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Autore: pecorabe    23/12/2012    1 recensioni
One-shot a tema Johnlock. Per ora come ragazzi, poi si vedrà. School!Sherlock&John
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: OOC, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Non sono morta! Non sono morta! Non sono morta!

Niente, volevo solo avvisare i lettori che le pecore sono dure a morire, pur di non darla vinta ad un paio di esaminatori che a vederli il demonio prenderebbe paura.  Quindi torno per aggiornare una raccolta che consideravo conclusa (in effetti questo sarebbe l’ultimo capitolo), ma che rimane la mia preferita. Credo che aggiungerò qualche capitolo in mezzo agli altri, complici le vacanze natalizie. Stay tuned!

 

[Per chi non lo abbia fatto, consiglio di leggere il capitolo precedente per capire questo]

_____________________

 

 

 

Ogni tanto John Watson pensa alla sua vita; a quanto alcuni avvenimenti possano sconvolgerla del tutto, e a cosa sarebbe successo se questi non fossero accaduti. Che persona sarebbe diventato se non si fosse mai trasferito a Manchester da bambino, se non avesse mai incontrato Sherlock Holmes. A come e dove vivrebbe in questo momento se Sherlock Holmes non fosse venuto a riprenderlo in Afghanistan.

 

 

Appena scese dal volo da Londra, le reclute erano state caricate insieme ai loro zaini su velivoli più piccoli, in cui entravano al massimo una trentina di uomini alla volta compressi spalla contro spalla, ginocchio contro ginocchio. Alcuni erano addirittura rimasti in piedi, stoici, mentre l’aereo decollava traballando su una pista sconnessa, ed erano rimasti in quella posizione fino a quando non erano atterrati nella polvere del deserto, qualche ora dopo. Questa volta, di piste non vi era traccia.

 

Schermandosi gli occhi con la manica della mimetica, John era sceso con un balzo dal portellone spalancato, accennando poi una corsa verso i fuoristrada che li avrebbero condotti verso la base militare. Il sole picchiava impietosamente sui pesanti elmetti della divisa; il dottore era sceso da qualche minuto ed era fradicio di sudore. Prese posto sulla prima vettura accanto ad un tipo muscoloso che gli ricordò Big Jim, la bambola con cui giocava sua sorella da piccola. Big Jim sbuffò e si strinse nelle spalle, lasciando un po’ di posto al voluminoso zaino di John, che occupava quasi più spazio del suo proprietario. Di fronte a lui era seduta l’unica ragazza della compagnia, per quanto aveva potuto notare fino a quel momento. Durante il -traballante- volo non aveva fatto che tormentarsi l’unghia del pollice con i denti fino a farla sanguinare, mentre in quel momento si stava fissando attentamente la punta degli scarponi già impolverati, come se fossero in procinto di rivelarle una via di uscita da quell’inferno di fuoco. Portava i capelli corvini cortissimi e, se glielo avessero chiesto, John non avrebbe esitato a definirla lesbica, non tanto per l’acconciatura quanto per esperienza acquisita con le fidanzate di Harry. Le lentiggini sul viso erano quasi scomparse, coperte dalla sfumatura quasi violacea che andavano assumendo le sue guance nel calore dell’aria, e il dottore si sorprese a chiedersi se quelle macchie così graziose continuassero anche sotto la pelle celata dalla divisa.

 

Dopo una mezz’ora trascorsa nel silenzio più totale (interrotto soltanto dal periodico ticchettare delle unghie di Big Jim sul calcio del fucile), il convoglio scortato da un paio di cingolati arrivò al campo, un mucchio di tende e qualche costruzione improvvisata in mattoni bianchi. Il sole allo zenit accecava con i suoi raggi perpendicolari mentre i soldati marciavano nella polvere. Un graduato all’ingresso accoglieva mano a mano le nuove compagnie indicando loro gli alloggi. Quella di John, la terza per esattezza, fu destinata ad una camerata pittosto isolata dal resto dell’accampamento.

 

Imbracciando meglio l’arma, si diresse insieme agli altri uomini verso lo stanzone, che si rivelò più angusto del previsto. Vi erano abbastanza brande per tutti, ma erano disposte a meno di un metro l’una dall’altra, obbligando le reclute a scomode manovre e indesiderati contatti fisici. In un angolo, sdraiato sul proprio materasso, Big Jim smontava e rimontava il fucile senza guardare nemmeno le proprie mani, lo sguardo fisso verso l’entrata. John si fissò sui rapidissimi movimenti a scatti delle mani, quando uno spintone lo fece voltare. Era la ragazza di prima, che nella sua testa aveva ribattezzato Soldato Jane. Nonostante fosse circondata da sconosciuti, non si fece tanti problemi a sfilarsi in fretta la giacca e la maglietta verde, rimanendo nella canottiera striminzita prevista dalla divisa femminile. Non che ci fosse tanto da contenere, Soldato Jane era piuttosto filiforme.

