Buooongiorno
fandom adorato!
Questa storiella era nella mia cartella dei documenti a raccogliere
polvere
(così come un altro centinaio, più o meno)
così ho deciso di finirla,
poverella, e di farle vedere la luce!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!
S.
*
ci si basa sulla
cosiddetta ‘Regola del 3’,
alla base di ogni
manuale di sopravvivenza.
La regola afferma che
si può vivere
per circa tre
minuti senza aria,
tre ore
senza un riparo,
tre giorni
senza acqua
e
tre
settimane senza cibo,
a
seconda delle
condizioni e attività.
Alcuni, più romantici,
o consapevoli
degli aspetti
spicologici, aggiungono
anche tre
anni senza amore”
(x)
Tre minuti
senza aria.
John
ha compiuto otto anni
da un giorno quando la sua famiglia decide di passare qualche giorno
sulle
sponde del Lago Windermere, dove la zia di John ha un piccolo cottage
per
l’Estate. John ne è entusiasta, come tutte le
volte che va in visita dai suoi
zii, perché sa benissimo che cosa lo aspetta.
Con un sorriso imbambolato sul volto, già immagina le lunghe
nuotate nel lago
con Harry e il cugino Mark e le infinite passeggiate nella foresta
antistante
la casetta di mattoni, da cui tornavano sempre stanchissimi ma felici.
Fantastica
anche sulle nottate a chiacchierare con Mark fino a mattino, sui
pomeriggi a
leggere sul tetto e sulla crostata di mirtilli della zia, che ogni
volta
sembrava vederlo più sciupato e bisognoso di porzioni
gigantesche di dolce.
Senza dimenticare i pomeriggi con le canne da pesca improvvisate, un
ramo secco
e un filo di nylon erano sempre bastati a cercare di procurare la cena
a tutta
la famiglia come i premurosi figlioletti riconoscenti che erano.
John
adorerà anche quella
vacanza: lo sa sin da quel momento, sin dall’esatto istante
in cui mette piede
sul terreno limaccioso del porticciolo lacustre di proprietà
dei Signori
Watson.
E quando chiude gli occhi nel suo lettino improvvisato in camera di
Mark, dopo
aver fissato, perso tra le nuvole, la carta da parati verde chiaro
della parete
di fronte, già pregusta la mattina al lago, il giorno dopo.
Mette la sveglia
alle sei, felice, scivolando in un sonno tranquillo e ristoratore.
Harry lo
odierà per il baccano all’indomani, ma poco
importa.
Il lago
è quieto, tranquillo.
L’acqua è calda, riscaldata dal sole che non
è ostacolato da alcuna nuvola in
un bellissimo e inconsueto cielo terso.
John lancia uno spruzzo d’acqua verso sua sorella che si
ripara
dall’inaspettato attacco rifugiandosi sott’acqua e
provocando un piccolo
mulinello sotto di lei. John ride e osserva i lacci del suo costume
bianco
galleggiare sulla superficie sopra di lei, mentre Mark, più
piccolo di loro, è
seduto sul porticciolo appoggiato all’attracco della piccola
barca di legno,
osservandoli giocare e ridendo dei loro scherzi.
Harry riemerge qualche secondo dopo e si avvicina lesta a John,
è sempre stata
una nuotatrice migliore di lui, e lo afferra alle spalle lasciandolo
prendere
un respiro profondo prima di immergersi con lui sott’acqua.
Qualche secondo dopo
spuntano nuovamente fuori entrambi, ridendo come pazzi.
“Facciamo una gara, Johnny?” Harry propone,
tirandosi indietro i capelli rossi
e corti, che mossi dall’acqua la fanno sembrare un buffo
barboncino.
“Di
resistenza?” il ragazzino propone, sinceramente desideroso di
mostrare la sua
abilità di apnea a suo cugino e sua sorella, che si crede
sempre superiore.
Gliel’avrebbe fatta vedere, quella volta.
“Ovvio” Harry esclama, tenendosi a galla muovendo
le braccia in cerchi larghi,
come una ballerina. “Non durerai più di trenta
secondi” lo stuzzica. John però
fa una smorfia, tirando fuori la lingua e nuota più lontano
da lei, per avere
campo libero e per trovare la giusta concentrazione. Aspira
più aria che può,
spalancando le narici e la gola alla brezza gentile che muove
l’acqua con
dolcezza e con un quasi comico plop
s’immerge
completamente, scomparendo in meno di un secondo nelle
profondità più torbide
del lago.
Harry muove leggiadramente i piedi tenendo il conto dei secondi, e John
può
sentirla in lontananza mentre scende sempre più
giù, fin dove riesce, soffiando
fuori raffiche di graziose bollicine. Chiude gli occhi e conta anche
lui,
fermandosi in prossimità di un tronco sommerso e
già immagina l’esultanza della
vittoria quando sua sorella riemergerà dopo sì e
no quindici secondi. Continua
a contare, è quasi arrivato a due minuti adesso, e muove
lentamente una gamba
per prepararsi a risalire: proprio nel momento in cui stende la gamba
destra,
colpisce qualcosa con un piede, in una mossa brusca. Apre gli occhi per
controllare la situazione, spaventato e preso alla sprovvista, e gli
occhi ci
mettono un po’ a riabituarsi alla temperatura
dell’acqua e a scorgere il
problema.
