oscurità e quei chiari occhi verdi illuminavano come fari un buio che forse mi regnava all’interno.
Cercai di comprendere quel misterioso legame che ci univa, quel filo rosso del destino che ci legava impercettibilmente, ma non riuscii a definirlo, ma forse fu un bene, perché un qualcosa che può essere compreso allora si trasforma in odio.
Per questo si dice che bisognerebbe amare, amare follemente, senza vedere ciò che si ama. Perché vedere è comprendere e comprendere è disprezzare.
Ciò che ci univa però era più un’intesa. Una sorta di affiatamento, che forse ancora non riuscivo a definire. Avevamo un legame, non potevo negarlo, ma ciò mi spaventava.
Dopo quello che era successo ai miei genitori avevo paura di legarmi con qualcuno. Avevo paura di essere felice, ma perché una tale felicità forse neanche esiste ed è destinata a dissolversi inesorabilmente.
Per questo avevo deciso di non legarmi più con qualcuno, Ryan e i miei genitori mi avevano provocato ferite, che neanche il tempo riusciva ad estinguere ed avevo giurato a me stessa di non commettere più lo stesso errore.
“C’è qualcosa che non va?” Mi chiese Scott, sostenendo il mio sguardo che forse si era soffermato troppo tempo sul suo.
“No, niente” risposi, rinsavendo dai miei pensieri. “Va tutto bene”.
Lo vidi avvicinarsi, ma non indietreggia all’avanzare della sua figura come facevo con Klaus. Lui mi trasmetteva un qualcosa simile alla sicurezza ed era forse quello di cui avevo maggiormente bisogno in quel momento.
Fece un altro passo verso me e io distolsi lo sguardo dai suoi occhi, non doveva accorgersi che mentivo, doveva credere che stessi bene, tutti dovevano pensarlo.
“Non mi sembri così tanto convinta”.
Trattenni il respiro in cerca delle parole da dire. Non volevo dirgli niente, né dell’incidente, né di Ryan, né di Klaus, non volevo dir nulla, nulla di tutti quei pensieri che incombevano loquaci dentro me da troppo tempo ormai. Tutti quei problemi che infami mi macchiavano il cuore e rischiavano di farmi impazzire.
La coscienza talvolta può essere davvero crudele.
“Cosa ti fa pensare che io non lo sia?” Gli chiesi, cercando di non far vedere il mio vero stato d’animo, mascherando la luce che si celava nei miei occhi.
Se gli occhi erano lo specchio dell’anima allora lui non doveva vedermeli, altrimenti avrebbe capito che in realtà ero solo una dannata bugiarda, che tutto quello che dicevo nuotava nella menzogna.
“Te ne stai andando quando la festa è appena cominciata” mi disse, avvicinando le mani al mio volto. “E non vuoi nemmeno guardarmi negli occhi”.
Chiusi le palpebre per un breve ed insignificante istante, quando le sue leggere dita mi sfiorarono le guance, alzandomi il viso verso il suo.
Quel calore mi pervase la pelle, fino ad entrarmi nelle sue più profonde fenditure, accarezzandomi con tale dolcezza da non sentire nemmeno il suo fragile tocco, come se fossi un qualcosa di così prezioso, da potersi rompere sotto il suo sguardo.
“Si tratta di Klaus?”
Feci un passo indietro quando sentii pronunciare il suo nome, il nome di una persona così meschina da un’altra che invece forse non conosceva nemmeno quella parola.
“Lo conosci?”
Gli chiesi, non riuscendo a trattenere una voce strozzata. Klaus era riuscito ad entrare nella mia vita e ora stava entrando in quella delle persone che mi stavano intorno. Cosa voleva da me?
“So solo che ha organizzato lui la festa, nulla di più”.
Sospirai, ma decisi di non parlargli di lui, almeno non per adesso. Di tutto quello che ero riuscita a capire di Klaus era che non ci si poteva fidare e dopo quello che mi aveva detto oggi, non potevo sapere a quale punto fosse disposto ad arrivare. Voleva qualcosa e aveva un piano che sicuramente m’includeva, ma non potevo coinvolgere altre persone, non potevo farlo con Scott.
“Alba, so che c’è qualcosa che ti preoccupa, ma non posso aiutarti se continui a nascondermela”.
Rimasi immobile davanti alla sua alta figura, con delle parole che uscirono mute dalle mie rosse labbra. Era troppo evidente ciò che sentivo e per tutti quei mesi avevo solo finto di nascondere quelle ferite, che in realtà non avevano smesso di sanguinare.
“Puoi fidarti di me”.
Quelle sue parole mi giunsero come uno schiaffo in pieno volto. Come potevo fidarmi di lui, non potevo nemmeno fidarmi di me stessa. Ero da sola, il nulla in mezzo all’eternità.
Se non riesci più a fidarti di te stessa, su chi altro puoi contare?
Su nessuno, io non potevo contare su nessuno, nessuno al mondo sarebbe riuscito a comprendere quel maledetto rimorso che mi stava divorando, quella dannata coscienza che mi sussurrava la notte.
“Perché dovete chiedermelo tutti, dannazione” sbottai io, cercando di non incrociare lo sguardo sorpreso di Scott. “Io sto bene”.
Mi voltai per andarmene, ma lui non me lo permise. Mi afferrò per un braccio e mi costrinse a voltarmi verso la sua alta figura.
“Vuoi dirmi cosa ti sta succedendo, non posso vederti così”.
Alzai il volto e incrociai il suo sguardo. Quel dolce verde degli occhi era rimasto immutato, nonostante il mio scatto d’ira improvviso. Perché mi comportavo così con lui, non se lo meritava affatto. Scott era l’unico che riusciva a capirmi, ma io non potevo continuare a nascondergli il mio dolore, non potevo tenerlo solo per me, mi avrebbe uccisa.
“Qualche mese fa ho avuto un brutto incidente in macchina con i miei genitori” gli dissi, distogliendo lo sguardo. “Ero uscita di nascosto per andare ad una festa”.