 

-Cosa guardi, pervertito? -John si riscosse, abbassando imbarazzato la testa. Jane si era piantata con le mani sui fianchi di fronte a lui, il mento tanto alto da sfiorare il soffitto- Non hai mai visto un paio di tette?

-Scu-scusami, sono mortificato.. non era certo mia intenzione..

-Dicono tutti così, soldato –sibilò lei con disprezzo avvicinando il viso a quello del dottore- Poi un bel giorno te li ritrovi nelle docce che sbavano per l’unica vagina nel raggio di chilometri. Credi che non ne abbia visti di schifosi come te durante l’addestramento? Mi fate solo ribrezzo! –sputò le ultime parole con disprezzo e uscì a grandi falcate, recuperati fucile e giacca.

 

Dopo qualche secondo tutta la camerata, che aveva assistito alla scena pregustandone il finale, esplose in fischi e ululati; John percepì una pacca sulle spalle, mentre qualcuno diceva:

-Fra qualche giorno te la da’, amico, fidati!

 

Il dottore scosse la testa e continuò sbigottito a piegare indumenti, fino a quando non furono condotti dal caporale alla mensa.

 

 

 

 

La lettera di John arrivò a casa Holmes solo cinque giorni dopo, quando il dottore si era ormai abituato ai ritmi forzati della base. Il maggiordomo l’aveva consegnata a colazione, poggiata su un vassoio d’argento accanto al bicchiere di succo d’arancia che sua madre tentava ancora di fargli ingurgitare quando veniva in visita. Sherlock impresse nella memoria il momento in cui, strappando la carta, insieme ad un paio di fogli cadde un mazzo di chiavi, a cui era stata attaccata con cura un’etichetta.

 

Sono della Ford, vorrei che le tenessi tu.

 

Non ci volle molto perché la sua mente geniale collegasse i punti, perché seguisse la scia di briciole che John seminava da mesi. Alla fine era partito. Lo aveva lasciato con una stupida lettera. Era andato a morire per la patria in un altro continente. Stupido, stupido John. Si accasciò nella poltrona nascondendo la testa fra le braccia, e rimase in quella posizione per quelle che sembrarono ore.

Poi chiamò Mycroft.

 

 

 

 

Dopo la cena, la maggior parte degli uomini si andò a buttare sulla branda, mentre alcuni nostalgici intavolavano infinite conversazioni sul tempo del cazzo che tormentava la pianura. Il sole spaccava il culo ai passeri tutto l’anno, e la settimana in cui concedeva una tregua pioveva a dirotto, sommergendo le tende e le camerate. John, che fino a quel momento era rimasto in silenzio ad ascoltare le lamentele di un vecchio comandante, andò a buttare il suo piatto di plastica e uscì nel buio pesto della notte.  Mosse qualche passo nelle tenebre, andando a sbattere contro qualcosa. Anzi, dal lamento che udì, doveva essere qualcuno. Più precisamente, qualcuna.

 

-Ancora tu? –sospirò Soldato Jane, passandosi una mano fra i capelli.

-Già, sono io.. non credo di essermi presentato prima, sono John Watson –anche se lei non poteva vederlo, fece il suo sorriso migliore e le tese la mano. Che lei schiaffeggiò, per poi tornare ad appoggiarsi con la schiena contro la parete esterna della mensa.

-Non ci provare con me, idiota! Non credere di essere il primo a…

-Per piacere, falla finita con questa farsa! Pensi di essere l’unica donna in questa base? –John, irritato dall’atteggiamento della ragazza e dallo stress della prima giornata alla base, esplose senza rendersene conto –E poi chi ti dice che mi interessi? Chi ti dice che mi interessino le donne?

Quest’ultima dichiarazione ebbe il potere di ammutolire Soldato Jane, mentre il dottore riprendeva il controllo su di sé. Respirò a lungo, lasciando che l’aria fredda della notte gli rinfrescasse le idee.

-Scu-scusami. Non avrei dovuto. E’ stata una giornata pesante, siamo tutti stanchi… ci vediamo in camerata.

 

Detto questo, fece dietrofront e si allontanò di un paio di metri, per inciampare in un paio di occhi verdi come quelli di una tigre e la punta incandescente di una sigaretta. Era sicuro di averli già visti, quegli occhi... Fantastico, pensò il dottore, questa dev’essere la mia serata fortunata! Domani tutti saranno a conoscenza del mio orientamento sessuale e, come se non bastasse, dev’essere proprio Big Jim a spargere la voce. Chissà che cazzo di storie si inventerà... Invece, sorprendendo John, l’altro si alzò senza dire una parola e svanì nel buio, lasciando dietro di sé una scia di fumo.

