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Autore: cath_onthehills    28/12/2012    0 recensioni
Un brevissimo Bildungsroman di una ragazza di campagna italiana negli anni '30 e '40, e della sua amicizia con Giovanni, in un clima leggermente accennato e in un susseguirsi di vicende che portano ad un finale inaspettato. Un racconto lungo/romanzo breve che scrissi in V ginnasio, dunque i "capitoli" sono brevissimi ed è narrata solo la vicenda principale, senza approfondimenti descrittivi. Quando cominciai a scrivere non sapevo come sarebbe finita, l'ho scoperto solo scrivendola. Nonostante sia un po' immatura, ho scelto lo stesso di pubblicarla perché è una storia alla quale tengo particolarmente.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I.
Era un pomeriggio soleggiato, inizio giugno, ma i caldi raggi del sole picchiavano sui sassi roventi, mentre una leggerissima brezza di vento accarezzava di tanto in tanto quel campo e la mia pelle.
Osservavo i fili di grano muoversi sinuosi in quel mare d’oro, l’odore pungente di campagna mi avvolgeva come in un sogno dai contorni sfumati.
Chiudendo gli occhi potevo rivivere in quel cielo azzurrissimo lo spostamento delle poche nuvole bianche sfilacciate, un movimento lento, quasi fossero anch’esse affaticate dalla calura.
Quand’ero bambina correvo in quel campo tutti i giorni, in compagnia dei miei più cari compagni d’infanzia. Ma ormai il tempo dei giochi era finito. Troppe vicende avevano attraversato la mia vita, riportandomi tra quei luoghi ormai dimenticati da tutti e da tutto.
E ancora una volta mi sentivo sicura, protetta e coccolata dalla natura attorno a me, tranquilla come non lo ero da tantissimi anni.
Riaprendo gli occhi, il ricordo dei dolori che avevano ricoperto il mio passato svaniva.
Eravamo solo noi due: la campagna ed io.
Due vecchi amici, due promesse. Due essenze che il tempo aveva consumato, allontanato e distrutto, ma che ancora avevano la forza di andare avanti e guadare in faccia il destino.
Sentii che era quello il momento adatto: richiusi gli occhi e lasciai che i ricordi mi attraversassero, ancora una volta, ma finalmente li avrei lasciati andare, senza tentare di rinchiuderli in quel buio nel quale li avevo sprofondati.
 
II.
Due occhi chiari e buoni, una voce angelica, ma autoritaria: mia madre. Fianchi larghi, da contadina, pelle scura bruciata dal sole.
Il primo ricordo che mi tornò alla mente risaliva al tempo in cui ignoravo la cattiveria dell’uomo. Vedevo ancora in ognuno qualcosa di buono, non comprendevo il significato della parola “male”.
Trascorrevo le mie giornate nel cortile di casa, sotto l’ombra fresca dei meli. Non avevo il permesso di allontanarmi da lì.
Dovevo aver meno di sette anni: una lunga treccia castana, legata con un elastico bianco con su disegnate delle ciliegie rosse.
Un fremito improvviso mi percosse, al pensiero di quell’elastico.
Era solo un pezzo di stoffa, una bella stoffa che a mia madre occorreva per cucire il vestito di una signorina, di quelle che vivevano nelle grandi case borghesi in città e che si recavano in campagna una volta all’anno per il pic-nic annuale.
Ammiravo quella signorina: per me bambina rappresentava ciò che avrei voluto essere. E tanto più mi sentivo orgogliosa quando, vedendomi, mi si accostava e mi chiamava per nome, salutandomi.
Un giorno di fine aprile, arrivò alla nostra casa con una valigetta rossa. E dentro quella valigetta c’era la stoffa. Chiese a mia madre di cucirle un abitino estivo, per poter recarsi alla spiaggia con i primi caldi.
Mentre discorrevano sul modello, mi recai in cucina e qui mi aspettava la stoffa bianca, stesa sul tavolo. Dalla finestra entrava un sottile raggio di sole che la rendeva ancora più lucida.
In quella mia madre entrò, vide il mio sguardo sognante e non disse nulla.
La sera, mentre mi rimboccava le coperte, mi diede un piccolo elastico bianco con ciliegie rosse. Poi uscì.
Lo tenni sempre con me.
 