Tenni gli occhi fissi a terra per paura d’incontrare i suoi accusatori e leggervi ancora una volta la delusione nei miei confronti, non sarei riuscita a sopportarla.
“Io mi sono salvata, loro no” continuai, cercando di non mostrare la mia voce strozzata. “Questa è la mia triste storia”.
Era la prima volta che parlavo con qualcuno, raccontandogli di quella notte, di quell’incidente e delle loro vite spezzate, ma fu una liberazione per me, di un fardello troppo grande da poter sopportare. Come se ogni parola che dicevo facesse scivolare via il mio dolore pezzo per pezzo e quelle voci nella mia testa sembravano allontanarsi, come un temporale che magnanimo si concede al sole, dopo una lunga tempesta.
Tuttavia quel suo silenzio mi preoccupò. Forse aveva capito che in realtà non ero quella che mostravo, ero un’assassina, nessuno mai avrebbe compreso ciò che era un mostro, forse ora avevo solo rovinato tutto, nonostante quel peso mi gravasse in modo minore il cuore palpitante.
“Non ti devi sentire in colpa per questo, non potevi saperlo” mi disse, sfiorandomi la spalla con la sua mano.
Un gesto di pietà, ecco cosa odiavo, che le persone avessero pietà di me, io non meritavo nemmeno la loro comprensione.
Mi allontanai da lui, facendo un passo indietro e guardai il suo braccio sospeso ancora in aria, come se mi attendesse.
Lui non poteva capirmi, era esattamente come gli altri, non avrebbe mai potuto comprendermi. Se comprendere significa disprezzare, allora preferivo che non mi rivolgesse nemmeno la parola, piuttosto che mi negasse il suo sguardo.
“Se li avessi ascoltati loro a quest’ora sarebbero qui” risposi con voce più bassa, quasi come se avessi paura a pronunciare quelle parole, come se l’altra me potesse in qualche modo punirmi. “Sarebbero qui con me”.
Altro silenzio. Riuscivo a capire quanto gli costasse questo discorso, quando invece probabilmente voleva tornare alla festa a divertirsi, io lo costringevo a parlarmi, come se ne avessi davvero bisogno, come se tutti quei mesi passati da sola fossero insignificanti.
“Perdere qualcuno è veramente dura” mi disse, spostando lo sguardo nel nulla del bosco, che forse era lo stesso che riempiva il mio essere.
“Per tanto tempo ho cercato delle ragioni…”
Fece un passo vicino a me, tanto che la sua spalla riuscì timidamente a toccare la mia.
“…per troppo ho immaginato delle risposte…”
Ai nostri sguardi fu negata la vista. I miei occhi non riuscivano ad incrociare i suoi, che risiedevano al mio fianco, ma era come se non lo vedessi.
“…ma non puoi trovare quello che non c’è…”
Quelle parole mi bruciarono il cuore, con una lama diversa dalla mia sofferenza. Quella era…la sua sofferenza. Come se anche lui stesse in qualche modo soffrendo, ma forse era stato più bravo di me nel nasconderlo.
“…credimi, succede e basta.”
Mi voltai verso di lui e lo vidi di profilo accanto a me. La sua spalla era più alta della mia figura e quasi riuscii a toccare il tessuto della sua maglia, talmente gli ero vicina.
“Parli come se già lo sapessi” gli dissi, quando si voltò anche lui verso di me.
Alzai lo sguardo per vederlo in volto. Quegli scuri capelli gl’incorniciavano il viso ovale dalla pelle diafana e quegli occhi verdi parevano aver smesso di brillare, come quel giorno che aveva parlato del fratello.
Qualcosa lo turbava, riuscivo a comprenderlo. Quell’avvilito sguardo ne era la prova, anche lui mi nascondeva qualcosa, come avevo fatto anche io, forse era questo che ci legava?
“Qualche anno fa ho perso mia madre” mi disse, negandomi il suo sguardo.
Silenzio.
Il cuore parve smettere di battere.
Lo guardai immobile. Non volevo sembrare banale, non volevo credesse che io lo compatissi, odiavo quando le persone dicevano quelle dannate frasi di cortesia per poi sparire per sempre, io non ero come loro, non lo sarei mai stata, eppure non sapevo cosa dire.
Riuscivo solo ad immaginare il suo profondo dolore. Sentivo il sangue delle sue ferite unirsi alle mie e scorrere insieme nei nostri corpi vuoti.
È questo che eravamo?
Due immagini sfocate nel tempo, riuniti soltanto dalla sofferenza reciproca, ma io al contrario di Scott non ero mai riuscita a scorgere la sua, ero concentrata solo su me stessa, pensando che nessuno al mondo potesse soffrire come me, ma mi sbagliavo.
Una morsa mi strinse lo stomaco, mentre ascoltavo le sue parole farsi spazio nella mia mente, annegando tutti i miei pensieri e quegli assurdi eventi che erano capitati fino ad oggi.
Io non ero da sola, non ero l’unica a soffrire e pensare che fossimo in due fu un sollievo per me, ma l’dea che l’avessi costretto a renderlo partecipe del mio dolore fu come una lama nel cuore.
Scott si sedette su un tronco spezzato al suolo ai piedi della foresta, con lo sguardo rivolto verso il mare, verso quell’infinito che divorava un banale spazio di tempo, ma i suoi occhi parvero passarvi attraverso, come se riuscisse a vedere le profonde sponde dell’oceano, sotto il bianco spumeggiante di quelle onde, che fragorosamente vomitavano ricordi.
Il cielo sembrava non esistere. Si tuffava cupo nel mare riunendo le sue estremità in una cosa sola, come adesso parevano le nostre anime, che da qualunque sostanza fossero unite ero certa fossero uguali.
Come se quella pena ci unisse in una persona sola, due cuori che si completavano a vicenda, nel gelo della vita.
“Nessuno sa per che cosa sia morta” mi disse non distogliendo gli occhi dal vento invisibile.