 

 

 

L’alba colse le reclute alla sprovvista. La maggior parte non era riuscita a chiudere occhio quella notte, perciò la sveglia urlata a gran voce nelle camerate non ebbe che l’effetto di spaventarli come conigli di fronte ai fari di un’automobile. Solamente pochi fortunati furono abbastanza svelti da presentarsi in mensa prima che finisse la razione mattutina, e nella lunga coda che usciva dall’edificio vi era anche il dottore. Una pacca cameratesca sulla schiena lo fece sbilanciare in avanti, andando quasi a cozzare con la fronte sulla nuca del tizio che lo precedeva.

 

-Watson!

John si girò con uno sguardo torvo, massaggiandosi la testa.

-Buongiorno, dottore! –Dietro a lui, Soldato Jane esibiva un sorriso a trentadue denti, più luminoso del sole che iniziava ad arroventare l’aria.

-Ehm.. ciao?

-Non fare il timido con me –gli fece l’occhiolino, al che John spalancò gli occhi- tanto conosco i tuoi più reconditi segreeeti!

John cercò di zittirla con una mano sulla bocca, ma Jane continuava a ridacchiare come una dodicenne. Quando si calmò, una buona parte della fila si era girata a guardarli.

-Tranquillo Watson, i tuoi segreti sono al sicuro con me! –fece in tono solenne con una mano sul petto, per poi ricominciare a ridere come una iena.

 

 Quando ritirarono la misera colazione, si sedettero ad un tavolo a parte, in fondo allo stanzone. Mentre Soldato Jane sbucciava la sua mela, John la poggiò sul piano lurido, rotolandola fra le mani.

-Posso chiederti cosa c’era di tanto divertente prima?

La ragazza poggiò il coltello, lo pulì sul lembo della giacca e lo ripose nel fodero alla caviglia.

-Niente, è solo che siamo proprio una bella coppia: tu che sei –e abbassò la voce, ammiccando ad un basito John- gay, e cerchi di nasconderlo in tutti i modi, e io che non lo sono, ma tutti pensano che lo sia. Fine- John si strozzò con l’acqua che aveva mandato giù cercando di riprendersi e non assumere una tonalità superiore al rosso.

-Noi non- coff- noi non siamo una coppia!

-Aspetta! –Jane si illuminò pericolosamente- Non lo siamo ma… potremmo far finta di esserlo! –John, che andava incontro ad una prematura morte per soffocamento, ricevette una generosa pacca (la seconda in pochi minuti)- Immagina! Nessuno importunerebbe me perché ufficialmente sarei fidanzata, e non verrebbero avanzate strane teorie sul tuo conto, in quanto chiaramente etero! Geniale! E’ fatta.

Guardò velocemente verso il proprio polso e si alzò di scatto, strisciando la sedia sul pavimento sconnesso.

Prima di andarsene, si girò e lasciò un bacio leggero sulle labbra del dottore.

-Ciao amore!

 

Altro che guerra, se non fosse stato il bacio a uccidere John Watson quel giorno, ci sarebbe riuscito l’enorme imbarazzo causato dai fischi di approvazione dell’intera mensa.

 

 

 

Mycroft impiegò un paio d’ore per mettersi in contatto con le sue conoscenze in campo militare. Conclusa l’ultima telefonata, convocò il fratello.

Sherlock arrivò di corsa, spintonando i camerieri del Diogene’s. Prima di spalancare la porta dell’ufficio del maggiore degli Holmes, si ricompose e celò l’agitazione dietro la migliore delle maschere di indifferenza.

 

-Fratellino caro, è un piacere vederti –lo sguardo di ghiaccio si posò sulle gote arrossate dalla corsa, sulle sue mani che torturavano l’orlo della giacca, sulle occhiaie più profonde del solito. Beccato.

 

-Mycroft.

 

-Siediti, prego. Gradiresti un te’, o magari qualcosa di più forte?

 

Sherlock prese posto su una delle poltrone che fronteggiavano l’enorme scrivania di mogano. Dietro di essa, Mycroft Holmes proseguiva indisturbato la sua analisi, aggiungendo dettagli più piccoli. Il labbro inferiore tormentato dagli incisivi, un paio di capillari in evidenza di troppo negli occhi spalancati. Il naso leggermente più rosso sulla punta. Qualcuno aveva pianto, allora.

 

-Dimmi quello che puoi fare e basta.

 

Mycroft si fece più serio e si dimenticò persino di rimproverare il fratello per la sua irruenza.