Il piede è incastrato nel vecchio tronco cavo, che ha ceduto
alla forza dell’urto.
John cerca di tirar fuori il piede dalla sua trappola, ma non riesce,
è troppo,
troppo stretta. Sembra quasi che qualcuno lo stia trattenendo, la
compressione
attorno alla caviglia è inquietantemente simile alla presa
di una mano salda, e
vede una gocciolina di sangue dissolversi nell’acqua grigia.
E’ spaventato,
vorrebbe che sua sorella scendesse a controllare ma probabilmente lei
non è
nemmeno minimamente preoccupata: sa bene che John era intenzionato a
vincere e
a cercare di resistere il più possibile. La compressione nel
petto di John
cresce ogni secondo di più e si sente mancare, vorrebbe
aprire la bocca e
gridare ma sarebbe peggio, lo sa. Inghiotte un sorso d’acqua,
inavvertitamente,
mentre ancora si china per sbloccare il piede dalla sua morsa, aprendo
ancora
di più la ferita sulla sua caviglia.
Non ha più aria e la sua vista si fa sempre più
sfocata, con sprazzi di
lucidità come se stesse guardando una vecchia pellicola
cinematografica
rovinata.
Sono quasi tre minuti, sente appena sua sorella contare, in lontananza:
è distante
solo pochi metri ma John la sente come se fosse a chilometri di
distanza.
170, 171, 172, 173, 174…
John
non riesce più a
respirare e boccheggia, aggrappandosi a un ultimo insperato tentativo.
Strattona
la gamba con più forza, facendo leva con entrambe le
braccia, e anche se con un
dolore lancinante, simile a un fortissimo strappo, riesce a liberare il
piede
che sguscia fuori dalla sua trappola in un mare di schegge e goccioline
di
sangue. Chiudendo gli occhi, agita le braccia alla cieca, sbattendo i
piedi e
stringendo i denti contro il dolore, agognando aria, respiro, luce.
Quando riemerge, boccheggiando ansiosamente con il cuore nel petto
pronto a
esplodergli e il cervello quasi in fiamme per lo spavento, apre gli
occhi e
carpisce quanta più aria possibile, come se quella fosse
cibo e lui a digiuno
da mesi.
Sua sorella, poco lontano, lo guarda stranita, con
un’espressione che spazia
tra l’interdetto e lo spaventato, come se la situazione non
le fosse
completamente chiara.
“Bravo, fratellino” dice, alla fine.
“Penso che tu abbia già vinto. Non
riuscirei a fare più di te”.
Il petto di John si alza e abbassa furiosamente, ben lungi dal tornare
a uno
stato anche solo simile a una
parvenza di rilassamento. Vorrebbe piangere e ridere e gridarle contro
di non
essersi minimamente preoccupata e di non aver controllato che stesse
bene, ma
non dice niente, non riesce, e in fondo è
troppo…sconvolto anche per
arrabbiarsi.
Rimane in silenzio e nuota verso il porticciolo, trascinandosi sulla
gamba non
ferita e risalendo sulle assi di legno accanto a Mark, che lo fissa
ammirato e
curioso. La caviglia ferita lascia una scia rossa sul legno scrostato e
Harry
grida, spaventata.
Quella sera,
Harry non cenò con il resto della sua famiglia. Rimase
chiusa in
camera di John, sdraiata accanto a lui sul letto a piangere, mentre suo
fratello le accarezzava la testa, confortandola.
§
Tre ore senza un
riparo
John
sbatterebbe volentieri la testa contro un muro, se solo ci fosse anche
soltanto
la parvenza di un riparo in un raggio di tre chilometri da dove
è ora.
La mamma glielo aveva detto di non mettersi a cercare strade nuove, di
non
improvvisarsi esploratore in zone del paese che non conosceva, ma lui,
ovviamente non le aveva dato il benché minimo ascolto.
‘Ho tredici anni, mica
tre.’ Aveva
pensato, alle raccomandazioni della mamma. ‘Questo
posto lo conosco come le mie tasche, figuriamoci se rischio di
perdermi’.
Ovviamente non
aveva preso nemmeno la giacca, perché ‘è
stato sereno fino a dieci minuti fa, non può scoppiare una
tormenta da un
momento all’altro’ e quindi era salito
in bici in una semplice t-shirt a
maniche corte e un paio di jeans, senza nemmeno voler sentir parlare di
sciarpe
o affini. E come volevasi dimostrare, era scoppiato un temporale con i
fiocchi
nemmeno mezz’ora dopo, con pioggia scrosciante, aria gelida e
lampi e tuoni da
manuale. John non si era ovviamente fatto mancare nulla.
