Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: Grabel    27/12/2012    0 recensioni
Novella in stile pirandelliano incentrata sulla rivoluzione dello stereotipo dell'uomo comune.
Genere: Comico, Introspettivo, Satirico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
« Pazzo! ».
« Macché! Ha tentato il suicidio! ».
« Ed è pazzo lo stesso! ».
Non si udivano altre discussioni da oltre due giorni. Da quando le sirene delle volanti della polizia e dell’ambulanza erano giunte in via Pola e lo avevano prelevato, il suo nome era sulla bocca di tutti gli abitanti del quartiere.
I telegiornali avevano dato la notizia poco prima dei titoli di coda, il giornale locale gli aveva dedicato un misero riquadro senza foto – e sappiamo tutti che se una notizia ha solo lettere e riquadrini tratteggiati non la leggiamo se non superficialmente –, eppure a chi aveva visto l’atto in prima persona, a chi aveva assistito a quell'atroce sofferenza sembrava che fosse avvenuto un blitz dei carabinieri per catturare qualche latitante di fama regionale, o nazionale.
« Ti dico che quell'uomo è scimunito! Ha perso la ragione ».
« Ma sicura che sia lui? Quello che parcheggia la Panda sempre davanti al cancello? ».
« Ma io so che è quello della Punto. Comunque, resta sempre folle! ».
Non c’era speranza di comprendere dalle conversazioni di condominio quale autovettura avesse chi aveva osato tanto, il che era abbastanza grave non solo per la palese differenza tra le due tipologie, ma anche perché bisognava attribuire un volto certo a colui che ogni giorno si beccava le peggiori dicerie dei vicini per quella dannata macchina posteggiata davanti all'entrata e, qualora fosse stata la stessa persona del gesto folle, il quadro sarebbe stato pressoché perfetto: due piccioni con una sola fava, una sola persona da condannare e minor peso sulla coscienza.
In verità, la ricostruzione era perfetta. Il signor Tedeschi era solito parcheggiare la macchina davanti all'ingresso del condominio, quasi sopra il piccolo marciapiede, ed era stato l’artefice di quanto era sulla bocca di tutti. Eppure, non tutti sapevano che il signor Tedeschi parcheggiasse l’auto davanti al portone solo per un’ora, massimo due, che ricadeva sempre e con costante precisione tra l’una e le due del pomeriggio. Aveva poco tempo e il deposito di autoricambi, in cui lavorava da ormai una vita e dove era considerato il baluardo della puntualità e della pignoleria, distava qualche miglio da casa sua, infilata nel bel mezzo del centro cittadino. In quell'arco di tempo, doveva tornare all'abitazione, mangiare, trovare spazio per un riposino e tornare a lavoro per essere puntualmente davanti al monitor del suo computer nell'ufficio, atto a stampare fatture e a contare cuscinetti, ammortizzatori, etc. Benché avesse smesso di lavorare a stretto contatto con i pezzi e fosse stato promosso grazie all'esperienza accumulata e accompagnata da un grazioso coupon di vecchiaia, riusciva a ricordarsi qualunque ordinazione fosse stata fatta nel corso della giornata e quale corriere avesse il compito di consegnare la roba da altra parte. Non è mai stato detto, ma aveva più oneri del datore di lavoro, che perdeva tempo a girare con la sua vettura blu a racimolare clienti in tutte le parti della Sicilia occidentale – perché quella orientale era già sua. Con ciò, risulta facile comprendere perché il signor Tedeschi parcheggiasse sempre l’auto in quel posto maledetto, anche rischiando di trovare la sua fedele Panda del 2004 – una delle prime ad avere il nuovo modello – rigata da paraurti ad abbagliante. Ma non era solo questo a spingerlo a sì tanta dimostrazione di coraggio: il signor Tedeschi non aveva un posto fisso nel piccolo parcheggio del condominio. All'ultima riunione era stato sfortunato, come lo era stato in passato. Solo una volta era riuscito ad ottenere un posto e questo era tra i primi del garage interno. Tuttavia, non poteva goderselo. Era asmatico, col cuore di una