Mi sedetti accanto a lui, cercando di farli sentire la mia vicinanza. Non volevo si sentisse solo, come ormai ero io da molto tempo.
Sentii la mia maglia sfiorare delicatamente la sua e attraverso quella giacca intrecciata da dei fili invisibili delle trame dell’anima riuscii a scorgere in lui un essere fragile, un’anima spoglia, nuda di fronte a me ed ebbi paura che quel ragazzo si rompesse davanti ai miei occhi.
“Amava cantare” mi disse con voce roca. “Penso di non averlo detto mai a nessuno prima”.
Cercò di sorridere di fronte a quel pensiero. Un sorriso privo di significato di una persona che aveva sofferto troppo, ma se il dolore che sentiamo si riflette come specchi nei nostri occhi, come poteva essere così sincero da riuscire a nasconderlo?
“Quando se n’è andata…sentivo solo silenzio” asserì ancora, nascondendo il volto con capelli scuri, che si confondevano nella notte. “Le sue canzoni, la sua voce, tutto di lei era svanito”.
I miei occhi si fecero lucidi, aumentando quel senso di colpa per aver fatto di nuovo tornare alla luce le sue ferite più nascoste, lui non lo meritava.
Si fermò per un attimo. Una pausa che fredda incupì il suo cuore, mentre crudele gli divorava l’animo, una sensazione che conoscevo bene e viverla di persone era una nefandezza.
Gli sfiorai il braccio, dandogli il mio conforto e lui riprese a parlare, come se mi avesse realmente sentito.
“Per sei mesi smisi di parlare” pronunciò quelle parole con nostalgia, come se quella sofferenza patita non avesse smesso di assillarlo. “Avevo paura di dimenticare la sua voce” disse “Così decisi di dimenticare la mia”.
Un brivido mi percorse crudele la spina dorsale, mentre avido mi strinse la bocca dello stomaco, mentre lui appariva indifferente, come se quelle sue parole non lo scalfissero, ma a volte l’indifferenza è ciò che di più atroce esista al mondo e quel suo dolore di certo non era ancora scomparso.
“Mio fratello un giorno venne da me, mi promise che non mi avrebbe mai abbandonato” continuò questa volta voltandosi nella mia direzione. “Io gli credetti e ricominciai a parlare”.
Il suo sguardo si perse ancora una volta nel vuoto, rivangando quel triste passato che legava i suoi sentimenti a quelli del fratello. Oltre alla perdita della madre, la scomparsa del fratello dovevano averlo distrutto.
Con gesto fluido si alzò dal tronco e s’incamminò lento verso la riva del mare.
Lo seguii, rimanendo qualche passo indietro, non volevo in qualche modo farlo sentire a disagio, ma non sapevo cosa fare, che cosa dire, mentre il silenzio attorno a noi si stava appesantendo.
“Ma mio padre e mio fratello non erano mai andati d’accordo e dopo la morte di mia madre le loro liti degenerarono”.
Una folata di vento gelido mi trafisse il viso e mi scostò furente i capelli, come se tutto il suo dolore si riversasse sul mio viso e le lacrime gettate dal mare ci piangevano addosso.
“Una sera lui uscì di casa, dicendo che sarebbe stato per poco”.
Mi avvicinai a lui, capendo dove voleva arrivare. La chiara luce della luna illuminò innocente le nostre scure figure, abbandonate al potere del tempo, come se fossimo pallidi spettri costretti a vagare tra i nostri ricordi.
“Lo aspettai per tutta la notte e per le tre seguenti, ma lui non tornò” mi confidò, mentre quei chiari raggi lunari gli si riflettevano candidi sul viso deluso. “Quella fu l’ultima volta che vidi mio fratello”.
Con gesto svelto s’inumidì le labbra con la lingua, come se si fossero seccate in un istante.
Un istante. Un semplice e banale istante può cambiare le nostre vite per sempre. Un istante, una persona nasce ed un’altra muore e quel singolo rintocco può essere schioccato dai vetri in frantumi di una macchina andata fuori strada. Un istante. Si vive per lui, non per quello successivo, non per quello precedente. La vita è piena d’istanti e il loro insieme forma la nostra eternità.
“Mi dispiace” riuscii solo a dirgli questo, come tutte quelle inutili persone che incontravo a Seattle, ma forse ero anche io ipocrita come loro, ma sperai che lui non lo pensasse.
“Già” asserì lui, tornando a guardarmi in volto. “Devi solo darti tempo. Non sarà sempre così difficile, te lo prometto”.
Le sue calde parole riuscirono a scaldarmi il cuore, mi entrarono sotto la pelle e si nascosero nel sangue, che invisibile, scorreva dalle mie ferite, che mi scivolavano addosso.
Io non dissi nulla, sebbene lui sia stato capace di farmi cambiare opinione su me stessa e su ciò che mi circondava, forse era come un angelo, il mio angelo, quello di cui mi raccontava mia mamma, quando ero piccola.
Poi feci un gesto, un gesto del quale mi sorpresi.
Avvolsi le mie braccia intorno al suo alto corpo e affondai delicatamente la testa sul suo ampio petto.
Intorno a noi scese il silenzio, un silenzio carico di parole, come il rumore del mare che divorava la notte.
Lui ricambiò il mio abbraccio e le sue dolci mani si posarono incerte sulla mia schiena, ascoltando il battito del mio cuore, che sembrava fosse aumentato.
Riuscii a sentire le nostre ferite richiudersi. Ascoltai il fermarsi del sangue che scorreva effimero da esse, attraverso un patto solenne stipulato con la dolcezza di quell’amplesso, ma tutto ciò durò solo per poco.
Un forte grido, nato dal bosco, scandì quell’aria fredda intorno a noi e si dissolse agonizzante nel cielo cupo, in cui solo le stelle facevano da guida.
 

