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Autore: SAranel    23/12/2012    7 recensioni
“Per valutare un determinato caso di emergenza
ci si basa sulla cosiddetta ‘Regola del 3’,
alla base di ogni manuale di sopravvivenza.
La regola afferma che si può vivere
per circa tre minuti senza aria,
tre ore senza un riparo,
tre giorni senza acqua
e tre settimane senza cibo,
a seconda delle condizioni e attività.
Alcuni, più romantici, o consapevoli
degli aspetti spicologici, aggiungono
anche tre anni senza amore”
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Buooongiorno fandom adorato!
Questa storiella era nella mia cartella dei documenti a raccogliere polvere (così come un altro centinaio, più o meno) così ho deciso di finirla, poverella, e di farle vedere la luce!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!

S.

 

 

Rule of Three
*

“Per valutare un determinato caso di emergenza
ci si basa sulla cosiddetta ‘Regola del 3’,
alla base di ogni manuale di sopravvivenza.
La regola afferma che si può vivere
per circa
tre minuti senza aria,
tre ore senza un riparo,
tre giorni senza acqua

e tre settimane senza cibo,
a seconda delle condizioni e attività.
Alcuni, più romantici, o consapevoli
degli aspetti spicologici, aggiungono
anche
tre anni senza amore”

(x)

 

 

 

Tre minuti senza aria.


John ha compiuto otto anni da un giorno quando la sua famiglia decide di passare qualche giorno sulle sponde del Lago Windermere, dove la zia di John ha un piccolo cottage per l’Estate. John ne è entusiasta, come tutte le volte che va in visita dai suoi zii, perché sa benissimo che cosa lo aspetta.
Con un sorriso imbambolato sul volto, già immagina le lunghe nuotate nel lago con Harry e il cugino Mark e le infinite passeggiate nella foresta antistante la casetta di mattoni, da cui tornavano sempre stanchissimi ma felici. Fantastica anche sulle nottate a chiacchierare con Mark fino a mattino, sui pomeriggi a leggere sul tetto e sulla crostata di mirtilli della zia, che ogni volta sembrava vederlo più sciupato e bisognoso di porzioni gigantesche di dolce. Senza dimenticare i pomeriggi con le canne da pesca improvvisate, un ramo secco e un filo di nylon erano sempre bastati a cercare di procurare la cena a tutta la famiglia come i premurosi figlioletti riconoscenti che erano.

John adorerà anche quella vacanza: lo sa sin da quel momento, sin dall’esatto istante in cui mette piede sul terreno limaccioso del porticciolo lacustre di proprietà dei Signori Watson.
E quando chiude gli occhi nel suo lettino improvvisato in camera di Mark, dopo aver fissato, perso tra le nuvole, la carta da parati verde chiaro della parete di fronte, già pregusta la mattina al lago, il giorno dopo. Mette la sveglia alle sei, felice, scivolando in un sonno tranquillo e ristoratore. Harry lo odierà per il baccano all’indomani, ma poco importa.