III.
Mia madre era una donna buona. Anche con mio padre non perdeva mai la pazienza.
Lui era spesso fuori casa, nei campi a lavorare.
Spesso tornava a tarda notte, ubriaco, dopo aver trascorso la serata con gli amici giù all’osteria o con qualche donna.
Non voleva parlare con nessuno, si chiudeva in cucina e la mattina, quando mi svegliavo, era già uscito.
Non era un padre cattivo, ma assente. Nelle rare occasioni in cui passavamo un po’ di tempo insieme, fumava la pipa e mi guardava in silenzio, rispondendo a monosillabi alle domande che gli ponevo.
Importante per lui era la mia istruzione. Fu così che mi ritrovai a frequentare le elementari nella scuola del paese, ottenendo sempre ottimi risultati.
Quando ebbi dieci anni, improvvisamente morì. Me ne fu sempre tenuta nascosta la causa. Al funerale non mi fu permesso parteciparvi e quando i parenti venivano a farci visita, mi chiudevano in camera.
Fu allora che cominciai a venire qui, a nascondermi tra il grano e gridare al vento il mio dolore.
E fu allora che conobbi Giovanni. Faceva parte del gruppetto del paese, di cui i componenti erano tutti maschi.
Era diverso dagli altri, chiassosi e bulletti. Un tipo solitario, ma con un particolare modo di imporsi e persuadere gli altri nei suoi interessi da essere definito “il lupo capitano”.
Era più grande di me di due anni. E di solito a quell’età, i ragazzi correvano dietro alle ragazze più grandi, chiudendosi in quel modo maschile a me incomprensibile tutt’oggi.
Giovanni mi aveva colta un pomeriggio nel campo, mentre ero stesa a terra con gli occhi lucidi e arrossati dal gran pianto che ancora scuoteva le mie spalle.
Si era avvicinato e mi avevo messo in mano un fazzoletto, poi aveva borbottato: “Femmine…”, e si era allontanato.
Tornai al campo per una settimana nella speranza di rivederlo, ma inutilmente.
Allora non conoscevo neppure il suo nome, ma ne venni presto a conoscenza da Lara, la figlia dei miei vicini che era nella sua stessa classe.
Lara mi guardò con uno sguardo incuriosito e divertito, ma allora il perché mi era oscuro.
 
IV.
Ormai non ci speravo nemmeno più d’incontrarlo e quasi me ne ero dimenticata, presa com’ero dai mille impegni che riempivano le mie giornate.
Poi una domenica di novembre, in chiesa scorsi quei capelli biondicci tra le teste in fondo.
All’uscita lo rividi, e lui ricambiò il mio sguardo. Mi sorrise e mi venne vicino, poi mi disse: “Ehi, tu! Sei la tipa che ha il mio fazzoletto!”.
Mi sentii avvampare. Lui rise, poi si allontanò.
Il giorno successivo lo incontrai al campo, e gli resi il fazzoletto.
Incominciai ad incontrarlo più spesso e per me divenne come un fratello.
Gli raccontavo i miei problemi e lui mi dava consigli e mi spiegava i segreti di quel mondo a me sconosciuto.
Gli anni passarono e ogni giorno mi sentivo sempre più vicina a lui.
Ormai era diventato un ospite giornaliero a casa mia, aiutava mia madre nei campi e spesso me con i miei compiti.
Questo finchè non passai al liceo.
Giovanni aveva abbandonato la scuola finito l’obbligo. Eppure lo vedevo sempre quando uscivo, sul muretto, che flirtava con le ragazze della mia scuola.
Era un bel ragazzo e le mie amiche stentavano a credere che tra noi ci fosse solo amicizia, tanto più che molte di loro avevano già avuto le prime esperienze di baci e carezze.
 
V.
Mi riscossi e sorrisi. Quello era il tempo in cui mi immergevo nei libri, avventurandomi in quei mondo di favola e sentimento che mi prendevano totalmente.
I pomeriggi estivi li trascorrevo al fiume, leggendo, mentre Giovanni si bagnava nelle acque fresche e spesso mi derideva vedendomi piangere per la sorte dei miei personaggi.
Un pomeriggio ero così presa dalle vicende da non accorgermi che mi si era avvicinato e presomi il libro me lo sventolava davanti agli occhi, impedendomi di riprenderlo.
Ad un certo punto gli scivolò di mano e finì nel fiume.
Andai a casa e non gli rivolsi la parola per una settimana, nonostante lui venisse da me tutti i pomeriggi.
Salivo a chiudermi in casa non appena lo vedevo arrivare.
Al ricordo, oggi mi sale alle labbra un sorriso.
Ma non è ancora tempo di sorridere.
Prima devo fare i conti con lo spettro più nascosto in me.
 