* * * *

 
L’ho sentito. Ho sentito un grido provenire dal bosco.
Mi avvicino e una sensazione di pericolo mi graffia fin dentro le viscere.
Qualcun altro, oltre a me, è qui ad ascoltare. Avverto i suoi gelidi occhi fissarmi nell’oscurità.
Lui si è accorto di me, ma se mi avesse voluto uccidere lo avrebbe già fatto, nessuno glielo avrebbe impedito.
Ha qualcos’altro in mente. Forse questo è solo un avvertimento, un avvertimento che avrei potuto fermare, se l’immagine di Alba non avesse compromesso il piano.
 

* * * *

 
 “Lo hai sentito?” Mi chiese allarmato Scott, voltandosi verso la foresta e facendo un passo davanti a me.
Annuii paurosamente. Quel grido assordante mi era entrato dentro e con la sua spaventosa agonia mi aveva bloccato il cuore.
Tutto quel silenzio era stato spezzato in un solo attimo. La quiete del mare, il fruscio del vento e il fragore dei nostri respiri erano stati sopraffatti da quello strano strepito.
Qualcuno doveva essersi ferito. Qualcuno come noi che si era appartato dalla festa o forse si trattava solo di uno stupido gioco di ragazzi troppo ubriachi.
Il vento freddo mi trafisse avido la pelle, portando forse una crudele voce, che prima avevo sentito. Non poteva essere solo un’immaginazione, era così viva, così vera, troppo reale da riuscire a comprendere.
Un grido umano troppo doloroso per essere finto, qualcuno doveva davvero star male. Mi sembrava di sentire i respiri affannosi di quell’anonima voce dentro una sconosciuta foresta.
Feci un passo verso i primi alberi che impotenti si stagliavano verso il cielo, divenuto improvvisamente più cupo, ma Scott allungò il braccio, bloccandomi il passaggio.
“Resta qui” mi disse per poi sparire furtivo nella foresta.
Mi guardai intorno, avevo paura a rimanere sola, perché tutte le volte che succedeva capitava qualcosa di brutto.
Un senso d’ansia mi assalì il cuore al pensiero di Scott, ma non potevo rimanere lì a far nulla, dovevo andare, forse lui aveva bisogno d’aiuto, non potevo lasciarlo li da solo, sarebbe stato pericoloso.
Feci un passo e poi un altro più veloce finché entrai silenziosa nel cuore del bosco, andando incontro ad un qualcosa che forse neanche conoscevo, ma tutte le mie paure non presagivano nulla di buono.
 

* * * *

 
È una ragazza.
Una fragile anima strappata alla vita troppo presto, con ancora quella dolcezza infante di chi ingenuamente non ha ancora conosciuto il mondo.
È bella, bella quasi quanto lei, ma nei suoi occhi socchiusi riesco a vedere l’albeggiare del colore della morte e di un’esistenza spezzata troppo violentemente, come un’innocua rosa sdraiata sopra un candido letto di foglie, che prosciugano il suo sangue.
È solo una vittima, una vittima sacrificabile.
Si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Eppure mi sento così in colpa, avrei potuto aiutarla, se fosse successo a lei, non me lo sarei mai perdonato.
Sento delle voci avvicinarsi.
Tra non molto tutti sarebbero giunti a vedere cos’è accaduto, ma nessuno mai di loro saprà realmente.
Devo andarmene, ma lui non ne sarà contento. Forse questa è la mia ultima notte, le ultime ore di un’afflitta esistenza, vissuta troppo ingiustamente per definirla tale.
 

