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Autore: sistolina    29/12/2012    4 recensioni
Regno Unito, 1981.
Molotov, manganelli e barricate.
Brixton, tre ragazzi senza nome confusi nella foschia degli incendi che inghiottono un quartiere.
Londra, condensa di respiri ubriachi sui vetri della Piccadilly Line.
Piccole storie, flash scattati di sbieco nelle vite di sconosciuti incontrati per caso. Istantanee di guerriglia urbana.
Joe Strummer che canta delle Pistole di Brixton, ossa scricchiolanti di rimmel e Siouxies and the Banshees.
Ha respirato benzina per dodici ore imbevendo gli stracci nei serbatoi delle macchine parcheggiate, svuotando birra da mezzo pound nei tombini e facendosi venire le vesciche per impilare le molotov finite.
Lui ha cercato me, nella sua divisa da ragazzo perbenino con la cravatta e l'ultimo bottone della divisa allacciato. E i suoi occhiali da vista, e i suoi capelli puliti, e il suo buon odore.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Guns of Brixton




When they kick at your front door
How are you gonna come?
With your hands on your head
Or on the trigger of your gun



Il soffitto che spreme calcinacci macchiati di pittura.
Polvere. 
Tintura rossa che gocciola pigra, tremolante, dalla parete.
Slogan ripetuti cento volte, calcati col sudore e la deprivazione di sonno.
Non so dove sono i jeans, gli anfibi, quella specie di giacca di pelle punzecchiata di spille da balia e ammassata sotto dieci altre, un po' diverse, più consumate, nuove, grandi, piccole, grigie, marroni, borchiate, stinte.
La catena del portafogli è gelida, piantata nel fianco.
Marijuana e birra. Vomito da qualche parte.
Il Russo ha il ferro infilato sotto la felpa appallottolata a mo' di cuscino. 
Non riesce nemmeno a tirarlo fuori. Forse non gli conviene, forse ci tiene a non farsi bucherellare.
Forse è davvero il Gola Profonda degli sbirri, e aveva ragione L'Ariete ad andare in giro a smerdarlo.
Io non lo so. 
So solo che sono in mutande in un pomeriggio di aprile, cotto come un biscotto, senza scarpe e con una canottiera macchiata di unto, un manganello puntato contro il buco del culo e i polsi a morire di cancrena per le manette troppo strette.
E so che lo sbirro che mi ha appena tirato in piedi ha occhi piccoli e scuri, sopracciglia che si congiungono sulla fronte e un naso sproporzionato rispetto alla faccia. So che non è più giovane, so che è incazzato, e so che la gigantesca A cerchiata ancora fresca sulla parete alle mie spalle a lui non piace davvero. 
Perché noi fottuti anarchici andiamo in giro strafatti a vandalizzare i quartieri. 
Perché scriviamo su muri.
Perché pestiamo gli sbirri.
Perché viviamo con negri, italiani, irlandesi e giamaicani.
Perché siamo drogati, e sporchi, e sboccati.
Perché nessuno ci misura il getto del piscio e ci pesa la merda, e ci sveglia con una tromba del cazzo infilata su per il culo.
Joe Strummer lamenta qualcosa dalle casse un po' gracchianti di un vecchio mangiacassette. 
Schizzato di vernice, impolverato, precario su un tavolino con tre sole gambe. 
Ho preso una scossa da rimanerci secco quella volta che ho inserito la presa.
Ci pestano. Ci puoi giurare che ci pestano Joe. 
L'unica pistola di Brixton che conosco io, ce l'ha nascosta Ivan sotto le travi del pavimento del cesso.
E lo so che lo beccano.
Lo so che qualcuno canta come la fottuta domenica in chiesa.
Cazzo se lo so che il pugno che questo sbirro di merda mi ha appena schiantato nello stomaco, in tribunale, diventerà legittima difesa.

When the law break in
How are you gonna go?
Shot down on the pavement
Or waiting on death row

10 Aprile 1981
 
The money feels good
And your life you like it well
But surely your time will come
As in heaven, as in hell