Il lago è quieto, tranquillo. L’acqua è calda, riscaldata dal sole che non è ostacolato da alcuna nuvola in un bellissimo e inconsueto cielo terso.
John lancia uno spruzzo d’acqua verso sua sorella che si ripara dall’inaspettato attacco rifugiandosi sott’acqua e provocando un piccolo mulinello sotto di lei. John ride e osserva i lacci del suo costume bianco galleggiare sulla superficie sopra di lei, mentre Mark, più piccolo di loro, è seduto sul porticciolo appoggiato all’attracco della piccola barca di legno, osservandoli giocare e ridendo dei loro scherzi.
Harry riemerge qualche secondo dopo e si avvicina lesta a John, è sempre stata una nuotatrice migliore di lui, e lo afferra alle spalle lasciandolo prendere un respiro profondo prima di immergersi con lui sott’acqua. Qualche secondo dopo spuntano nuovamente fuori entrambi, ridendo come pazzi.
“Facciamo una gara, Johnny?” Harry propone, tirandosi indietro i capelli rossi e corti, che mossi dall’acqua la fanno sembrare un buffo barboncino.
“Di resistenza?” il ragazzino propone, sinceramente desideroso di mostrare la sua abilità di apnea a suo cugino e sua sorella, che si crede sempre superiore. Gliel’avrebbe fatta vedere, quella volta.
“Ovvio” Harry esclama, tenendosi a galla muovendo le braccia in cerchi larghi, come una ballerina. “Non durerai più di trenta secondi” lo stuzzica. John però fa una smorfia, tirando fuori la lingua e nuota più lontano da lei, per avere campo libero e per trovare la giusta concentrazione. Aspira più aria che può, spalancando le narici e la gola alla brezza gentile che muove l’acqua con dolcezza e con un quasi comico plop s’immerge completamente, scomparendo in meno di un secondo nelle profondità più torbide del lago.
Harry muove leggiadramente i piedi tenendo il conto dei secondi, e John può sentirla in lontananza mentre scende sempre più giù, fin dove riesce, soffiando fuori raffiche di graziose bollicine. Chiude gli occhi e conta anche lui, fermandosi in prossimità di un tronco sommerso e già immagina l’esultanza della vittoria quando sua sorella riemergerà dopo sì e no quindici secondi. Continua a contare, è quasi arrivato a due minuti adesso, e muove lentamente una gamba per prepararsi a risalire: proprio nel momento in cui stende la gamba destra, colpisce qualcosa con un piede, in una mossa brusca. Apre gli occhi per controllare la situazione, spaventato e preso alla sprovvista, e gli occhi ci mettono un po’ a riabituarsi alla temperatura dell’acqua e a scorgere il problema.
Il piede è incastrato nel vecchio tronco cavo, che ha ceduto alla forza dell’urto.
John cerca di tirar fuori il piede dalla sua trappola, ma non riesce, è troppo, troppo stretta. Sembra quasi che qualcuno lo stia trattenendo, la compressione attorno alla caviglia è inquietantemente simile alla presa di una mano salda, e vede una gocciolina di sangue dissolversi nell’acqua grigia. E’ spaventato, vorrebbe che sua sorella scendesse a controllare ma probabilmente lei non è nemmeno minimamente preoccupata: sa bene che John era intenzionato a vincere e a cercare di resistere il più possibile. La compressione nel petto di John cresce ogni secondo di più e si sente mancare, vorrebbe aprire la bocca e gridare ma sarebbe peggio, lo sa. Inghiotte un sorso d’acqua, inavvertitamente, mentre ancora si china per sbloccare il piede dalla sua morsa, aprendo ancora di più la ferita sulla sua caviglia.
Non ha più aria e la sua vista si fa sempre più sfocata, con sprazzi di lucidità come se stesse guardando una vecchia pellicola cinematografica rovinata.
Sono quasi tre minuti, sente appena sua sorella contare, in lontananza: è distante solo pochi metri ma John la sente come se fosse a chilometri di distanza.
170, 171, 172, 173, 174…

John non riesce più a respirare e boccheggia, aggrappandosi a un ultimo insperato tentativo. Strattona la gamba con più forza, facendo leva con entrambe le braccia, e anche se con un dolore lancinante, simile a un fortissimo strappo, riesce a liberare il piede che sguscia fuori dalla sua trappola in un mare di schegge e goccioline di sangue. Chiudendo gli occhi, agita le braccia alla cieca, sbattendo i piedi e stringendo i denti contro il dolore, agognando aria, respiro, luce.
Quando riemerge, boccheggiando ansiosamente con il cuore nel petto pronto a esplodergli e il cervello quasi in fiamme per lo spavento, apre gli occhi e carpisce quanta più aria possibile, come se quella fosse cibo e lui a digiuno da mesi.
Sua sorella, poco lontano, lo guarda stranita, con un’espressione che spazia tra l’interdetto e lo spaventato, come se la situazione non le fosse completamente chiara.
“Bravo, fratellino” dice, alla fine. “Penso che tu abbia già vinto. Non riuscirei a fare più di te”.
Il petto di John si alza e abbassa furiosamente, ben lungi dal tornare a uno stato anche solo simile a una parvenza di rilassamento. Vorrebbe piangere e ridere e gridarle contro di non essersi minimamente preoccupata e di non aver controllato che stesse bene, ma non dice niente, non riesce, e in fondo è troppo…sconvolto anche per arrabbiarsi.
Rimane in silenzio e nuota verso il porticciolo, trascinandosi sulla gamba non ferita e risalendo sulle assi di legno accanto a Mark, che lo fissa ammirato e curioso. La caviglia ferita lascia una scia rossa sul legno scrostato e Harry grida, spaventata.

Quella sera, Harry non cenò con il resto della sua famiglia. Rimase chiusa in camera di John, sdraiata accanto a lui sul letto a piangere, mentre suo fratello le accarezzava la testa, confortandola.

 

§
 

 

Tre ore senza un riparo

 
John sbatterebbe volentieri la testa contro un muro, se solo ci fosse anche soltanto la parvenza di un riparo in un raggio di tre chilometri da dove è ora.
La mamma glielo aveva detto di non mettersi a cercare strade nuove, di non improvvisarsi esploratore in zone del paese che non conosceva, ma lui, ovviamente non le aveva dato il benché minimo ascolto.
‘Ho tredici anni, mica tre.’ Aveva pensato, alle raccomandazioni della mamma. ‘Questo posto lo conosco come le mie tasche, figuriamoci se rischio di perdermi’.
Ovviamente non aveva preso nemmeno la giacca, perché ‘è stato sereno fino a dieci minuti fa, non può scoppiare una tormenta da un momento all’altro’ e quindi era salito in bici in una semplice t-shirt a maniche corte e un paio di jeans, senza nemmeno voler sentir parlare di sciarpe o affini. E come volevasi dimostrare, era scoppiato un temporale con i fiocchi nemmeno mezz’ora dopo, con pioggia scrosciante, aria gelida e lampi e tuoni da manuale. John non si era ovviamente fatto mancare nulla.