* * * *

 
“Scott!”
Un vento gelido mi trafisse il viso, trapassandomi il tessuto del vestito, che avevo indosso, da parte a parte.
La luce di quella lontana luna filtrava dagli alti rami, che come delle lacrime scendevano dalle fragili fronde degli alberi spogli d’inizio inverno.
Il terreno sotto le mie scarpe cedeva nel fango, dovuto a giorni di pioggia, mentre quel letto di foglie del colore del sangue nascondeva crudele varie insidie, nelle quali ogni tanto cadevo.
Ansimante, ascoltavo i miei respiri che effimeri tagliavano l’aria, ricordando che da qualche parte qui intorno vi era una cavità che scendeva nascosta nel terreno, come un profondo pozzo, nel quale una volta avevo rischiato di cadere.
Forse qualcuno ci era finito dentro.
Corsi più veloce, più veloce che potevo, picchiando con furia disumana quell’aria che mi circondava, mentre i capelli volavano disordinatamente indietro, sottomessi da quel gelido respiro.
“Scott!”.
Nessuna risposta.
Avevo paura, paura che gli fosse successo qualcosa, paura di non riuscire a trovarlo. Quella dannata ansia mi divorava malvagia dentro le viscere che portavano al cuore. Dovevo trovarlo, avevo bisogno di trovarlo, avevo bisogno di lui.
Svoltai a destra, tra quei fitti alberi, che nascondevano immobili la luce, mentre tutto intorno a me assunse un’immagine irreale, un mondo che inesistente divorava la ragione.
Ancora una volta a destra, ma forse stavo semplicemente girando in tondo, tra quegli arbusti che erano tutti uguali, in un universo che forse neanche esisteva.
“Scott, ti prego rispondimi!”
I piedi colpivano folli quel terreno nascosto nel fango, mentre correvo senza neanche una meta, senza quell’unica cosa che mi permettesse di non impazzire.
“Scott!”
Mi fermai improvvisamente quando sentii una violenta massa d’aria spostarsi di colpo di fronte ai miei occhi, come se qualcuno troppo velocemente mi avesse tagliato la strada.
Una corsa talmente veloce da definirla umana, ma talmente scaltra per essere un animale.
Mi voltai nella stessa direzione in cui l’avevo sentita arrivare, mentre le gambe mi tremavano deboli per via di quella folle corsa.
Un altro spostamento d’aria. Un altro colpo al cuore.
Continuavo a girare intorno inseguendo una figura invisibile, che calcolata mi negava il passaggio. Mi parve addirittura di sentirla ridere di fronte alla mia paura come se fosse il suo nutrimento.
“Adesso è il tuo turno”.
Quell’avida frase mi penetrò come un’affilata lama, che precisa mi squarciava la pelle, provocandomi ferite invisibili che arrivavano al cuore.
Respiri affannosi riempivano quel silenzio, ma non ero certa fossero solo i miei. Qualcun altro restava lì immobile nell’ombra, sentivo il suo sguardo addosso e ascoltavo i suoi inebrianti sospiri sconquassare quella placida quiete.
Feci un passo indietro verso il nulla, mentre i miei occhi vagano nel buio, verso quell’indefinibile oscurità in cui si rifugiavano sconosciute ombre, le stesse ombre che mi seguivano minacciose dal giorno di quell’incidente e adesso mi trovavo da sola ad affrontarle.
Feci insicura un altro passo indietro, ma qualcosa mi bloccò. Mi afferrò per un braccio e spezzò il mio urlo con la sua mano che mi serrò tenace la bocca.
Sentii il cuore smettere quasi di battere, mentre un’alta figura sovrastava impotente la mia, in mezzo al nulla, al quale non ero riuscita ancora a dare un nome, aspettando il mio turno per qualcosa che non avevo ancora compreso.
“Ti avevo detto di restare lì”.
Mi voltai velocemente, riconoscendo quella calda voce soave, ma non riuscii a riconoscere il suo viso tra tutte quelle tenebre.
“Scott?”
“Sono io”.
Non riuscii a trattenere quel sospiro che fugace mi fuggì dalle labbra, quando sentii quella conferma che mi tranquillizzò anche se solo di poco.
Avevo avuto così tanta paura, quel terrore era arrivato sul punto di uccidermi, mentre quelle crudeli ferite avevano ripreso a sanguinare, ma ora lui era qui e non potevo che essere sollevata di questo. Per un momento, anche solo per un istante avevo temuto il peggio.
“Cos’è successo?” Gli domandai cercando il suo volto in mezzo all’oscurità, mentre una fredda tensione, che si era creata tra noi, mi stava investendo.
Silenzio.
Un gelido silenzio seguì la mia frase, che si disperse nel nulla, tremando fra quelle fragili fronde, attendendo vano una risposta.
Il vento mi colpì in viso e immaginai che fosse il suo respiro, così vicino, ma così lontano da non riuscire neanche a percepirlo.
“Scott, cos’è successo?”
Seguì una lunga pausa alle mie parole e all’aumentare di quella paura che si stava realizzando dentro il mio corpo, aumentò incondizionatamente anche il battito del mio cuore, che pulsava impavido sangue nelle calde vene zampillanti.
“Sta per arrivare l’ambulanza”.
Quell’anonima frase mi si dipinse nella mente, accrescendo ancora i miei dubbi, che gravi incombevano sul cuore, come un pesante masso di pietra.
“Perché?”
Un fragile respiro spezzò poco lontano l’aria intorno a noi, dietro a dei fitti alberi, che silenziosi negavano la vista.
Feci un passo verso di loro, sbattendo le palpebre in modo da riconoscere delle pallide ombre, ma Scott mi afferrò per un braccio.
“Alba non andare”.
“Perché?” Gli chiesi di nuovo, sentendo i taglienti respiri, che mi graffiavano crudeli la gola. “Cos’è successo Scott?”
Il suo silenzio non presagiva nulla di buono, come se qualcosa di veramente terribile fosse davanti ai miei occhi, ma ancora non riuscivo a vederlo e il suo comportamento mi vietava la comprensione.
Ma io ero stanca di non riuscire a comprendere. Tutto nella mia vita era solo un’incertezza, un’inutile, dannata e stupida incertezza. Non volevo più che la gente mi tenesse all’oscuro di tutto, credendo di proteggermi. Non potevo continuare a vivere in una maledetta fiaba per sempre, il periodo della mia infanzia era finito nello stesso momento in cui erano morti i miei genitori e niente avrebbe mai potuto paragonarsi a quel dolore, nemmeno qualsiasi cosa si nascondesse in quel terrificante bosco.
Mi liberai dalla ferma stretta di Scott e correndo riuscii a scampare dalla sua possente figura, finché giunsi tra quei fitti alberi e presi velocemente il cellulare, facendo luce su quel terreno spoglio.
Immobile.
Rimasi immobile, paralizzata da quella vista terrificante, mentre i miei occhi spalancati s’inorridirono di fronte a quella lugubre scena, senza eguali.
L’aria intrappolata nella gola non riuscì a fuoriuscire e scese crudele nel petto tremante, esplodendo tra quelle effimere sensazioni contrastanti, che logoravano quel poco di ragione rimasta.
Il cellulare mi cadde dalle mani e vidi quel fascio di luce precipitare nel vuoto, illuminando parte di quella spaventosa oscurità, fino a raggiungere rovinosamente il suolo.
Il viso di quella pallida e minuta figura, distesa a terra, venne raggiunto dal calore di quella luce artificiale, illuminandone i delicati tratti come se fosse una rosa spezzata, mossa dal vento.
I lunghi capelli chiari talvolta coprivano il suo volto, ma ero certa fosse lei.
“Allyson” .
Il suo nome uscì in un sussurro dalle mie labbra screpolate e si disperse come un crudele eco nel vento, tra quei fitti alberi, che avversi c’imprigionavano con i loro rami spogli, che si diramavano empi verso il cielo.
Un singhiozzo mi bruciò la gola, mentre quella dolorosa fitta mi dilaniò tutto l’intero corpo, facendo divampare quel mio grido soffocato, che ingenuo fuggiva in un incendio.
Delle calde lacrime amare mi lacerarono gli occhi, ricadendo in leggeri fiotti, che come morti mi rigavano avidi le guance. Così simili a quelle gocce scarlatte, che scendevano copiose dal suo magro collo. Qualcosa l’aveva aggredita e l’aveva lasciata lì a morire.
“Ally”.
Mi avvicinai velocemente a lei, ma Scott non me lo permise. Mi afferrò per un braccio e mi tirò verso lui.
Cercai di liberarmi dalla sua possente stretta, mentre le sue mani cercavano di fermare i miei colpi, che partivano ciechi verso il suo petto.
“Lasciami!” Gli urlai contro, ma lui non mi ascoltò.
“Lasciami andare” strepitai di nuovo, con tutta la voce che avevo in corpo. “Ti prego”.
Ma non ci fu verso. Scott non mi permise di compiere alcun gesto e mi ritrovai così con la testa appoggiata al suo petto, con le sue mani che mi accarezzavano dolcemente i capelli, cercando di arrestare quei singhiozzi, che ormai non riuscivo a frenare.
Quel freddo immobile intorno a noi pareva ucciderci e quel vento gelido portò da lontano l’inconfondibile sirena di un’ambulanza, che si faceva strada tra le grida della gente e sovrastava, con il suo meccanico suono, il nostro pianto silenzioso, che tormentoso divorava la notte.
 