Sono due ore che gira a vuoto, pedalando più in fretta che
può e guardandosi
intorno alla ricerca di un segno di vita, di un passante solitario, di
una
casa, anche di una cabina telefonica sperduta. Ovviamente, non ne
trova: non
sono tutti idioti come lui, questo sembra ovvio e abbastanza umiliante,
anche.
Ha freddo, molto più che freddo e trema, senza nemmeno poter
staccare le mani
dal manubrio per sfregarsi le braccia in cerca di un po’ di
calore.
La strada
comincia a farsi ancora più dissestata, disseminata di fossi
e cunette che gli
fanno temere per le povere gomme della sua bicicletta e il vento si
alza
ancora, gettandogli in faccia zaffate di acqua fredda e terriccio
sollevato dai
prati coltivati.
John scende dalla bici, indolenzito, ormai incapace di pedalare ancora
con le
giunture ormai rigide come fossero blocchi di ghiaccio. Cammina
più veloce che
può trascinando con sé la bicicletta, cercando di
trovare calore nel movimento,
che però non arriva, se non un piccolo accenno subito
spazzato via da nuove
raffiche ventose. Il cielo s’illumina quasi a giorno,
nonostante siano le sette
di sera passate, squarciato da un lampo. Il fragoroso tuono irrompe
pochi secondi
dopo, minaccioso come il borbottare profondo di una qualche gigantesca
creatura
invisibile.
John vorrebbe gridare, ma non ne ha la forza, è troppo
indolenzito e quasi non
sente più le dita delle mani e dei piedi, così
come non percepisce la presenza
del resto del suo corpo. Non fa nemmeno male. E’ come
sparire, a poco a poco.
Prega, mentre guarda l’orologio costatando di esser
lì fuori al freddo da quasi
tre ore ormai, e spera di riuscire a cavarsela come nei film che adora,
come
nei fumetti che corre sempre a comprare alla piccola edicola sotto casa
il
sabato.
Non disubbidirà mai più a sua madre e non
mancherà mai a una sua
raccomandazione qualunque; cercherà di andar meglio in
matematica studiando
tutte le sere almeno due ore invece di uscire a giocare con Ben e
smetterà di
prendere in giro Harry per le sue abitudini da maschiaccio.
La lancetta dell’orologio sembra anch’essa fredda e
quasi sul punto di
ibernarsi sul numero sei che indica la mezz’ora. La mamma
sarà così in pensiero
che quando tornerà, se mai lo farà,
rimarrà in punizione fino al suo diploma.
John è pronto ad affrontare anche quello.
Si ferma, incapace di proseguire, e si rannicchia contro un pilastro
metallico
cavo, che una volta doveva aver sorretto una pensilina per gli autobus,
e chiude
gli occhi, impotente, ormai sentendosi un estraneo nel suo stesso
corpo. Prova
la stessa sensazione di quando a volte si sveglia la mattina con un
braccio
addormentato e lo muove con l’altro, ridendo alla sensazione
curiosa.
Adesso però, di curioso non c’è niente.
Il suo orologio emette un flebile bip ma John non
apre gli occhi, non ne
ha la forza. Perde i sensi nel giro di qualche secondo, preferendo
abbandonarsi
a qualunque cosa dovesse succedere. Non voleva vedere. Il buio lo
inghiotte, ed
è freddo anch’esso, senza nessun conforto e alcun
calore.
Quando si
sveglia, poi, il
paesaggio non è certo quello che ha lasciato quando ha
chiuso gli occhi.
La landa sperduta e grigia adesso ha lasciato spazio a un salotto
tappezzato di
carta da parati rosso borgogna e a un caminetto acceso che sfrigola
allegramente nella sua cornice di pietra scura, con il fuoco che
consuma
ghiotto il suo lauto pasto di tizzoni di legno.
L’atmosfera è calda, dolce, profuma di erba secca
e minestra, come quella che
gli prepara sua nonna quando ha la febbre.
Ha ancora freddo, ma neanche lontanamente come prima di addormentarsi.
Le dita
sono rigide e tremanti, e John batte i denti nonostante sia sotto tre
strati di
piumini e accanto ad un caminetto. Immagina ci vorrà un
po’, pensa. E’ un po’
come un cubetto di ghiaccio accanto ad una candela, che non scioglie
immediatamente come se accostato a un’enorme fiamma. E in
quel momento John si
sente come un gigantesco cubetto di ghiaccio vicino a un fuoco, che
rispetto
alle sue proporzioni, è soltanto una debole fiammella.
“Ti sei svegliato, finalmente”.
Una donna dalla voce gentile fa capolino dalla stanza adiacente e
sorride a
John andando a ravvivare il fuoco nel camino.
“Sono tre ore che sei lì” la donna lo
guarda con espressione preoccupata. Ha i
capelli bianchi raccolti in una crocchia sulla nuca e ha vividi occhi
azzurri
nonostante la sua età.