E adesso è sulla sua bici, in una zona mai vista in vita sua, nemmeno per sbaglio, in aperta campagna e senza nemmeno un albero, un cespuglio, una qualunque cosa sotto la quale potersi riparare.
Sono due ore che gira a vuoto, pedalando più in fretta che può e guardandosi intorno alla ricerca di un segno di vita, di un passante solitario, di una casa, anche di una cabina telefonica sperduta. Ovviamente, non ne trova: non sono tutti idioti come lui, questo sembra ovvio e abbastanza umiliante, anche.
Ha freddo, molto più che freddo e trema, senza nemmeno poter staccare le mani dal manubrio per sfregarsi le braccia in cerca di un po’ di calore.
La strada comincia a farsi ancora più dissestata, disseminata di fossi e cunette che gli fanno temere per le povere gomme della sua bicicletta e il vento si alza ancora, gettandogli in faccia zaffate di acqua fredda e terriccio sollevato dai prati coltivati.
John scende dalla bici, indolenzito, ormai incapace di pedalare ancora con le giunture ormai rigide come fossero blocchi di ghiaccio. Cammina più veloce che può trascinando con sé la bicicletta, cercando di trovare calore nel movimento, che però non arriva, se non un piccolo accenno subito spazzato via da nuove raffiche ventose. Il cielo s’illumina quasi a giorno, nonostante siano le sette di sera passate, squarciato da un lampo. Il fragoroso tuono irrompe pochi secondi dopo, minaccioso come il borbottare profondo di una qualche gigantesca creatura invisibile.
John vorrebbe gridare, ma non ne ha la forza, è troppo indolenzito e quasi non sente più le dita delle mani e dei piedi, così come non percepisce la presenza del resto del suo corpo. Non fa nemmeno male. E’ come sparire, a poco a poco.
Prega, mentre guarda l’orologio costatando di esser lì fuori al freddo da quasi tre ore ormai, e spera di riuscire a cavarsela come nei film che adora, come nei fumetti che corre sempre a comprare alla piccola edicola sotto casa il sabato.
Non disubbidirà mai più a sua madre e non mancherà mai a una sua raccomandazione qualunque; cercherà di andar meglio in matematica studiando tutte le sere almeno due ore invece di uscire a giocare con Ben e smetterà di prendere in giro Harry per le sue abitudini da maschiaccio.
La lancetta dell’orologio sembra anch’essa fredda e quasi sul punto di ibernarsi sul numero sei che indica la mezz’ora. La mamma sarà così in pensiero che quando tornerà, se mai lo farà, rimarrà in punizione fino al suo diploma.
John è pronto ad affrontare anche quello.
Si ferma, incapace di proseguire, e si rannicchia contro un pilastro metallico cavo, che una volta doveva aver sorretto una pensilina per gli autobus, e chiude gli occhi, impotente, ormai sentendosi un estraneo nel suo stesso corpo. Prova la stessa sensazione di quando a volte si sveglia la mattina con un braccio addormentato e lo muove con l’altro, ridendo alla sensazione curiosa.
Adesso però, di curioso non c’è niente.
Il suo orologio emette un flebile bip ma John non apre gli occhi, non ne ha la forza. Perde i sensi nel giro di qualche secondo, preferendo abbandonarsi a qualunque cosa dovesse succedere. Non voleva vedere. Il buio lo inghiotte, ed è freddo anch’esso, senza nessun conforto e alcun calore.