 

-Non molto, in realtà. Sai bene che John Watson ha preso la decisione di arruolarsi di sua spontanea volontà –Sherlock sbuffò, esibendo la sua occhiata dimmi-qualcosa-che-non-so-già  -Potremmo provare a farlo rientrare per motivi legali, ma si dovrebbe accusare una persona onesta di azioni mai commesse –sospirò e riprese fiato per affrontare il discorso. Il suo tono andava assumendo una sfumatura pericolosamente più… tenera? – Ascoltami Sherlock, sai che posso fare in modo che tutto ciò che desideri si avveri, ma non sarebbe molto più semplice se tu provassi a parlarci, a convincerlo a tornare? Non so cosa sia successo fra di voi, ma qualunque cosa sia ti assicuro che…

 

Il minore accavallò le gambe, poi le distese, dopo le intrecciò all’altezza delle caviglie, ponendo le mani giunte sotto al mento.

 -Sai una cosa, Mycroft? Hai proprio ragione. Dovrei parlarci per convincerlo a tornare.

 Detto questo, si alzò scavalcando il bracciolo della poltrona e si diresse verso la porta. Prima di chiuderla, fece sporgere la testa e dichiarò:

-Fammi trovare un aereo per Kabul stasera!

 

Mycroft sospirò un’ultima volta, mentre una serie di urla annunciava il percorso del fratello attraverso i corridoi del club.

 

 

 

 Una settimana dopo l’arrivo al campo, John si era abituato ai ritmi serrati della vita militare. Un corpo giovane si adatta a tutto, persino alle latrine maleodoranti e ai pasti poco fantasiosi. Il secondo giorno aveva iniziato a lavorare nell’ospedale da campo occupandosi dei feriti meno gravi, mentre l’anziano chirurgo apriva e ricuciva come tacchini i poveri diavoli colpiti dal fuoco nemico.

 Nei momenti di pausa aveva girato tutto il campo in lungo e in largo con Soldato Jane (il vero nome, lo aveva scoperto dopo un paio di giorni, era Marianne). Con il suo nasino alla francese e gli occhi grigi penetranti, era invidiata al dottore da tutta la componente maschile del campo, e anche da qualche membro di quella femminile. C’era qualcosa in lei, non sapeva precisamente se il modo di guardarti che ti lasciava a nudo o i capelli di quella sfumatura corvina, insomma qualcosa in lei gli ricordava dolorosamente Sherlock. Allora la stretta allo stomaco era troppo forte e si allontanava a grandi falcate, nascondendosi in uno dei cubicoli delle latrine.

 A parte qualche falso allarme, non c’era mai stato un vero e proprio attacco. Un giorno erano stati trascinati a passo di marcia fino al villaggio più vicino per una ricognizione, ma avevano trovato solamente pastori e contadini. Un'altra volta, avevano sparato a dei barili nel deserto per esercitarsi. Lui e Moran (il tizio muscoloso che nella sua mente continuava a chiamarsi Big Jim) avevano totalizzato dei risultati impressionanti, tanto che Finnigan li aveva lasciati andare prima degli altri, concedendogli una visita privata al frigobar nella tenda degli ufficiali, notoriamente conosciuto per ospitare un’impressionante gamma di alcolici e non. Entrambi avevano gentilmente rifiutato, per poi trascorrere l’ora successiva seduti contro il muro della camerata, scrutandosi in silenzio.

 

 

John non si era illuso. Sapeva che prima o poi Sherlock sarebbe venuto a riprenderlo con sé, ma non pensava che sarebbe successo così presto. E che cazzo, non ho potere decisionale non dico sulla nostra relazione, figuriamoci, ma almeno sulla mia persona? Cristo, sono qui da sette giorni. Sette.

 Il messaggio urgente a lui indirizzato da parte di un galoppino di Mycroft Holmes lo avvertiva dell’arrivo imminente del fratello, atterrato nella capitale da qualche ora ormai, giudicò il dottore osservando l’orario di arrivo previsto.  

 Sospirò più forte. Non sapeva se saltellare dalla gioia o correre a nascondersi in uno dei sacchi di patate della mensa. Cosa si sarebbero detti? Come sarebbe riuscito a convincere Sherlock che non aveva alcuna intenzione di tornare con lui? E come fare a nascondere al suo sguardo indagatore quanto gli mancasse?

 Stava per optare per il sacco di patate, quando la sirena d’allarme che segnalava un attacco imminente interruppe i suoi pensieri. Riusciva quasi a sentire gli spari in lontananza.

 

 

Di tanto in tanto John Watson pensa alla sua vita, a come alcuni avvenimenti possano sconvolgerla del tutto. A come sarebbe stata infinitamente più semplice se, quasi arrivato alla base militare, quella testa di cazzo non si fosse fatto sparare in mezzo agli occhi nel bel mezzo di un’imboscata.

 

 

 

 

 

-TO BE CONTINUED

  
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