Il muretto del cazzo mi ha mandato a puttane gli ultimi jeans buoni che mi sono rimasti da quando la mia vecchia mi ha sbattuto a calci fuori di casa. Lo zaino che straborda di magliette sporche e calzini puzzolenti, mutande, mie e non mie a dirla tutta, panini rosicchiati appena e lattine di birra ammaccate.
La spilla da balia infilata sotto il ginocchio punge e sfrega contro la stoffa. 
Sangue caldo fino alla caviglia. Un altro paio di calzini da buttare.
Una bomba carta si schianta a un metro dal mio piede sinistro, una scintilla indurita dai calcinacci e i frammenti di marciapiede mi sprofonda nella suona delle Chuck Taylor all'altezza del mignolo.
Brucia. 
Il mio vicino di casa, di quando ancora stavo dai miei, mi barcolla vicino con la testa spaccata e il collo della maglietta è fradicio di sangue raggrumato. 
Sento che si lamenta nel suo slang morbido e cantilenante amaro di polvere e cemento sbriciolato.
Potrei anche pensare di accovacciarmi dietro il cassonetto riverso in strada a mo' di barricata, ma una molotov esplode ancora più vicino, e mi fischiano le orecchie.
Lo chiamo, e Jamal impreca qualcosa, ma solleva una mano.
Un vago sorriso. 
Si sposava sua sorella quando sono cominciati i casini. 
Se tutto va bene, riesce ancora a partire per il viaggio di nozze.
In un panico che è quasi fluido, respiriamo calcinacci e lacrimogeni. 
Ci scappa il morto. Me lo sento che ci scappa questa volta. 
Nemmeno vedo lo scudo arrivarmi contro.
Il naso si accartoccia, gli incisivi affondano nel labbro inferiore. Non sento niente, mi formicolano le dita delle mani. 
Lo zaino pesa, adesso.
Jamal mi trascina con le unghie rotte fin dietro il cassonetto rovesciato a terra alla bel e meglio per non consegnarsi proprio inermi al manganello.
Un tizio mi fa un cenno, fazzoletto sulla bocca e capelli rasati. 
Una molotov, un'imprecazione a mezza voce, il braccio che rotea alla cieca.
Qualcosa esplode, e ancora fuoco.
Il sangue sa di ferro, è caldo, e mio, e quasi mi soffoca.
Il tizio mi mette in mano una bottiglia di birra vuota e accende la miccia. 
Il fazzoletto puzza di benzina e inizia a bruciare.
Lo guardo un attimo, la fiamma che saltella nell'aria irrespirabile di fumo aspro. 
Se mi esplode in mano, ci rimango. Per bene, non come quella volta che mi sono tuffato nel Tamigi per scommessa e quasi mi tirano su in un sacco nero. Ci rimango per davvero, e la mia vecchia, quella stronza, piangerà un po' con i giornalisti per farsi offrire da bere al pub.
Se la lancio, dovrò cominciare a decidere in quale punto di questa fottuta barricata voglio che mi trovino morto.
Fumo, prurito lancinante sul fondo della gola.
Tossisco sangue che non riesco a respirare, pastoso sulla lingua e contro il palato.
I timpani fischiano furiosi, i polmoni bruciano e la testa pesa sul collo come se fosse piena di sabbia. 
Vista offuscata e pensieri tremolanti.
Deglutisco sapore ferroso e caldo.
Tossisco.
Il braccio si solleva, compiendo una rotazione innaturale di chissà quanti gradi.
Cazzo, dovevo dire a mio fratello che tornavo a casa.

11 aprile 1981

You see, he feels like Ivan
Born under the Brixton sun
His game is called survivin'
At the end of the harder they come


E me ne sto zitto, anche se brucia, perché Ivan non lo posso salvare, e i tre sbirri più camionetta che se lo stanno portando via non li posso fermare. 
L'altro mi fissa dietro quel taglio di capelli troppo borghese e ordinato.
E quell'espressione non posso sopportarla davvero. A vedere quegli occhi sbarrati, mi si fotte il cervello.
Non lo so perché fa così, alla fine. Ci siamo dentro insieme, e lui lo sa. È venuto lui sul bordo del fottuto campetto sotto casa a dirmi che Brixton era circondata. A dirmi che la gente veniva pestata in massa, e gli immigrati scomparivano.
A dirmi che qualcuno si era organizzato, e gli serviva un chimico.
Ha respirato benzina per dodici ore imbevendo gli stracci nei serbatoi delle macchine parcheggiate, svuotando birra da mezzo pound nei tombini e facendosi venire le vesciche per impilare le molotov finite. 
Lui ha cercato me, nella sua divisa da ragazzo perbenino con la cravatta e l'ultimo bottone della camicia allacciato. E i suoi occhiali da vista, e i suoi capelli puliti, e il suo buon odore.
E le sue scarpe lucide, e la sua cartelletta, e il suo accento da quartieri bene.
E quel neo vicino all'anca che sembra una macchia di inchiostro. 
E il modo in cui di notte borbotta poesie francesi di scrittori atrocemente morti da mezzo secolo.
Occhi sbarrati contro la zazzera dei miei capelli di quel biondo ossigenato ormai quasi pateticamente bianco candeggina che sfiorano il bordo della barricata, legna accatastata e tombini divelti.
Un poliziotto, casco, anfibi e scudo, agita in aria una pistola col numero di serie grattato via minuziosamente. 
Eppure Ivan è uno di quelli precisi, quando si tratta di non farsi beccare. Qualcuno ha allargato troppo la bocca e ce li ha spediti tutti lì, sotto le assi del pavimento del cesso di casa di sua madre, quella donna russa piccola e minuta che spacca la legna tutto l'inverno in giardino per mandare avanti quella sua stufa da galera che li ha quasi intossicati tutti già tre o quattro volte.
Ce li hanno spediti eccome.