Quando si sveglia, poi, il paesaggio non è certo quello che ha lasciato quando ha chiuso gli occhi.
La landa sperduta e grigia adesso ha lasciato spazio a un salotto tappezzato di carta da parati rosso borgogna e a un caminetto acceso che sfrigola allegramente nella sua cornice di pietra scura, con il fuoco che consuma ghiotto il suo lauto pasto di tizzoni di legno.
L’atmosfera è calda, dolce, profuma di erba secca e minestra, come quella che gli prepara sua nonna quando ha la febbre.
Ha ancora freddo, ma neanche lontanamente come prima di addormentarsi. Le dita sono rigide e tremanti, e John batte i denti nonostante sia sotto tre strati di piumini e accanto ad un caminetto. Immagina ci vorrà un po’, pensa. E’ un po’ come un cubetto di ghiaccio accanto ad una candela, che non scioglie immediatamente come se accostato a un’enorme fiamma. E in quel momento John si sente come un gigantesco cubetto di ghiaccio vicino a un fuoco, che rispetto alle sue proporzioni, è soltanto una debole fiammella.
“Ti sei svegliato, finalmente”.
Una donna dalla voce gentile fa capolino dalla stanza adiacente e sorride a John andando a ravvivare il fuoco nel camino.
“Sono tre ore che sei lì” la donna lo guarda con espressione preoccupata. Ha i capelli bianchi raccolti in una crocchia sulla nuca e ha vividi occhi azzurri nonostante la sua età.
John guarda il grosso orologio appeso sulla parete di fronte a lui e il cuore sobbalza quando si rende conto dell’ora tardissima. Le 22.30. Sua madre non gli avrebbe permesso di mettere piede fuori di casa fino alla laurea, altro che diploma.
Torna a rivolgersi alla donna, sbucando fuori dalle coperte quanto bastava per farle sentire chiaramente la sua voce, e accennò un sorriso, pieno di gratitudine.
“La ringrazio molto, Signora, davvero” John dice e lo pensa davvero, con tutto il cuore.
Lei sventola una mano, arrossendo in viso.
“Oh figurati, ragazzo. Eri praticamente svenuto in terra nella tormenta” il suo sguardo muta in un cipiglio severo. “Vestito come se stessimo in pieno luglio, poi. Sei veramente incosciente” lo rimprovera.
John abbassa gli occhi e avvampa, diventando curiosamente simile alla carta da parati della stanza.
“Sì, lo so” ammette, incapace di poter fare altro. “Può… può chiamare la mia famiglia, adesso? Saranno preoccupati”.
La donna annuisce, alzandosi dalla posizione china vicino al caminetto e avvicinandosi a John per rimboccargli bene le coperte.
“Ho trovato il tuo numero in quella borsa che ti porti dietro. Una donna previdente, tua madre” si compiace la signora anziana, con le labbra corrucciate in una smorfia pensosa. “Sta arrivando”.
Lo sguardo di John si perse fuori dalla finestra, dove la tormenta imperversava ancora, anche se non intensamente come poche ore prima.
“Ha detto qualcosa?” John chiede, anche se ha paura di saperlo.
La donna ridacchia, alla domanda. Non è un buon segno.
“Si è messa a gridare come una mezza matta, se devo dire la verità. Voleva parlare al telefono con te e sembrava isterica. Le ho detto che dormivi, comunque”.
John mugola, spaventato improvvisamente più della reazione di sua madre che dalla possibilità che sarebbe potuto morire congelato fino a qualche ora prima. Vorrebbe scomparire, eclissarsi, vaporizzarsi.
“Okay” dice, a bassa voce, con lo stesso tono di un condannato a morte.
La donna ride, probabilmente completamente conscia dei pensieri che si avvicendano veloci nella mente di John.


Sua madre arrivò nemmeno un quarto d’ora dopo e quasi gli si gettò addosso quando lo intravide sdraiato a letto dalla porta d’ingresso. Lo scosse e lo abbracciò, ancora indecisa tra l’essere sollevata o infuriata, e ringrazio la signora anziana per almeno mezz’ora, tanto che John vide la donna esasperarsi, silenziosamente, tanto da temere che potesse cacciarli via minacciandoli con l’attizzatoio.
Una volta a casa la mamma decise finalmente di sgridarlo come meritava e come John, suo malgrado, aveva previsto. Gli interdisse qualsiasi svago o uscita che fosse, ovviamente John se l’era aspettato sin dal primo istante, ma al momento della messa a letto lo aveva stretto a sé con dolcezza, rassicurandolo.
John si era addormentato sollevato, contento nonostante tutto. Gli era andata bene, in fondo. Forse, se avesse usato bene le sue carte, sarebbe riuscito a mettere di nuovo piede fuori di casa addirittura prima dell’inizio del liceo.

 

 

§

 

 