VI.
Una notte mi svegliarono i grilli.
Erano le tre e non riuscivo più a prender sonno.
C’era qualcosa che mi inquietava, non capivo cosa.
Forse l’ombra scura delle nubi fuori dalla finestra, forse lo stormire delle foglie, o il verso ripetuto della civetta.
D’un tratto mi resi conto che quelli che avevo davanti erano gli occhi di Giovanni.
Mi mise una mano sulla bocca per impedirmi di gridare, mi sussurrò scusa, poi uscì nuovamente dalla finestra.
Nell’alzarmi dal letto, inciampai in un pacchetto. Era una copia del libro che Giovanni aveva fatto cadere nel fiume. Aveva lasciato la vecchia copertina, tutta rovinata e sgualcita.
Non so perché, ma scoppiai improvvisamente a ridere e sentii tutto il rancore scivolarmi via.
Il giorno dopo, quando venne da me, lo salutai come se non fosse mai successo nulla.
Per tutta risposta, mi disse:
-      Oh, la nostra musona sorride ancora!
Lo menai con il libro.
 
 
VII.
Le giornate estive procedevano lunghe e afose.
Carola mi invitava spesso ad unirmi a lei e a Lara nell’andare a nuotare nel laghetto accanto a casa sua.
Di solito rifiutavo, ma quel pomeriggio decisi di andare.
Le trovai nell’acqua che chiacchieravano e ridacchiavano, ma appena mi videro tacquero: evidentemente non mi aspettavano.
Mi salutarono, ed io notai un certo imbarazzo.
Pensai che fosse meglio andarmene, ma ad un tratto Lara mi prese per un braccio e mi trascinò nel laghetto, e prendemmo a schizzarci.
Ogni traccia di quel silenzio era scomparso.
Eppure continuai a pensarci, mentre tornavo a casa.
Mi sembra davvero strano che non capissi. Ora le cose sono così terribilmente lampanti che riguardandomi indietro, mi sembro una sciocca.
Ma allora non ci pensavo minimamente.
 
VIII.
Con il mio miglio vestito migliore mi incamminai attraverso la viuzza, diretta alla fogheraccia annuale.
Avevo provato a rendere le labbra un po’ più rosse come le altre ragazze della mia classe, ma la mia immagine allo specchio mi sembrò così ridicola che ero scoppiata a ridere.
Appena arrivata fui avvicinata da Carola e trascorsi gran parte della serata ridendo e scherzando.
Dopo un paio d’ore mi allontanai per cercare Giovanni.
Chiesi a Mattia dove fosse ed egli mi porse una lunga occhiata, senza dirmi niente.
Gli restai accanto, anch’io senza parlare.
E improvvisamente mi resi conto che non avevo nemmeno visto Lara, quella sera.
Credo che Mattia abbia compreso i miei pensieri, perché mi prese per un braccio e mi trascinò davanti al fuoco, mi mise in mano un bicchiere di limonata e prese a parlare dei campi, della stagione e delle stelle.
Dopo un po’, cominciai a dargli ascolto, e il discorso cominciò persino ad interessarmi.
Prendemmo a camminare, verso il campo, tra le spighe e le lucciole.
E allora scoppiai a piangere.
Come quando era morto mio padre, a grandi singhiozzi.
Mattia mi mise un braccio attorno alle spalle, senza dirmi niente.
 
IX.
Ci vedemmo anche il giorno successivo, e ancora quello seguente.
Dal momento che Giovanni era come sparito, Mattia diventò la persona con la quale mi aprivo di più, il mio confidente, il mio amico.
E il primo ragazzo che mi baciò.
Era una sera fresca, inizio autunno. Mattia mi stava accompagnando a casa.
Parlavamo di Giovanni, parlavo sempre di Giovanni, di come le cose stessero migliorando, di come ora avessimo ripreso a scambiarci qualche parola, ora che si era lasciato con Lara.
Mattia si fermò, mi prese il braccio e per un lunghissimo istante mi fissò negli occhi.
Poi posò le sue labbra sulle mie e io rimasi lì, a farmi baciare e a baciare.
E la notte intorno si stava alzando, in qualche casa già venivano accesi i focolari, i bambini correvano a casa.
Tutto sparito. Eravamo solo io e lui.
E la campagna.
 