certa età, e la rampa da percorrere ogni giorno per aprire e chiudere il cancelletto lo stava quasi uccidendo una volta. Per quanto avesse tentato, non era riuscito ad ottenere consenso per fargli istallare un motore elettrico: voleva troppo e quel posto lo era di già. Allora, aveva ceduto quella concessione in cambio di un po’ di elasticità, che durò quanto durano le tredicesime nei periodi natalizi. A tutto questo andava sommato il ginocchio destro malconcio. Quella rotula andava operata, ma il signor Tedeschi aveva troppa paura di restare stroncato sotto i ferri per qualche problema respiratorio – da molto tempo ci stava dietro. Ogni suo metro era un passo di danza, un plié incompleto e mal riuscito. I più piccoli del condominio lo prendevano in giro, lo chiamavano il signor “ranocchia”. Una volta, al figlio del Privitera scappò l’appellativo in sua presenza, ma Tedeschi non fece alcun monito, anzi sorrise e, barcollando, si avvicinò all'ascensore per raggiungere la sua abitazione, posta al terzo piano di una palazzina che ne conta quattro.
La sua vita familiare era molto particolare. Da oltre trentanni era padre di famiglia, ma da più di due viveva solamente con la moglie. Aveva avuto due figli, due maschi. Il più grande lo aveva reso nonno per due volte e viveva con la compagna a Roma. Cosa aspettasse a sposarsi non si era ancora capito, forse il terzo. Il secondogenito, invece, ultimo a lasciare il nido e quasi mio coetaneo, aveva seguito il fratello a Roma e pretendeva di fare gli studi universitari lì, dove ogni mese – più di una volta realmente – gli arrivava una busta bianca con le raccomandazioni della madre e le banconote del padre. Si impegnava, ma la sua eterna indecisione tra Economia e Giurisprudenza lo portava a danzare come una trottola alimentata dai rimproveri del signor Tedeschi, che non sapeva negare quel dono al proprio figlio per l’amore che aveva nel saperlo vicino al primo. Nonostante i più turbolenti e giovani del quartetto fossero ormai distanti, il signor Tedeschi avrebbe comunque pagato un’ulteriore tassa pur di riaverli con sé e con qualche anno in meno. Non perché sentisse la loro mancanza – non così tanto –, ma perché sua moglie era diventata insopportabile. Da quando aveva perso il ruolo di madre ed era ridotta ad una semplice casalinga, cercava di sfogare tutta la sua depressione col marito, unica ancora di salvezza.
« Hai pagato l’acqua, Alfredo? », « Quando chiami l’elettricista? », « Hai preso le pillole per la pressione? », « Non eri così quando ti ho conosciuto! » erano solo alcune delle più frequenti domande e accuse che la signora Tedeschi rifilava a suo marito, il quale puntualmente le ignorava e/o risolveva con un mormorio sommesso e con qualche avverbio di tempo del tipo: « Ora », « Oggi », « Ieri ». Anche quando dormivano non poteva godere di una pace assoluta. Infatti, l’uomo era spesso disturbato dalla consorte a causa di una certa paura per un certo verso strano da lui prodotto, che altro non era che un russare più forte, un sonno più profondo e interrotto sul più bello, quando la quiete sembrava raggiunta. Era ovvio quanto la moglie tenesse a lui e quanto fosse cieca per questo. Più dava affetto al marito, più questi faceva gli straordinari a lavoro e la sera, quando tornava, cenava con un panino e conversava con un televisore ad alto volume che trasmetteva il solito ed anonimo notiziario. Non era tipo da “prime serate” e tanto meno da libri. Non che non gli piacessero, ma la gradazione delle sue lenti era ormai un po’ vecchiotta, così come lo era la sua volontà di farsi visitare e di sottostare a lunghi pomeriggi nelle poltrone degli studi oculistici. Non amava la confusione, anzi la odiava. Non era più il ragazzo di una volta e da tempo era felice di avere lontani tutti i figli, i nipoti e i cugini più giovani nelle giornate di festa. Alcune di queste le consumava con la moglie in casa, o in giro a fare una passeggiata per il centro storico.