Tre giorni senza acqua

E’ la seconda volta, in appena due mesi.
Il furgone dei rifornimenti è stato preso d’assalto da un manipolo di ribelli armati e soltanto scarsissime scorte di cibo sono riuscite ad arrivare illese fino all’accampamento medico delle truppe Inglesi.
John è nella sua tenda, sdraiato su una delle brande libere, le braccia abbandonate ai suoi lati a sfiorare il pavimento di sabbia e terra. Sospira, con un rantolo persistente, e fissa inerte il soffitto, o quello che poteva essere definito tale in una tenda militare, cercando di distrarsi in ogni modo possibile dalla condizione in cui sono costretti a vivere da ormai tre giorni a quella parte.
E’ stanco, fiacco, e ogni volta che respira è come ricevere una minuscola stilettata nel petto. Sente la gola arsa ed è sicuro che se potesse toccarne la superficie interna, la troverebbe scabrosa come se rivestita di carta vetrata, come una distesa rocciosa in un deserto. Anche tossire gli fa male, ma non può evitarlo. Non ci pensa, non più. Non è la prima volta che accade e teme davvero che non sarà nemmeno l’ultima.
Il poco che hanno lo destinano agli ammalati, molto più bisognosi di loro di essere idratati il più possibile, soprattutto i bambini, i più importanti. John e i suoi compagni sono in quella landa sperduta per i loro pazienti, in fondo, solo e soltanto per loro. La salute dei medici stessi è secondaria.
Poco lontano, Lucy si è alzata dalla sua sedia all’angolo; John la vede legarsi i lunghi capelli castani con uno sforzo sovrumano e la guarda chinarsi sulla branda barcollante di un piccolo paziente, tre anni appena e arrivato solo due giorni prima. E’ un bambino bellissimo e lui la adora, non vuole nessun altro. Lucy apre il piccolo mobile di ferro delle scorte e lo fissa per qualche secondo, con sguardo fisso, pensieroso, mordendosi un labbro ferito.
John sa benissimo a cosa sta pensando.
Comunque, alla fine la donna distoglie lo sguardo e afferra una ciotola da una mensola, insieme con un cucchiaio, e torna dal piccolo, che nel frattempo si è sollevato appoggiato sul cuscino. Con un sorriso lei si avvicina e lo aiuta dolcemente a consumare il suo misero pasto.
John poi concentra la sua attenzione altrove e pensa a quanto vorrebbe prendere a pugni il suo cosiddetto collega Smith, fino a farlo sanguinare. Chiudendo gli occhi può ancora vederlo, quella mattina, camminare tronfio per l’accampamento ostentando la sua perfetta salute rispetto al resto del personale medico.

‘La mia vocazione e la dedizione al lavoro sono i motivi che mi spingono ad andare avanti con forza’ dice lui. ‘Voi non siete abbastanza motivati!’
John e tutti gli altri però, sanno che le storie della vocazione e di tutto il resto sono solo gigantesche stronzate. Sono perfettamente al corrente che il furto delle scorte ancora disponibili, avvenuto il giorno prima, è stato opera di quell’uomo e di nessun altro. Lo sanno tutti benissimo e non c’è ombra di dubbio. Peccato però, che nonostante la sua stupidità, quell’uomo non avesse lasciato prove a sua colpa.
John stringe i pugni, impotente.
Il torpore lo prende nuovamente e la gola brucia di nuovo, incessante, fastidiosa, insopportabile. Qualcuno ha parlato di un possibile rifornimento speciale quel giorno, qualcuno dai piani alti aveva alzato la voce sulla faccenda, John, però, non sa cosa pensare a riguardo. E’ sempre stato un uomo ottimista, pieno di vita e di positività ma dopo quello che ha visto, dopo quello che continua a sopportare ogni giorno, ha quasi dimenticato il significato della parola “speranza”.
“John” Lucy adesso lo sta guardando, abbandonata nuovamente sulla sua sedia di legno scuro. “John, andrà bene” riesce a dire, ma la sua voce è essa stessa incerta.
John sorride, e non sa nemmeno dove trova la forza di piegare le labbra in quella pallida imitazione di dolcezza, e annuisce. Lucy è un faro nella sua esistenza. Non le direbbe mai che in realtà, lui comincia a faticare nel credere in qualunque concezione del bene.
“Lo so, Lucy” le dice, e ogni parola fa male come un pugno in pieno stomaco. “Lo so”.
Un uccello notturno emette il suo verso cupo e ripetitivo, appollaiato da qualche parte nel vasto accampamento. John si domanda se resisterà abbastanza da sentire il canto dei passeri al mattino. Un altro giorno così non sa se lo potrebbe umanamente sopportarlo.
Una cosa sa per certo: non diventerà mai come Smith, anche a discapito della propria vita, e questo lo conforta, almeno un minimo.
Il canto persiste e John ne è quasi cullato, accarezzato, e scivola pian piano in un dormiveglia dolce, in un oblio dei sensi che lo fa sentire sospeso, sollevato, immateriale.
Vede casa, scorge Londra in quel limbo che non è veglia ma neppure sonno.
Poi, improvvisamente, il suono cessa, e un battito d’ali trafelato lo avvisa di un improvviso cambiamento intorno alla loro tenda. John sbarra gli occhi, con una rapidità che lo sorprende, e si solleva seduto sulla branda, cercando di percepire la natura del nuovo rumore che ha preso il posto di quello vecchio.
Non è un canto, né il verso dolce e monotono di un uccello, né quello lamentoso dei lupi del deserto. E’ un rumore di motori, di pneumatici che sollevano sabbia e sassi, un concerto di vetro e plastica e metallo che cozzano l’uno contro l’altro in una strana sinfonia.
E’ un trambusto forte, assordante, fastidioso quanto un gesso incrinato su una vecchia lavagna, ma per John, per Lucy e per tutti quelli improvvisamente accorsi nella tenda trafelati ed euforici, è rumore di vita, di speranza.
“Sono arrivati” Lucy bisbiglia, ridendo e piangendo allo stesso tempo, felice. La vede abbracciare uno dei dottori dell’accampamento accanto, i capelli scuri che le danzano sulle spalle a ogni singhiozzo.
Il dottore annuisce, gli occhi spalancati, incredulo ma con il cuore gonfio di gioia.
“Sono arrivati” ripete anche lui. “Sono qui”.