X.
Non durò a lungo. Non poteva durare.
Giovanni era tornato, un’altra volta.
Tutto era come prima. Le chiacchiere, i silenzi, gli sguardi, l’intesa.
Stavo benissimo.
A scuola ero migliorata tantissimo, non mi curavo più delle terribili parole dettemi da Lara dietro le spalle e nemmeno delle occhiate di fuoco che mi rivolgeva Carola.
Io avevo Giovanni.
Ma lui cominciò a lavorare come fattorino in città e a volte stava via per intere settimane.
In quei giorni era raro che uscissi, che incontrassi gente.
Rimanevo in casa, a studiare.
Diedi la maturità in una giornata calda, durante la settimana più afosa dell’anno.
Passai lo stesso con il massimo dei voti e mia madre preparò una grande festa. Invitai pure Lara e Carola e passò anche Mattia.
Solo Giovanni non c’era.
 
XI.
Gli anni seguenti me ne andai anche io.
Lasciai il mio paesino, la mia campagna per proseguire gli studi.
Mi laureai e divenni maestra elementare.
Con gli anni cominciai a frequentare altri ragazzi e con uno di loro mi sposai.
Poco dopo ebbi la mia prima figlia e due anni dopo un maschietto.
Ogni tanto tornavo a casa di mia madre, qualche domenica primaverile mi recavo in campagna per un pic-nic.
Giovanni non lo vidi più.
Mi giungevano solo vaghe notizie su di lui dai giornali locali o dal notiziario alla radio.
Sapevo solo che ora viveva nei boschi e si faceva chiamare Grano Rosso.
Conservavo tutti gli articoli sul movimento che venivano pubblicati, nascosti in una scatola da scarpe, sapevo in che gioco rischioso si era immischiato, ma non avevo un’idea reale del pericolo che correva.
Finchè non ricevetti quella rosa.
 
XII.
Era una mattina di settembre, pochi giorni prima dell’inizio della scuola.
Dovevo recarmi alle poste per ritirare i nuovi libri di testo, ma sulla soglia di casa trovai una rosa.
Era rossa e senza spine, nessun biglietto.
La rigirai tra le mani: sul gambo vi era un nastro rosso legato a fiocco.
Compresi subito che era di Giovanni e dapprima fui turbata, ma subito decisi di metterla in un vaso e devo ammettere che me ne dimenticai.
Alle poste c’era un gran trambusto, gente che correva, altri gridavano, non capivo.
Volevo solo fare in fretta e correre a casa dai miei bambini.
Poi cominciai ad intuire qualcosa..un attacco..tanti morti..i nostri ragazzi..
La rosa.
 
XIII.
Non ebbi bisogno di chiedere nulla a nessuno. Non ne ebbi tempo.
Le intestazioni del giornale della sera già esclamavano la strage, tredici feriti, sette morti.
Tutti ragazzi sotto i 30 anni.
I nostri ragazzi. I nostri partigiani.
I giorni che seguirono furono un susseguirsi confuso di nomi, famiglie, pianti, arresti.
Vivevo in un limbo, aspettavo quella notizia che sapevo non sarebbe tardata ad arrivare.
Mio marito cercava di capire, i miei bambini sentivano che qualcosa non andava ed erano più silenziosi del solito.
Un martedì mattina la fine dell’attesa: una lunga lettera da parte di mia madre.
Non diceva niente di più di quello che già, dentro di me, sapevo da un pezzo.
Giovanni era morto.
 
XIV.
Un soffio di vento più forte degli altri mi svegliò dai ricordi.
Il giallo del grano mi accecò per un istante.
Era stranita, ma finalmente consapevole.
Tutto ciò che avevo ignorato durante la mia vita, mi era stato finalmente raccontato.
Di come mio padre si fosse immischiato in una storia più grande di lui e di come i fascisti avessero bruciato il suo corpo dopo averlo colpito a morte.
Di come Giovanni l’avesse sempre saputo e quindi avesse deciso di unirsi ai partigiani per vendicarlo.
E di come anche lui non ne fosse uscito.
Avevo la tentazione di rimanere lì per sempre, in quel campo, a ricordare e ancora a farmi male.
Una vocina mi chiamò, il mio bimbo veniva verso di me preso per mano dalla sorella.
Vidi il mio futuro, ed era con loro.
Mi alzai e li raggiunsi. Dovevo educarli, mostrare loro quanto l’odio sia ingiusto, quanto la guerra sia inutile.
Non potevo lasciare che diventassero anche loro pedine della crudeltà del mondo.
Il mio ultimo addio al campo fu silenzioso, senza lacrime nè rimpianti.
Preso in braccio il mio figlioletto e, accanto alla mia bambina e a mio marito, tornai a casa.
   
 
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