John guarda il grosso orologio appeso sulla parete di fronte a lui e il
cuore
sobbalza quando si rende conto dell’ora tardissima. Le 22.30.
Sua madre non gli
avrebbe permesso di mettere piede fuori di casa fino alla laurea, altro
che
diploma.
Torna a rivolgersi alla donna, sbucando fuori dalle coperte quanto
bastava per
farle sentire chiaramente la sua voce, e accennò un sorriso,
pieno di
gratitudine.
“La ringrazio molto, Signora, davvero” John dice e
lo pensa davvero, con tutto
il cuore.
Lei sventola una mano, arrossendo in viso.
“Oh figurati, ragazzo. Eri praticamente svenuto in terra
nella tormenta” il suo
sguardo muta in un cipiglio severo. “Vestito come se stessimo
in pieno luglio,
poi. Sei veramente incosciente” lo rimprovera.
John abbassa gli occhi e avvampa, diventando curiosamente simile alla
carta da
parati della stanza.
“Sì, lo so” ammette, incapace di poter
fare altro. “Può… può
chiamare la mia
famiglia, adesso? Saranno preoccupati”.
La donna annuisce, alzandosi dalla posizione china vicino al caminetto
e
avvicinandosi a John per rimboccargli bene le coperte.
“Ho trovato il tuo numero in quella borsa che ti porti
dietro. Una donna
previdente, tua madre” si compiace la signora anziana, con le
labbra
corrucciate in una smorfia pensosa. “Sta arrivando”.
Lo sguardo di John si perse fuori dalla finestra, dove la tormenta
imperversava
ancora, anche se non intensamente come poche ore prima.
“Ha detto qualcosa?” John chiede, anche se ha paura
di saperlo.
La donna ridacchia, alla domanda. Non è un buon segno.
“Si è messa a gridare come una mezza matta, se
devo dire la verità. Voleva
parlare al telefono con te e sembrava isterica. Le ho detto che
dormivi,
comunque”.
John mugola, spaventato improvvisamente più della reazione
di sua madre che
dalla possibilità che sarebbe potuto morire congelato fino a
qualche ora prima.
Vorrebbe scomparire, eclissarsi, vaporizzarsi.
“Okay” dice, a bassa voce, con lo stesso tono di un
condannato a morte.
La donna ride, probabilmente completamente conscia dei pensieri che si
avvicendano veloci nella mente di John.
Una volta a casa la mamma decise finalmente di sgridarlo come meritava e come John, suo malgrado, aveva previsto. Gli interdisse qualsiasi svago o uscita che fosse, ovviamente John se l’era aspettato sin dal primo istante, ma al momento della messa a letto lo aveva stretto a sé con dolcezza, rassicurandolo.
John si era addormentato sollevato, contento nonostante tutto. Gli era andata bene, in fondo. Forse, se avesse usato bene le sue carte, sarebbe riuscito a mettere di nuovo piede fuori di casa addirittura prima dell’inizio del liceo.
§
Tre giorni senza
acqua
E’ la
seconda volta, in
appena due mesi.
Il furgone dei rifornimenti è stato preso
d’assalto da un manipolo di ribelli
armati e soltanto scarsissime scorte di cibo sono riuscite ad arrivare
illese
fino all’accampamento medico delle truppe Inglesi.
John è nella sua tenda, sdraiato su una delle brande libere,
le braccia
abbandonate ai suoi lati a sfiorare il pavimento di sabbia e terra.
Sospira,
con un rantolo persistente, e fissa inerte il soffitto, o quello che
poteva
essere definito tale in una tenda militare, cercando di distrarsi in
ogni modo
possibile dalla condizione in cui sono costretti a vivere da ormai tre
giorni a
quella parte.
E’ stanco, fiacco, e ogni volta che respira è come
ricevere una minuscola
stilettata nel petto. Sente la gola arsa ed è sicuro che se
potesse toccarne la
superficie interna, la troverebbe scabrosa come se rivestita di carta
vetrata,
come una distesa rocciosa in un deserto. Anche tossire gli fa male, ma
non può
evitarlo. Non ci pensa, non più. Non è la prima
volta che accade e teme davvero
che non sarà nemmeno l’ultima.
Il poco che hanno lo destinano agli ammalati, molto più
bisognosi di loro di
essere idratati il più possibile, soprattutto i bambini, i
più importanti. John
e i suoi compagni sono in quella landa sperduta per i loro pazienti, in
fondo,
solo e soltanto per loro. La salute
dei medici stessi è secondaria.
Poco lontano, Lucy si è alzata dalla sua sedia
all’angolo; John la vede legarsi
i lunghi capelli castani con uno sforzo sovrumano e la guarda chinarsi
sulla
branda barcollante di un piccolo paziente, tre anni appena e arrivato
solo due
giorni prima. E’ un bambino bellissimo e lui la adora, non
vuole nessun altro.