 

 

 §

 

Tre settimane senza cibo


John fa una solenne promessa a se stesso, in quell’ennesima mattina senza pane tostato, uova, pancetta e la sua gloriosa tazza di tè nero.
Mai più assecondare Sherlock nelle sue malsane idee di ‘esperimento’ quando coinvolgono direttamente anche te.
Si odia, vorrebbe sbattere la testa contro il muro della stanza da letto fino a farlo crollare per quanto si sente idiota. Lo è sempre stato, Sherlock docet, ma in quel momento l’epiteto ha assunto un significato dieci, cento, mille volte più grave agli occhi del povero affamato John.
‘Devo capire come hanno fatto, John’ Sherlock aveva detto, entusiasta. ‘Sai come la penso. Si trovavano entrambi in condizioni estreme di sopravvivenza e l’uno ha ucciso l’altro, senza apparente motivo. Devo provare per capire perfettamente la dinamica dell’incidente’.
John aveva espresso la sua perplessità e la sua preoccupazione per la folle idea del suo amico sin da prima di scoprire che lui sarebbe dovuto essere parte integrante dell’esperimento. Era troppo pericoloso, inutilmente rischioso e assolutamente dannoso per un tipo dalle abitudini di vita come quelle di Sherlock.
‘Ma non sarò solo, John. Loro erano in due. E mi servi anche tu, ovviamente’ aveva risposto sconcertato il detective, dopo le perplessità espresse da John. Ovviamente il dottore aveva detto di no, assolutamente no, che non l’avrebbe mai fatto nemmeno sotto tortura o con la promessa di favori, soldi, o qualunque altra moina Sherlock avesse in mente.
‘Loro però erano in due, John. Devo valutare la variazione delle condizioni psicologiche dei due soggetti’ il tono che Sherlock aveva assunto era la cosa più simile a un ‘ti prego, John, è importantissimo per me’ che potesse provenire da Sherlock.
La volontà di John aveva cominciato a incrinarsi pericolosamente, ma non aveva ceduto, nossignore.

‘Per favore John. Devo costatare se la prolungata mancanza di apporto di cibo può provocare un’alterazione psicologica tale da indurre un uomo a ucciderne un altro’ aveva continuato, senza nessuna intenzione di demordere. ‘Posso chiederlo soltanto a te, John. Aiutami a fare giustizia’.
Ed era stata la fine.
John non avrebbe saputo dire se fosse stata la propria latente voglia di mettersi alla prova per confrontarsi con il John Watson Capitano dell’Esercito di nemmeno troppo tempo prima o il pensiero di mettere luce sulla faccenda a farlo capitolare definitivamente, ma sapeva, in fondo, che probabilmente non era accaduto per qualunque delle due ipotesi.
Era stato Sherlock, come al solito. Sherlock con i suoi stramaledetti tasti giusti che sapeva premere nei dannati momenti giusti.

‘Posso chiederlo soltanto a te John’ era stata la sua rovina, l’arma incriminata. Nemmeno una frase troppo articolata, neppure una promessa, nemmeno un patto silenzioso. Erano bastate sei misere parole. Vergogna, John Watson!

E adesso, Sherlock e John sono stravaccati entrambi sul divano, al ventunesimo giorno senza toccare cibo solido, seduti l’uno accanto all’altro con sguardo vacuo e perso nel vuoto cercando di ignorare completamente il profumo del pudding salato e patatine fritte che la signora Hudson ha prontamente deciso di preparare in quantità industriale, inondando il pianerottolo di una quantità spropositata di pungenti fragranze di erbette, manzo bollito e olio sfrigolante.
“John. In questo momento percepisco un cambiamento sostanziale nella mia stabilità psicologica” Sherlock rompe il silenzio, con voce indispettita.
John si volta a guardarlo, serrando le dita per evitare di prenderlo a schiaffi.
“Ah sì?” chiede il dottore, sarcastico.
“Vorrei scendere di sotto e appiccare fuoco all’appartamento della Signora Hudson” Sherlock dice, con un mugolio frustrato al rumore di padelle proveniente dal piano di sotto.
John sorride, schioccando la lingua.
“Beh, mi trovi d’accordo, per una volta” John gli da corda. “E oltretutto sto notando proprio adesso un sostanziale cambiamento anche nella mia, di psicologia”.
Sherlock si volta verso di lui e gli rivolge uno sguardo interessato e indagatore, come se volesse anticiparlo.
“Ti prego, illuminami”.
“Vorrei seriamente ucciderti, Sherlock”.
Sherlock sospira con disappunto e affonda ancora di più nel divano di pelle, come sperando che quello potesse inglobarlo. Incrocia le mani in grembo e alza gli occhi al cielo, come se stesse riflettendo.
“Beh, John” comincia e John nemmeno lo guarda. “Lo scopo dell’esperimento era capire se l’assenza prolungata di cibo può portare un uomo a ucciderne un altro”.
“Non ricordarmelo”.
Sherlock inarca un sopracciglio.
“Ed io ho appena minacciato di appiccare fuoco all’appartamento della nostra padrona di casa” spiega ancora, senza che il sarcasmo caustico di John lo scalfisca minimamente. “E tu mi hai appena minacciato di morte”.
Il dottore si solleva dal suo posto sul divano, stringendo uno dei cuscini fin quasi a infilare le unghie nell’imbottitura morbida. Ha capito. Ha capito qualcosa e spera vivamente che Sherlock stia dicendo quello che lui sta pensando.
“Quindi l’esperimento è riuscito” John esclama, con una vocina stridula che non gli appartiene.
Sherlock lo guarda, con un sorriso sbieco e annuisce.
“Oh sì” il detective asserisce, con fare serio. “Quindi potremo cambiare i nostri propositi e accertarci che il sapore del pranzo della Signora Hudson sia buono quanto il suo profumo”.
John ride e si solleva dal divano con uno scatto quasi felino, seguito a ruota da Sherlock.
Entrambi si precipitano verso la porta d’ingresso sbattendola contro il muro con forza disumana e capitombolano sulla scalinata, quasi sfondando la porta della povera padrona di casa.