* * * *

 
Sono qui, in quella che sembra essere una fabbrica abbandonata, nascosta in un luogo di cui non riesco a ricordare il nome, attendendo un uomo che forse avrebbe posto fine alla mia esistenza.
Ho fallito. Tutto quello che ho pianificato è andato in frantumi, tutto perché mi sono distratto, tutto solo per lei.
Il ticchettare di un orologio scandisce degli attimi invisibili, che scorrono eterni nel nulla, che circonda avido questo luogo e che uccide un silenzio che pare mortale.
Ho paura.
Fino a questo momento non mi sono mai accorto di averla. Ho paura che questo brevi respiri, che escono fugaci dalle mie labbra, possano essere gli ultimi. Ho paura che questo luogo isolato sia l’ultimo che io possa vedere, ma ho anche paura che lui decida di non uccidermi e che mi costringa a vivere così per sempre.
Dei passi.
Sento degli eleganti passi venirmi incontro, attraverso quell’irreale oscurità, che paio toccarla, mentre ordino al mio corpo di non reagire a quegli impulsi che m’invogliano a fuggire, lui mi avrebbe sicuramente raggiunto.
La sua lontana e scura figura si avvicina lentamente alla mia, con una brutale e fredda indifferenza, che da sola pare uccidermi, mentre quello sguardo che sfiora il nero, sembra risaltare in quel buio crudele.
Rimango immobile, aspettando quell’amara fine al quale ormai so di essere destinato e forse questa attesa e peggiore della morte stessa.
La sua lunga ombra investe la mia, con tale lentezza, come se volesse aumentare la mia agonia, pregustando il sapore del mio terrore, attimo dopo attimo.
“Ti stavo aspettando, Ryan”.
Alzo gli occhi quando sento pronunciare il mio nome da quella nobile cantilena, che sembra provenire d’altri tempi e vedo il suo volto austero farsi spazio in quelle tenebre, scoprendo il viso marmoreo, incorniciato da folti capelli castani. “Dal battito accelerato del tuo cuore immagino che il piano non abbia avuto un buon esito”.
Sobbalzo, quando mi accorgo che lui lo ha sentito, ma forse avrei dovuto prevederlo. È un vampiro, un mostro dalle sembianze umane, che sconfigge il tempo nutrendosi della vita altrui.
Annuisco, senza distaccare gli occhi dal suolo. Non oso nemmeno provare a parlargli, la paura mi paralizza come un veleno mortale, ma non posso sopportare di resistere a questo silenzio ancora per molto.
“Vi chiedo di perdonarmi”.
Deglutisco rumorosamente, non riuscendo a nascondere quell’effimero timore, che crudele non mi permette di parlare.
“Le tue scuse non sono necessarie” asserisce con disgusto, guardandomi con disprezzo.
Si avvicina alla mia immobile figura, con lenti passi calcolati, così nobili da sembrare appartenenti a chissà quale epoca. Non riesco a capire quanti secoli abbiano visto i suoi occhi scuri, così indifferenti e atroci da poter uccidere con un minimo sguardo.
“Si…si, lo sono” rispondo in un sussurro, che si disperde fragile nell’aria. “Vi siete fidato di me per neutralizzare Klaus e io ho tradito la vostra fiducia”.
Vedo di sfuggita la sua ombra, calpestata al suolo, fermarsi davanti ai miei occhi.
“Si, lo hai fatto” mi dice, incominciando a girarmi intorno, come fa un avvoltoio con la sua preda che sta per essere divorata. “E io non accetto simili defezioni, vanno contro i miei principi morali”.
La sua voce mi giunge da dietro, in un freddo e distaccato sibilo, che scivola perfido nell’aria, facendo tremare ogni singolo nervo del mio gelido corpo.
È finita.
Ormai tutto questo è inesorabilmente finito. Riesco a sentire il profumo di quella fine entrarmi nei polmoni, che ingenuamente inspirano a pieno quel dolce profumo della morte.
“Vi chiedo una seconda possibilità” supplico io, sotterrando quel poco di dignità che mi è rimasta dal giorno in cui ho deciso di seguirlo.
Riesco a sentire il battito frenetico del mio cuore scandire timorosamente quegli infiniti istanti, arrivando a solleticare il suo finissimo udito, ma lui non pare cedere, nonostante l’odore del mio sangue, che mi scorre rigorosamente nelle vene zampillanti, come lo scrosciare limpido dei torrenti in piena montagna.
“Una seconda possibilità?” Mi chiede ironico, compiendo il suo primo giro intorno alla mia immobile figura, come se disegnasse un cerchio di fuoco.
Una leggera risata fuoriesce dalle sue labbra, intrappolate in quella rigida mascella.
“Sono un uomo di parola, se faccio un accordo lo mantengo” asserisce, tornando di nuovo a camminarmi lentamente intorno, contando con le dita i secondi che mi rimangono, scanditi dalle lancette di un orologio, del quale ignoro la posizione.
Segue un lungo silenzio alle sue gelide parole, come se si stesse soffermando sulla risposta per valutare la mia richiesta.
Quel immobile ed effimero silenzio accresce soltanto la mia ansia, di una possibile via di salvezza, ma il suo sguardo rimane indifferente. Non riesco a capire cosa possa celare.
La sua immagine sparisce per un attimo dietro la mia schiena, mentre sento solo il rumore dei suoi leggeri passi colpire quel tempo, diventato improvvisamente immortale.
“Non do mai seconde possibilità”.
Un lungo brivido mi percorre crudele la spina dorsale, ascoltando quella consapevolezza, che amara si fa spazio tra i miei pensieri.
Sono una causa persa. Sono solo un inutile causa persa. Sono stato solo uno stupido a pensare che lui avrebbe potuto risparmiarmi la vita, nessuno mai lo avrebbe fatto.
“Tuttavia” aggiunge lui, con il suo calmo tono di voce, avvicinandosi paurosamente a me. “Sono curioso di conoscere a cosa sia dovuta questa mancanza di rispetto nei miei confronti”.