Lucy apre il piccolo mobile di ferro delle scorte e lo fissa per
qualche
secondo, con sguardo fisso, pensieroso, mordendosi un labbro ferito.
John sa
benissimo a cosa sta pensando.
Comunque, alla
fine la donna distoglie lo sguardo e afferra una ciotola da una
mensola,
insieme con un cucchiaio, e torna dal piccolo, che nel frattempo si
è sollevato
appoggiato sul cuscino. Con un sorriso lei si avvicina e lo aiuta
dolcemente a
consumare il suo misero pasto.
John poi concentra la sua attenzione altrove e pensa a quanto vorrebbe
prendere
a pugni il suo cosiddetto collega
Smith, fino a farlo sanguinare. Chiudendo gli occhi può
ancora vederlo, quella
mattina, camminare tronfio per l’accampamento ostentando la
sua perfetta salute rispetto al
resto del
personale medico.
‘La
mia vocazione e la dedizione al
lavoro sono i motivi che mi spingono ad andare avanti con
forza’ dice lui. ‘Voi non siete abbastanza
motivati!’
John e tutti gli altri però, sanno che le storie
della vocazione e di tutto
il resto sono solo gigantesche stronzate. Sono perfettamente al
corrente che il
furto delle scorte ancora disponibili, avvenuto il giorno prima,
è stato opera
di quell’uomo e di nessun altro. Lo sanno tutti benissimo e
non c’è ombra di
dubbio. Peccato però, che nonostante la sua
stupidità, quell’uomo non avesse
lasciato prove a sua colpa.
John stringe i
pugni, impotente.
Il torpore lo prende nuovamente e la gola brucia di nuovo, incessante,
fastidiosa, insopportabile. Qualcuno ha parlato di un possibile
rifornimento
speciale quel giorno, qualcuno dai piani alti aveva alzato la voce
sulla
faccenda, John, però, non sa cosa pensare a riguardo.
E’ sempre stato un uomo
ottimista, pieno di vita e di positività ma dopo quello che
ha visto, dopo
quello che continua a sopportare ogni giorno, ha quasi dimenticato il
significato della parola “speranza”.
“John” Lucy
adesso lo sta guardando, abbandonata nuovamente sulla sua sedia di
legno scuro.
“John, andrà bene” riesce a dire, ma la
sua voce è essa stessa incerta.
John sorride, e non sa nemmeno dove trova la forza di piegare le labbra
in
quella pallida imitazione di dolcezza, e annuisce. Lucy è un
faro nella sua
esistenza. Non le direbbe mai che in realtà, lui comincia a
faticare nel
credere in qualunque concezione del bene.
“Lo so, Lucy” le dice, e ogni parola fa male come
un pugno in pieno stomaco.
“Lo so”.
Un uccello notturno emette il suo verso cupo e ripetitivo, appollaiato
da
qualche parte nel vasto accampamento. John si domanda se
resisterà abbastanza
da sentire il canto dei passeri al mattino. Un altro giorno
così non sa se lo potrebbe
umanamente sopportarlo.
Una cosa sa
per certo: non diventerà mai come Smith, anche a discapito
della propria vita,
e questo lo conforta, almeno un minimo.
Il canto persiste e John ne è quasi cullato, accarezzato,
e scivola pian piano in un dormiveglia dolce, in un
oblio dei sensi che lo fa sentire sospeso, sollevato, immateriale.
Vede casa,
scorge Londra in quel limbo che non
è
veglia ma neppure sonno.
Poi, improvvisamente, il suono cessa, e un battito d’ali
trafelato lo avvisa di
un improvviso cambiamento intorno alla loro tenda. John sbarra gli
occhi, con
una rapidità che lo sorprende, e si solleva seduto sulla
branda, cercando di
percepire la natura del nuovo rumore che ha preso il posto di quello
vecchio.
Non è un canto, né il verso dolce e monotono di
un uccello, né quello lamentoso
dei lupi del deserto. E’ un rumore di motori, di pneumatici
che sollevano
sabbia e sassi, un concerto di vetro e plastica e metallo che cozzano
l’uno
contro l’altro in una strana sinfonia.
E’ un trambusto forte, assordante, fastidioso quanto un gesso
incrinato su una
vecchia lavagna, ma per John, per Lucy e per tutti quelli
improvvisamente
accorsi nella tenda trafelati ed euforici, è rumore di vita,
di speranza.
“Sono arrivati” Lucy bisbiglia, ridendo e piangendo
allo stesso tempo, felice.
La vede abbracciare uno dei dottori dell’accampamento
accanto, i capelli scuri
che le danzano sulle spalle a ogni singhiozzo.
Il dottore
annuisce, gli occhi spalancati, incredulo ma con il cuore gonfio di
gioia.
“Sono arrivati” ripete anche lui. “Sono
qui”.