Pacato, taciturno e di buoni principi; non si potrebbe descrivere diversamente il signor Tedeschi.
Persino chi provava astio nei suoi confronti non riusciva a negare l’evidenza. Per questo, quando due giorni fa aveva commesso quel fatto, tutti lo avevano assalito, cogliendo l’opportunità di poter sparlare anche di lui.

L’orologio non aveva ancora segnato l’una; il signor Tedeschi non era andato a lavoro. Per essere una giornata di fine inverno, faceva molto caldo. Le nuvole in cielo non riuscivano ad indebolire i raggi solari, che facevano evaporare l’acqua piovana del giorno trascorso e che appesantivano il respiro. Questa pesantezza era estranea alla signora Tedeschi, che si godeva il profumo del pranzo in pentola nella penombra della cucina. Tutto procedeva come la routine quotidiana imponeva, con lo stesso ordine che il televideo aveva stabilito e mostrato la sera prima. Vi erano tutti i propositi affinché il solito clima pomeridiano giungesse in fretta in quella casa. Tuttavia, questi vennero stroncati da una telefonata improvvisa e fuori orario – i figli chiamavano di sera o solo nei fine settimana – che fece sobbalzare la donna. Dall'altro lato della cornetta, una voce dubbiosa la informava che suo marito non era andato a lavoro e che quella era la seconda volta di fila.
La prima cosa a cui pensò fu un rapimento, ma presto si ricordò che la sera prima il marito era stato con lei e le aveva detto di aver trascorso una buona giornata. Fu tanto occupata dal pericolo che non ipotizzò alcuna menzogna; colse in ritardo persino alcune urla provenienti da fuori, dalla strada.. Il tutto era un effetto domino troppo potente da gestire con razionalità. Lasciò la cornetta e l’interlocutore con più dubbi rispetto all'inizio e si avviò verso il balcone dell’abitazione, che dava proprio sulla strada. Lì, si era accumulata una piccola folla, formata da vicini e da passanti. Tutti guardavano in alto, oltre il piano che stava sopra la testa della donna. La curiosità la prese e, aggrappatasi alla balaustra in ferro, sporse il busto e sollevò il capo, sputando sgomento con la sola espressione. Ben presto, lo scombussolamento divenne stupore e terrore alla vista di due gambe penzolanti nel vuoto e di un corpo adagiato sul bordo del tetto, identificato con la figura del signor Tedeschi – suo marito. Il suo volto beato era l’esatto opposto di quello della moglie, che al gaudio e spensierato saluto del coniuge non seppe resistere e si lasciò andare, svenendo di colpo, sorretta dalla balaustra ed in penzolante posizione. Il clamore crebbe e l’attesa delle forze dell’ordine si fece sempre più pressante. Anche il volto del signor Tedeschi mutò, mostrando preoccupazione per sua moglie. Più volte esortò il pubblico in basso a chiamare un’ambulanza, ma mai si mosse da quella posizione.
Fino alle tre del pomeriggio, ambulanza e polizia dovettero lavorare duramente per risolvere la situazione. Non tanto per il signor Tedeschi, che si rifiutò più volte di scendere e che rise copiosamente alle parole “folle” e “suicida”, quanto per abbattere la porta d’ingresso della sua abitazione e prestare i primi soccorsi alla moglie, reduce da un forte shock.