Inutile dire che chi fosse entrato nella cucina della Signora Hudson quel pomeriggio, avrebbe visto una montagna di piatti e stoviglie talmente alta da pensare che la povera donna avesse invitato a pranzo un’intera squadra di rugby, invece di due sole persone.
La povera signora li aveva guardati, incredula, spazzolare via tutto lo spazzolabile direttamente dalle pentole, dopo aver ultimato la porzione nei loro piatti. Li aveva seguiti con lo sguardo lasciare la cucina satolli, perdendosi in mille ringraziamenti per l’ottimo pasto, e aveva chiuso la porta dietro di loro, allibita.
Optò per la cena da sua sorella, quella sera. Meglio non rischiare.

 

 

§

 

 
Tre anni senza Sherlock

 
John era sempre stato fortunato, nonostante tutto.
Nella vita ne aveva passate di tutti i colori, di belle e di brutte, ma era sempre riuscito a cavarsela in un modo o nell’altro. Ognuna di quelle esperienze lo aveva temprato, segnato. Ognuno di quei momenti aveva inciso sulla sua pelle una lezione, una serie di regole, che John aveva sempre diligentemente imparato per costruire il suo futuro di uomo serio, coraggioso e leale.
Nessuna delle sue passate esperienze, nessun’avventura, nessun racconto della mamma lo aveva mai preparato però, a subire la perdita di un pezzo della propria anima.
Perché per quanto avesse cercato di negare, John non aveva più dubbi. Lui aveva amato, amava ancora, e avrebbe continuato ad amare Sherlock Holmes per tutto il resto della sua vita, inevitabilmente.
Si sentiva stupido in fondo, perché non aveva alcuna colpa, perché l’unico da biasimare era solo Sherlock, non certo lui. Si sentiva impotente, un idiota patentato, un debole ometto incapace di trovare la forza di affrontare un nuovo giorno senza sentire quel fardello opprimente sul cuore, quel macigno che sembrava diventare più pesante ogni giorno che passava.
La mamma, dopo la morte del padre di John, era stata male, certo, ma il dottore l’aveva vista combattere con tutte le sue forze per non lasciare che il dolore la consumasse; John l’aveva vista lottare con le unghie e con i denti per far si che potesse tornare a vedere la vita come il dono meraviglioso che era. E ci era riuscita, piano piano, un passo alla volta. Pur conservando sempre il ricordo dell’uomo che aveva amato con tutto il suo cuore per più di quarant’anni, lei era andata avanti. John l’aveva sempre ammirata per la sua forza, e nei giorni passati davanti alla tomba scura del suo migliore amico, John aveva cominciato a invidiarla.
Lui, a Sherlock, non aveva neppure confessato nulla prima che lui decidesse di gettarsi dal tetto del Barts. Il suo amore si era solo limitato a sguardi silenziosi, al piacere di un tocco occasionale mentre porgeva al coinquilino la tazza di the mattutino, a sorrisi di ammirazione e pacche sulle spalle. Non c’erano stati abbracci fraterni, dichiarazioni d’amore da manuale e men che meno baci appassionati e travolgenti da romanzo rosa, eppure John si sentiva perso senza di lui. Inutile, incapace di riemergere da quel limbo.
Il giorno in cui lui fece ritorno, però, tutto cambiò drasticamente. John si svegliò da quell’apatia che aveva avvolto la sua intera vita sin da quel maledetto mattino di giugno, tornando a essere capace di scorgere colore in quel mondo soltanto nero e grigio, tornando a vedere la luce dove fino al giorno prima aveva visto soltanto oscurità.
Quando Sherlock Holmes s’insinuò nuovamente nell’anima di John Watson, tornando a riempire il vuoto fino a quel momento incolmabile, John finalmente capì.