È vicino, troppo vicino. Riesco a rispecchiarmi in quel mare scuro che avvolge il suo sguardo. Le sue iridi nere paiono ingrandirsi, mentre mi comanda parole glaciali.
Quella frase tagliente mi penetra avida dentro la testa, attirandomi a sé, come una ragnatela intrappola dei piccoli insetti.
Ecco cosa sono: un piccolo insetto, divorato dal suo predatore, mentre ogni singola sua parola mi si insinua nel cervello, negandomi la mia libertà.
“Alba era alla festa” incomincio a dirgli, non riuscendo a fermare quel fiume di parole, che mi scorre inarrestabile dalla bocca. “Avevo paura che si facesse del male e per me è stata una distrazione”.
È inutile, non sono riuscito a fermarmi, gli ho detto di Alba e forse pagherà anche lei il mio tragico errore.
Perché? Perché diavolo deve costringermi a farlo? Alba non merita questo, se c’è uno che deve soffrire quello sono io, la sua vita è troppo importante per me.
Mi dispiace, io…io non volevo.
“Quindi la tua lealtà era dovuta ad una fanciulla?” Mi domanda ironico, ammirando quell’angoscia in cui annega il mio sguardo vitreo. “Questo è un onore, ma al contempo non è soddisfacente”.
Un crudele respiro mi si spezza bruciante nella gola, facendo divampare quell’incendio, che si espande silenziosamente, inghiottito da quel gelido buio.
“Imploro il vostro perdono”. La mia voce esce tremante in un fragile sussurro, mentre provo addirittura a pregarlo, a pregare quell’uomo di lasciarmi andare, lo imploro di non uccidermi, ma il mio destino nelle sue mani sembra già essere segnato.
“Sei perdonato”. Lo sento pronunciare quelle parole senza cambiare il suo distaccato tono di voce.
Sorrido. Un sorriso carico di sollievo mi si dipinge sulle labbra screpolate per quel freddo patito nel bosco.
Riesco a sentire la mia paura scivolare velocemente dal mio cuore, mentre tutta quell’ansia sparisce forse troppo avventatamente in un banale istante. Lui mi afferra il collo e con una velocità troppo brutale per un essere umano mi spinge al muro, che s’innalza impotente dietro le mie spalle e una fitta mi pervade la spina dorsale.
Le sue gelide dita premono intensamente sulla mia giugulare, mentre la trachea pare crollare sotto la sua inarrestabile forza.
Mi sta soffocando.
Percepisco l’aria fluirmi velocemente fuori dai polmoni. Li sento gridare, bruciare, in cerca di quell’unica cosa che bramano e che lui sembra portarmi via.
Non può uccidermi, non voglio che lo faccia. Ho paura di morire. Mi fa male, troppo male.
Dannazione, non riesco a respirare.
Ho bisogno dell’aria, mi serve ora, mentre il volto diventa paonazzo e quei suoi occhi scuri non cambiano luce, mentre mi guardano morire, come se stesse schiacciando un inutile moscerino.
Non riesco a fermarlo. D’istinto provo a prendergli il polso per allontanarlo, ma la sua mano libera intrappola la mia, stringendola fortemente e un rumore secco di ossa frantumante si disperde come un eco in tutto quel luogo.
La testa inizia a girarmi, non riesco più a vederlo chiaramente, mentre la mia forza diventa quasi nulla. Un piccolo soffio in mezzo ad un feroce uragano.
Apro la bocca, emettendo versi incomprensibili, che non riesco nemmeno ad udire con precisione, mentre sento mancare l’appoggio del pavimento all’improvviso, quando lui, con troppa facilità, m’innalza su quella parete, facendomi scivolare in quella che sembra essere la mia condanna a morte.
Sbatto i piedi su quel muro, come se questo mi desse la forza di liberarmi, ma è solo questioni di attimi, il sangue alla testa comincia a mancare. Ho paura che tutto possa finire così in fretta. Non sono ancora pronto, non può finire così.
“Klaus sembra interessato ad Alba”.
Un istante. Una frase. Un attimo, che si disperde fugace nel tempo. L’aria mi soddisfa di nuovo i polmoni e la testa smette di girarmi.
Mi ritrovo per terra, con il viso rivolto al suolo. Mentre ripeto, senza credere, le parole che ho appena pronunciato con l’ultimo filo di voce rimasto, mentre le dolci parole di una bambina troppo ingenua mi spaccano il cuore.
Io non entrerei mai in un giardino senza nemmeno una rosa.
“Cos’hai detto?”
Mi sento afferrare per i vestiti e tornare in posizione eretta, mentre quegli occhi neri mi costringono a rispondergli.
Dalla sua voce mi accorgo realmente di quello che ho detto. Non gli ho permesso di uccidermi, attirando la sua attenzione, ma così facendo l’ho direzionato verso di lei, verso quell’unica persona che abbia amato in tutta la mia vita.
E mentre guardo quegli occhi scuri come oceani, mi costringo a rispondere a quella sua domanda con voce rotta e senza emozione, come se fossi una marionetta mossa dai fili del vento.
“L’ha invitata lui alla festa e ha aggredito la sua amica”.
Lui lascia la sua presa e io cado senza alcuna grazia su quel freddo muro lineare, mentre quei pochi pensieri razionali tornano a farsi spazio nella mia mente confusa.
“Klaus agisce sempre per un secondo fine” asserisce, avvicinandosi ad una tavolino non molto lontano da noi, dove giace un bicchiere di cristallo. “L’ho conosco bene, ha sicuramente qualcosa in mente”.
Prende quel bicchiere tra le mani e lentamente si avvicina di nuovo a me, paralizzato al muro e troppo debole per riuscire a muovermi.
“Che cosa?” Gli chiedo impaurito che uno come Klaus possa volere qualcosa da Alba, ma lui sembra ignorare la mia domanda o semplicemente vuole sviare la risposta.
“Questo dovrai dirmelo tu”.
Quella frase mi giunge lontana tra flebili respiri, quando il dolore alla testa diventa più forte e quello alla mano incontenibile.