Quando io tornai a casa, la maggior parte delle volanti della polizia erano già andate via e l’ambulanza era appena partita verso l’ospedale. Al loro posto, erano celermente accorsi i giornalisti, iene per i poliziotti rimasti. Con una foga degna di una mandria, li svuotarono di ogni informazione. Il giorno seguente, mi feci raccontare tutto quello che si sapeva da mia madre e dai vicini, che intanto erano andati a trovare la signora Tedeschi. Le sue condizioni fisiche erano perfette; sullo status mentale preferirono non fare voce. Poche ore dopo la notizia, fui chiamato alla stazione e dovetti lasciare la mia deposizione, che era sicuramente più scarna e veritiera di molte altre. Riportai quanto ho detto e quanto sapevo della storia.

Beh! A dire il vero … no.

Da un po’ di tempo frequentavo casa Tedeschi nel tardo pomeriggio. Durante la carrellata dei quiz televisivi che tanto appassionavano la signora Tedeschi, io passavo con suo marito un paio d’ore nel suo ufficio. La contabilità è qualcosa che richiede un approccio diretto ed io ero un ragazzo confuso dalla troppa teoria. Così, mentre il signor Tedeschi mi lasciava spulciare tra le sue carte da lavoro, io correggevo e ultimavo alcuni suoi lavori. Non ha mai conseguito il giusto titolo di studio, ma la sua esperienza decennale era sufficiente per farmi battere il pugno sulla sua porta d’ingresso quasi ogni giorno. Alcune volte ci guadagnavo qualche soldo, il prezzo di un “conto” inesistente; altre volte una merenda integrale o una cena genuina. Quanto della sua vita c’era da sapere io lo seppi, senza dover mai ripagare con la stessa moneta.
Un pomeriggio, qualche giorno prima dei fatti passati, mi raccontò di un evento accadutogli.

Il primo turno di lavoro era finito da una decina di minuti ed il signor Tedeschi si era messo in marcia, raggiungendo nel giro di altrettanto tempo la sua abitazione. Quando giunse sotto casa, però, non poté parcheggiare nel suo posto, ossia davanti al portone d’ingresso: vi era già un furgoncino bianco, che con la memoria ricordai più avanti, e qualcuno che dal retro di esso tirava fuori una cassetta degli attrezzi. Il signor Tedeschi indugiò qualche istante, prima di rassegnarsi e di parcheggiare il mezzo poco più avanti. Danzò sgraziatamente verso l’ingresso e si accostò al “giovane” – così lo chiamò. Si lamentò del posto occupato e con la sua insistenza apprese presto il motivo: a causa dei continui saliscendi della giornata, a cui si sommavano i giochi innocenti dei bambini, il motore dell’ascensore dava da qualche tempo segni di un possibile guasto. Gemeva, ringhiava e spesso si fermava. Essendo una palazzina con gente di una certa età, la necessità di averlo funzionante era importante. Il signor Tedeschi era un diretto interessato e fu il primo a dirmelo. Quel mezzo gli era caro, gli dava sollievo prima di entrare in macchina e quando rincasava, gli faceva riposare il ginocchio tanto malconcio e concedeva una tregua al cuore.
Interessato dalla cosa e con un panino nello stomaco, mangiato a insaputa della moglie durante una giornata lavorativa più fiacca del solito, pose ulteriori domande al tecnico, seguendo questi con molta attenzione verso il mezzo meccanico. Nonostante la sua esperienza negli autoricambi, il signor Tedeschi era completamente ignorante di ascensori.
« Chi costruisce un ascensore? », « Come si costruisce un ascensore? », « È importante saperlo? ».
Altre domande gli vennero in mente, ma ricordo solamente queste, le più buffe.
Alimentando la conversazione, rimase particolarmente stupito nel conoscere l’esatta ubicazione del motore dell’elevatore, posto sul tetto dell’edificio. Non si stupì tanto per il progetto dell’opera ingegneristica, quanto per la possibilità di accedere al tetto di una palazzina che considerava sua da oltre venti anni. A dire il vero, il suo dito non aveva mai pigiato un tasto dell’ascensore che superasse quello del terzo piano – il quarto piano era disabitato. La sua realtà era ferma a quell'altezza, il mondo esterno era visto da un auto, da un ufficio e dalle solite stradine di città, talvolta percorse per chiudersi in altri luoghi, come i supermercati.