Lo guarda dormire, adesso, seduto accanto a lui sul letto che adesso è il loro, il letto su cui hanno condiviso il loro primo abbraccio e il loro primo tremendo bacio.
Non mordere così forte, Sherlock! Più lento Sherlock, per favore! Sherlock, che stai facendo esattamente?
Il solo ricordo lo diverte più di quanto effettivamente sarebbe rispettoso, in fondo Sherlock è nuovo a questo genere di cose, ma non può fare a meno di sorridere al solo guardarlo.
Quando dorme poi, è diverso. Sembra dolce e vulnerabile, e nessuno vedendolo in quel momento, lo crederebbe capace di fare quello che lui ha fatto per salvare la vita a John e alle persone a lui più care.
E dire che aveva anche dato un pugno a Sherlock, appena l’uomo era spuntato sulla soglia del 221B, prima che questi gli raccontasse la verità. Guardando l’ombra scura quasi completamente sparita intorno all’occhio destro del detective, John quasi se ne pente.
Sherlock è indescrivibile. E’ la cosa più bella che lui abbia mai visto in tutta la sua vita. Ed è suo.
John, in quel momento, comprende di essere diverso da qualunque altro essere umano avesse mai incontrato, e questo, grazie ad un uomo che aveva completamente cambiato la sua vita.
Il buon dottore pensa di nuovo a tutte le avventure che nella sua vita ha affrontato, e le ricorda tutte in ogni minimo dettaglio, una per una. Ci ha pensato moltissimo negli ultimi tempi, al lavoro, a casa, durante le notti insonni sempre più frequenti. Si sofferma sempre soprattutto sull’ultima, quella più importante di qualunque altra.
E ripensando a quel giorno, riportando alla memoria ogni sabato passato in treno verso quel piccolo cimitero monumentale a pregare su una tomba vuota, riportando la mente alle lacrime mai versate e alle occasioni perdute cui aveva creduto non poter mai più porre rimedio, John si accorge finalmente della sua unica e sola priorità.
Sa di essersi trasformato in una sorta d’inguaribile eroe romantico degno di un manoscritto vittoriano, però John è certo di non essere mai stato più sicuro di qualcosa in vita sua come nel momento in cui Sherlock riapre gli occhi, sbattendo le palpebre più volte per abituarsi alla luce, fissando poi gli occhi di un azzurro cristallino nel pozzo color indaco dei suoi.
“Sei qui e sei vivo” Sherlock dice, a voce bassa, cercando una mano di John con la sua. “Ho sognato…” comincia, ma il dottore non gli da il tempo di concludere la frase.
Dolcemente, si china sul detective e copre il suo corpo con il suo, accarezzandogli dolcemente il braccio con la mano libera e stringendo le dita dell’altra mano in quelle di Sherlock. Le sue labbra trovano quelle di Sherlock in un secondo e un nuovo bacio arriva, più profondo del precedente e non ancora impeccabile, ma che per John è assolutamente perfetto così com’è. Sherlock si lascia trasportare, più che felice dell’intraprendenza di John, e la sua mano stringe il dottore a sé, come ad assicurarsi che non fugga via ma che rimanga con lui per sempre. John continua quel bacio che sa ormai prossimo a concludersi, ma ormai quasi sazio della sua dose di vita giornaliera.
“Sono vivo” John sussurra, quando le loro labbra si separano. “E sono qui” continua e Sherlock sorride.
John è ben consapevole che i suoi bisogni, ormai, non sono certo più quelli di un uomo normale.
Perché John sa che potrebbe sopravvivere benissimo senza respirare se solo ci fosse Sherlock a infondergli ossigeno con i suoi baci. Perché John è conscio che non gli occorrerebbe affatto un riparo se avesse continuato ad avere le braccia di Sherlock tra le quali rifugiarsi in ogni momento, e che la mancanza di acqua o cibo non lo avrebbero minimamente scalfito, se in cuor suo avrebbe avuto la consapevolezza che Sherlock sarebbe sempre stato con lui a proteggerlo da qualunque difficoltà.
La risposta a tutto è Sherlock, solo e soltanto lui, e John lo sa benissimo, perché lui è il suo mondo, il suo tutto, la soluzione a ogni suo bisogno.
Il suo migliore amico, il suo coinquilino, il suo amante, la perfetta metà della sua anima.
Vivo, vivo, vivo” Sherlock sussurra, stringendolo a sé.
John lo bacia ancora, perché non può farne a meno, perché vivrebbe come un Re se potesse stare tutto il giorno accanto a lui, pelle contro pelle, respirandone il profumo speziato e con la carezza dei suoi riccioli scuri contro la spalla.
Sherlock è vita, pura e semplice.
“Sono vivo perché tu sei con me”.

 

 

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