Tre settimane
senza cibo
Mai più assecondare Sherlock nelle
sue
malsane idee di ‘esperimento’
quando
coinvolgono direttamente anche te.
Si odia, vorrebbe sbattere la testa contro il muro della stanza da
letto fino a farlo crollare per quanto si sente idiota. Lo è
sempre stato,
Sherlock docet, ma in quel momento
l’epiteto ha assunto un significato
dieci, cento, mille volte più grave agli occhi del povero
affamato John.
‘Devo capire come hanno fatto, John’
Sherlock aveva detto, entusiasta. ‘Sai
come la penso. Si trovavano entrambi in condizioni estreme di
sopravvivenza e
l’uno ha ucciso l’altro, senza apparente motivo.
Devo provare per capire
perfettamente la dinamica dell’incidente’.
John aveva espresso la sua perplessità e la sua
preoccupazione per la folle
idea del suo amico sin da prima di scoprire che lui sarebbe dovuto
essere parte
integrante dell’esperimento. Era troppo pericoloso,
inutilmente rischioso e
assolutamente dannoso per un tipo dalle abitudini di vita come quelle
di
Sherlock.
‘Ma non sarò solo, John. Loro erano in
due. E mi servi anche tu, ovviamente’
aveva risposto sconcertato il detective, dopo le
perplessità espresse da
John. Ovviamente il dottore aveva detto di no, assolutamente
no, che non
l’avrebbe mai fatto nemmeno sotto tortura o con la promessa
di favori, soldi, o
qualunque altra moina Sherlock avesse in mente.
‘Loro però erano in due, John. Devo
valutare la variazione delle condizioni
psicologiche dei due soggetti’ il tono che
Sherlock aveva assunto era la
cosa più simile a un ‘ti prego, John,
è importantissimo per me’ che potesse
provenire da Sherlock.
La volontà di John aveva cominciato a incrinarsi
pericolosamente, ma non aveva
ceduto, nossignore.
‘Per
favore
John. Devo costatare se la prolungata mancanza di apporto di cibo
può provocare
un’alterazione psicologica tale da indurre un uomo a
ucciderne un altro’ aveva
continuato, senza nessuna intenzione di demordere. ‘Posso
chiederlo soltanto
a te, John. Aiutami a fare giustizia’.
Ed era stata la fine.
John non avrebbe saputo dire se fosse stata la propria latente voglia
di
mettersi alla prova per confrontarsi con il John Watson Capitano
dell’Esercito
di nemmeno troppo tempo prima o il pensiero di mettere luce sulla
faccenda a
farlo capitolare definitivamente, ma sapeva, in fondo, che
probabilmente non
era accaduto per qualunque delle due ipotesi.
Era stato Sherlock, come al solito. Sherlock con i suoi stramaledetti tasti
giusti che sapeva premere nei dannati momenti giusti.
‘Posso
chiederlo soltanto a te John’ era stata la sua
rovina, l’arma
incriminata. Nemmeno una frase troppo articolata, neppure una promessa,
nemmeno
un patto silenzioso. Erano bastate sei misere parole. Vergogna, John
Watson!
E adesso,
Sherlock e John sono stravaccati entrambi sul divano, al
ventunesimo giorno senza toccare cibo solido, seduti
l’uno accanto
all’altro con sguardo vacuo e perso nel vuoto cercando di
ignorare
completamente il profumo del pudding salato e patatine fritte che la
signora
Hudson ha prontamente deciso di preparare in quantità
industriale, inondando il
pianerottolo di una quantità spropositata di pungenti
fragranze di erbette,
manzo bollito e olio sfrigolante.
“John. In questo momento percepisco un cambiamento
sostanziale nella mia
stabilità psicologica” Sherlock rompe il silenzio,
con voce indispettita.
John si volta a guardarlo, serrando le dita per evitare di prenderlo a
schiaffi.
“Ah sì?” chiede il dottore, sarcastico.
“Vorrei scendere di sotto e appiccare fuoco
all’appartamento della Signora
Hudson” Sherlock dice, con un mugolio frustrato al rumore di
padelle
proveniente dal piano di sotto.
John sorride, schioccando la lingua.
“Beh, mi trovi d’accordo, per una volta”
John gli da corda. “E oltretutto sto
notando proprio adesso un sostanziale cambiamento anche nella mia, di
psicologia”.
Sherlock si volta verso di lui e gli rivolge uno sguardo interessato e
indagatore, come se volesse anticiparlo.
“Ti prego, illuminami”.
“Vorrei seriamente ucciderti, Sherlock”.
Sherlock sospira con disappunto e affonda ancora di più nel
divano di pelle,
come sperando che quello potesse inglobarlo. Incrocia le mani in grembo
e alza
gli occhi al cielo, come se stesse riflettendo.
“Beh, John” comincia e John nemmeno lo guarda.
“Lo scopo dell’esperimento era
capire se l’assenza prolungata di cibo può portare
un uomo a ucciderne un
altro”.
“Non ricordarmelo”.