Le immagine mi arrivano sfocate, per via di quella vista appannata, ma riesco a distinguere del sangue cadere in quel calice. Il suo sangue. Probabilmente si è ferito di proposito.
“Bevi, ti guarirà” Mi dice, porgendomi gentilmente il bicchiere.
Lo afferro, sono troppo stanco per provare a combatterlo, mentre sento le forze venirmi a meno, che crudeli abbandonano il mio corpo.
“Mi darete una seconda possibilità?” Gli chiedo, portandomi il bordo del bicchiere alle labbra e assaggiando quel denso liquido ferroso che vi è all’interno.
Non è la prima volta che lo faccio. So che mi guarirà. Questo significa che non è ancora finita, non vuole uccidermi, vuole qualcosa da me, qualcosa che lui non riesce ad ottenere, qualcosa di così importante da cambiare le sue previsioni, qualcosa per cui vale la pena mantenermi in vita.
Non riesco a trattenere quel sospiro di sollievo che fugace si disperde in quell’aria, che da poco ha soddisfatto i miei polmoni gridanti.
Sono salvo, ma a quale prezzo, ho condannato Alba ad un’esistenza peggiore della mia.
Gli porgo il bicchiere di cristallo, che intrappola avido il suo sangue e lui lo ripone nobilmente sul tavolino in legno ricercato.
“Lo farò” mi risponde girato di spalle, negandomi il suo indifferente sguardo scuro. “Hai la mia parola”.
La sua parola. Ora sono sicuro che non lo farà, le sue virtù lo costringono a mantenere sempre le sue promesse e ogni sua parola data e un patto stretto con il sangue, che cola avido nella mia gola e guarisce le mie ferite, come se fosse miracoloso. Il sangue maledetto di un demone.
Posso andarmene. Non c’è niente che mi leghi ancora in questo posto, in questo dannato luogo in cui non ci sarei mai più tornato.
Sono vivo, sono riuscito a rimanere tale. Per un attimo sono quasi riuscito a sentire il profumo della morte, mi è parso addirittura di vederla intrappolata nelle sue iridi scure. Dovrei essere felice, eppure non riesco a sentirmi tale.
Mi congedo e mi allontano verso quel buio, che dannato inghiotte la notte.
“Non ho ancora finito”.
Sento la sua voce alle mie spalle, troppo vicina per essere vera e troppo indifferente per essere viva. Mi volto d’istinto, ma non riesco a fermare il suo colpo, che parte fulmineo verso il mio petto.
“Ti concederò un’altra possibilità…” mi dice distaccato, trapassandomi con la mano la mia morbida carne, senza provare alcun tipo di emozione. “…solo in maniera diversa”.
Dolore. Una massa in forme di dolore mi pervade avida il cuore. Sento il fluirmi del sangue scorrermi su per la gola, mentre vomito quel fiume scarlatto, che caldo ormai giace al suolo.
Quella macchia scura mi avvolge smaniosa il petto ed esce in rossi fiotti, da dove vi è ancora la sua gelida mano, che viene strappata bramosamente da lui e pulita con un bianco fazzoletto ricamato.
Non riesco a respirare, l’aria ormai è troppo pesante, talmente grave da non penetrarmi radiosa in gola.
Cado per terra, ma forse non sento neanche l’impatto con il suolo, forse ormai non sento più nulla. Ora il dolore è tanto lontano, da non sentirmi più parte di questo mondo.
Leggeri brividi avvolgono il mio petto, mentre la mia figura si agita nervosa al suolo. Ho freddo, talmente freddo da poter congelare. Non riesco più a sopportare tutto questo, l’unica cosa che voglio ora è che tutto possa finire.
Per favore. Lo imploro di darmi il colpo di grazia.
Sento il sangue abbandonare il mio corpo, mentre macchia brutale il pavimento, circondandomi in una scura chiazza, da quale non sarei mai uscito.
Mi sono fidato di lui, ma ho sbagliato. Aveva detto che mi avrebbe dato una seconda possibilità, adesso invece mi guarda morire.
Vedo i suoi occhi neri scrutarmi, mentre non sbatte neanche il minimo ciglio. Grido aiuto in un silenzioso respiro, ma mai nessuno mi avrebbe sentito.
Ho sempre avuto paura di morire e forse ora non sono nemmeno pronto, mentre quel gelido buio incomincia ad avvolgermi in candida coperta.
Io non entrerei mai in un giardino senza nemmeno una rosa.
Mi chiedo se qualcuno porterà mai un fiore alla mia tomba, forse nessuno mi troverà mai, ma quel pensiero è l’unico in grado di accettare tutto questo.
Non riesco a reagire, non riesco a combattere. Tutto sta lentamente finendo, in un banale istante di un giorno comune. Sento la fine, riesco a vederla e ha gli stessi occhi scuri del mio carnefice, che ora mi guarda impassibile.
“Ci vediamo tra poco, Ryan” mi dice, voltandosi per andarsene, finché lo vedo sparire dentro quell’immobile oscurità.
Ora sono solo, anche lui mi ha abbandonato. Sono da solo a sopportare tutto questo.
Tossisco e un’altra macchia di sangue mi sporca la bocca.
È questione di poco, ne sono certo. Ormai niente ha più una forma, niente ha più un colore. Tutto nuota nel buio, in quel nulla nel quale sto cadendo.
Chiudo gli occhi, sono troppo stanco.



Buon pomeriggio :)

Come vi avevo anticipato questa è la seconda parte dell'ultimo capitolo di quest'anno. Non so ancora quando tornerò, ma penso per la fine di gennaio.

Spero che questa prima parte vi sia piaciuta e mi piacerebbe molto sapere cosa ne pensate a riguardo e se avete qualcosa da chiedere sarò ben lieta di rispondere.

Ringrazio tutti coloro che trovano il tempo di leggere, seguire e recensire la storia, davvero, grazie di cuore.

Infine vi auguro un Natale pieno di gioia e serenità e un felice anno nuovo!!

Ciao a tutti, all'anno prossimo :D

  
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