Gli seccò la gola a quella presa di coscienza e quasi fu colpito da un attacco d’asma quando si ritrovò nell'ascensore, diretto verso il tetto, assieme al tecnico. Questi, presi accordi col capo condomino poche ore prima, aveva ottenuto le chiavi per accedere al terrazzo. Furono istanti interminabili. Superato il terzo, i due piani mancanti sembrarono il triplo. Ma la sensazione più forte il signor Tedeschi la provò quando la porta del tetto fu aperta e una sferzata di aria gelida fece arrossare le sue guance rugose e morbide. Chiuse gli occhi per istinto, avanzando per inerzia e sospinto dal tecnico, molto disinvolto e tranquillo. Il suo corpo venne avvolto dal Sole pomeridiano, lento nella sua discesa. Le lenti degli occhiali resero ancora più difficile poter guardare quanto non aveva mai colto, dato che amplificavano la potenza della luce. Il suo debole cuore rallentò per qualche secondo, ma il respiro divenne più leggero ed il ginocchio lo illuse di essere totalmente guarito. Faceva freddo, si riusciva a percepire l’inverno, ma ciò non era un peso.
In questa esplosione empirica, l’uomo nemmeno si accorse di aver riaperto gli occhi e di aver arrestato il passo. Una giungla grigia avvolgeva la sua casa, un tripudio di forme geometriche solide copriva le vie infime, il caos delle macchine e della gente per le strade; uno spruzzo di vegetazione, il parco cittadino, sembrava niente in confronto a quanto era abituato a vedere. Solo una cosa riusciva a percepire: tranquillità, ben distante dagli schiamazzi che tanto odiava. Sforzò ancora di più il suo vecchio sguardo, cogliendo gli scogli neri e rigidi. Si ricordò di vivere a pochi minuti dal lungomare e di esserci stato poche volte, l’ultima risalente ad anni prima. La confusione di quelle pietre lo ricondusse alla sua vita ordinata. Da vicino, probabilmente le avrebbe disprezzate: maniaco dell’ordine qual era, avrebbe voluto gestirle a modo suo, farne rette, spianarle. Adesso, comprendeva la loro perfezione. Ancora più sorpreso fu quando osservò l’orizzonte e predò il mare, illuminato dalla stella in un cielo debole di nubi. Tutto questo non lo conosceva più; gli era estraneo da molto tempo. Tornò a sentirsi bambino e rimase in quella contemplazione per svariati istanti. Dimenticò tempo ed obblighi. Nemmeno si accorse di quanto il tecnico avesse parlato, illuso di essere ascoltato.
Solo quando questi lo esortò a scendere con lui, il signor Tedeschi spezzò l’idillio di cemento, roccia e salsedine, volgendo lo sguardo verso di lui. Lo pregò più volte di consegnargli la chiave del tetto con la falsa promessa di restituirla al capo condomino alla successiva riunione e finse di provare interesse per lo stato dell’ascensore. Tutto regolare. Ottenuta vittoria, abbandonò quel luogo con un nuovo sorriso in volto.

Non mi raccontò altro, né mi disse se mai fosse tornato sul tetto – sapevo che la chiave non l’avrebbe restituita. Ricordo solo una frase, che tra un intervallo e un altro di calcolo mi fece riflettere. La sua voce mi parve più serena del solito, meno afflitta dall'asma e dalla respirazione pesante. Mi disse: « Molti di noi prendono l'ascensore ogni giorno, ma non sono mai stati sui tetti ».
Assunse un’espressione buffa, un misto di stupore e gaudio. Io mi misi a ridere, gli risi in faccia, risi del suo volto e di quanto diceva.
L’ultimo bel ricordo di quel vecchio pazzo.
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Grabel