Sherlock inarca un sopracciglio.
“Ed io ho appena minacciato di appiccare fuoco
all’appartamento della nostra
padrona di casa” spiega ancora, senza che il sarcasmo
caustico di John lo
scalfisca minimamente. “E tu mi hai appena minacciato di
morte”.
Il dottore si solleva dal suo posto sul divano, stringendo uno dei
cuscini fin
quasi a infilare le unghie nell’imbottitura morbida. Ha
capito. Ha capito
qualcosa e spera vivamente che Sherlock stia dicendo quello che lui sta
pensando.
“Quindi l’esperimento è
riuscito” John esclama, con una vocina stridula che non
gli appartiene.
Sherlock lo guarda, con un sorriso sbieco e annuisce.
“Oh sì” il detective asserisce, con fare
serio. “Quindi potremo cambiare i
nostri propositi e accertarci che il sapore del pranzo della Signora
Hudson sia
buono quanto il suo profumo”.
John ride e si solleva dal divano con uno scatto quasi felino, seguito
a ruota
da Sherlock.
Entrambi si precipitano verso la porta d’ingresso sbattendola
contro il muro
con forza disumana e capitombolano sulla scalinata, quasi sfondando la
porta
della povera padrona di casa.
Inutile dire che
chi fosse entrato nella cucina della Signora Hudson
quel pomeriggio, avrebbe visto una montagna di piatti e stoviglie
talmente alta
da pensare che la povera donna avesse invitato a pranzo
un’intera squadra di
rugby, invece di due sole persone.
La povera signora li aveva guardati, incredula, spazzolare via tutto lo
spazzolabile direttamente dalle pentole, dopo aver ultimato la porzione
nei
loro piatti. Li aveva seguiti con lo sguardo lasciare la cucina
satolli,
perdendosi in mille ringraziamenti per l’ottimo pasto, e
aveva chiuso la porta
dietro di loro, allibita.
Optò per la cena da sua sorella, quella sera. Meglio non
rischiare.
Nella vita ne aveva passate di tutti i colori, di belle e di brutte, ma
era
sempre riuscito a cavarsela in un modo o nell’altro. Ognuna
di quelle
esperienze lo aveva temprato, segnato. Ognuno di quei momenti aveva
inciso
sulla sua pelle una lezione, una serie di regole, che John aveva sempre
diligentemente imparato per costruire il suo futuro di uomo serio,
coraggioso e
leale.
Nessuna delle sue passate esperienze, nessun’avventura,
nessun racconto
della mamma lo aveva mai preparato però, a subire la perdita
di un pezzo
della propria anima.
Perché per quanto avesse cercato di negare, John non aveva
più dubbi.
Lui aveva amato, amava ancora, e avrebbe continuato ad amare Sherlock
Holmes
per tutto il resto della sua vita, inevitabilmente.
Si sentiva stupido in fondo, perché non aveva alcuna colpa,
perché l’unico da
biasimare era solo Sherlock, non certo lui. Si sentiva impotente, un
idiota
patentato, un debole ometto incapace di trovare la forza di affrontare
un nuovo
giorno senza sentire quel fardello opprimente sul cuore, quel macigno
che
sembrava diventare più pesante ogni giorno che passava.
La mamma, dopo la morte del padre di John, era stata male, certo, ma il
dottore
l’aveva vista combattere con tutte le sue forze per non
lasciare che il dolore
la consumasse; John l’aveva vista lottare con le unghie e con
i denti per far
si che potesse tornare a vedere la vita come il dono meraviglioso che
era. E ci
era riuscita, piano piano, un passo alla volta. Pur conservando sempre
il
ricordo dell’uomo che aveva amato con tutto il suo cuore per
più di
quarant’anni, lei era andata avanti. John
l’aveva sempre ammirata per la
sua forza, e nei giorni passati davanti alla tomba scura del suo
migliore
amico, John aveva cominciato a invidiarla.
Lui, a Sherlock, non aveva neppure confessato nulla prima che lui
decidesse di
gettarsi dal tetto del Barts. Il suo amore si era solo limitato a
sguardi
silenziosi, al piacere di un tocco occasionale mentre porgeva al
coinquilino la
tazza di the mattutino, a sorrisi di ammirazione e pacche sulle spalle.
Non
c’erano stati abbracci fraterni, dichiarazioni
d’amore da manuale e men che
meno baci appassionati e travolgenti da romanzo rosa, eppure John si
sentiva
perso senza di lui. Inutile, incapace di riemergere da quel limbo.
Il giorno in cui lui fece ritorno, però, tutto
cambiò drasticamente. John si svegliò
da quell’apatia che aveva avvolto la sua intera vita sin da
quel maledetto
mattino di giugno, tornando a essere capace di scorgere colore in quel
mondo
soltanto nero e grigio, tornando a vedere la luce dove fino al giorno
prima
aveva visto soltanto oscurità.
Quando Sherlock Holmes s’insinuò nuovamente
nell’anima di John Watson, tornando
a riempire il vuoto fino a quel momento incolmabile, John finalmente capì.
Non mordere così forte, Sherlock! Più
lento Sherlock, per favore! Sherlock,
che stai facendo esattamente?
Il solo ricordo lo diverte più di quanto
effettivamente sarebbe rispettoso,
in fondo Sherlock è nuovo a questo genere di cose, ma non
può fare a meno di
sorridere al solo guardarlo.
Quando dorme poi, è diverso. Sembra dolce e vulnerabile, e
nessuno vedendolo in
quel momento, lo crederebbe capace di fare quello che lui ha fatto per
salvare
la vita a John e alle persone a lui più care.
E dire che aveva anche dato un pugno a Sherlock, appena
l’uomo era spuntato
sulla soglia del 221B, prima che questi gli raccontasse la verità.
Guardando l’ombra scura quasi completamente sparita intorno
all’occhio destro
del detective, John quasi se ne pente.
Sherlock è indescrivibile. E’ la cosa
più bella che lui abbia mai visto
in tutta la sua vita. Ed è suo.
John, in quel momento, comprende di essere diverso da qualunque altro
essere
umano avesse mai incontrato, e questo, grazie ad un uomo che aveva
completamente cambiato la sua vita.
Il buon dottore pensa di nuovo a tutte le avventure che nella sua vita
ha
affrontato, e le ricorda tutte in ogni minimo dettaglio, una per una.
Ci ha
pensato moltissimo negli ultimi tempi, al lavoro, a casa, durante le
notti
insonni sempre più frequenti. Si sofferma sempre soprattutto
sull’ultima,
quella più importante di qualunque
altra.
E ripensando a quel giorno, riportando alla memoria
ogni sabato passato
in treno verso quel piccolo cimitero monumentale a pregare su una tomba
vuota,
riportando la mente alle lacrime mai versate e alle occasioni perdute
cui aveva
creduto non poter mai più porre rimedio, John si accorge
finalmente della sua
unica e sola priorità.
Sa di essersi trasformato in una sorta d’inguaribile eroe
romantico degno di un
manoscritto vittoriano, però John è certo di non
essere mai stato più sicuro di
qualcosa in vita sua come nel momento in cui Sherlock riapre gli occhi,
sbattendo le palpebre più volte per abituarsi alla luce,
fissando poi gli occhi
di un azzurro cristallino nel pozzo color indaco dei suoi.
“Sei qui e sei vivo” Sherlock dice, a voce bassa,
cercando una mano di John con
la sua. “Ho sognato…” comincia, ma il
dottore non gli da il tempo di concludere
la frase.
Dolcemente, si china sul detective e copre il suo corpo con il suo,
accarezzandogli dolcemente il braccio con la mano libera e stringendo
le dita
dell’altra mano in quelle di Sherlock. Le sue labbra trovano
quelle di Sherlock
in un secondo e un nuovo bacio arriva, più profondo del
precedente e non ancora
impeccabile, ma che per John è
assolutamente perfetto così com’è.
Sherlock si lascia trasportare, più che felice
dell’intraprendenza di John, e
la sua mano stringe il dottore a sé, come ad assicurarsi che
non fugga via ma
che rimanga con lui per sempre. John continua quel bacio che sa ormai
prossimo
a concludersi, ma ormai quasi sazio della sua dose di
vita
giornaliera.
“Sono vivo” John sussurra, quando le loro labbra si
separano. “E sono qui”
continua e Sherlock sorride.
John è ben consapevole che i suoi bisogni, ormai, non sono
certo più quelli di
un uomo normale.
Perché John sa che potrebbe sopravvivere benissimo senza
respirare se solo ci
fosse Sherlock a infondergli ossigeno con i suoi baci.
Perché John è conscio
che non gli occorrerebbe affatto un riparo se avesse continuato ad
avere le
braccia di Sherlock tra le quali rifugiarsi in ogni momento, e che la
mancanza
di acqua o cibo non lo avrebbero minimamente scalfito, se in cuor suo
avrebbe
avuto la consapevolezza che Sherlock sarebbe sempre stato con lui a
proteggerlo
da qualunque difficoltà.
La risposta a tutto è Sherlock, solo e
soltanto lui, e John lo sa
benissimo, perché lui è il suo mondo, il suo
tutto, la soluzione a ogni suo
bisogno.
Il suo migliore amico, il suo coinquilino, il suo amante,
la
perfetta metà della sua anima.
“Vivo, vivo, vivo” Sherlock
sussurra, stringendolo a sé.
John lo bacia ancora, perché non può farne a
meno, perché vivrebbe come un Re
se potesse stare tutto il giorno accanto a lui, pelle contro pelle,
respirandone
il profumo speziato e con la carezza dei suoi riccioli scuri contro la
spalla.
Sherlock è vita, pura e semplice.
“Sono vivo perché tu sei con me”.