You know it means no mercy
They caught him with a gun
No need for the Black Maria
Goodbye to the Brixton sun

Ivan scalcia e li maledice con quel suo pastoso accento dell'est, Io lo so che non devo alzarmi, e lasciare che si dimentichino di me.
Sento i muscoli che imprecano e bestemmiano, e ho una voglia matta di prendere a sprangate qualcuno, e le dita si contraggono attorno al metallo dell'impugnatura. 
Ma lui ancora mi guarda, con quegli occhi spauriti da ragazzino delle medie, la camicia sbottonata, adesso, senza più gli occhiali da vista morti calpestati sotto diecimila suole di scarpe rotte, i capelli arruffati, la cartelletta  ridotta a strisce di cuoio infilate meticolosamente in colli di bottiglie di birra scadente. Gliel'avevano regalata i suoi, gente per bene che vive a Maida Vale, ricchi sfondati con la televisione a colori anche al cesso e l'educazione da classe dirigente.
E quell'odore di buono e ammorbidente da lavatrice nuova, con l'oblò intatto e il cestello che gira fluido, mica come la mia, che devi tenerla chiusa con lo schienale della sedia di legno marcio della cucina altrimenti ti trovi a scopare le tue mutande fradicie e insaponate a cazzo.
Adesso anche lui sa di tabacco, e benzina, e birra, e candeggina, e me, che ho portato la strada a fare a pugni con i suoi colletti inamidati.
Il mio giubbotto di pelle bucherellato di spille da balia calcato sulle sue spalle un po' asimmetriche, clavicole e scapole che sfregano, una giacca della divisa rosso acceso che lo farebbe identificare da chiunque in un secondo e mezzo. 
Resta fermo, con tutta la fuliggine e il fumo delle bombe carta che gli confondono i lineamenti.
Ivan urla mentre un poliziotto tenta di spingerlo dentro la camionetta.
Urla e si dimena.
E io a testa bassa, dietro quest'ammasso di sedie di legno marcio della scuola elementare dove i ragazzini devono portarsi la carta igienica da casa, e la minestra della mensa è l'habitat naturale degli scarafaggi. 
Accovacciato, le gengive tanto strette da sanguinare, la puzza di muffa del materasso dove la signora Navel ha partorito tutti e sei i suoi figli nello scantinato, perché in ospedale l'hanno rimandata a casa perché era nera e senza marito.
So che devo solo chiudere gli occhi e aspettare che le divise nere e quei caschetti a guscio d'uovo semplicemente spariscano dietro la caligine densa e soffocante delle macchine in fiamme, e quello snervante scalpiccio di stivali su vetri rotti si perda fra le urla, e le esplosioni, le imprecazioni in giamaicano, francese, inglese e italiano.
Dire a me stesso che non è la mia battaglia, quella di Brixton, che mio padre è un suddito della Regina vecchio stampo come le banconote, e ha sposato una brava ragazza scozzese con i capelli rossi e una gamba più corta dell'altra.
Ma Ivan era in classe con me dalle elementari. Abbiamo visto il primo paio di tette dal buco della serratura del bagno delle femmine in quarta. Ci siamo fumati la prima sigaretta nello sgabuzzino del bidello in quinta. Cazzo, la prima canna, forse, in prima media.
Mi ha fregato la ragazza, una volta, quando ancora il mio uccello si metteva sull'attenti per ogni frusciare di foglie.
Ivan è fottuto.
Io lo so.
Lo sa lui.
Ma quegli occhi da scuola privata ancora mi guardano, e non c'è mezza oncia che non sia fatta di panico. E quegli occhi sono grandi, e fanno paura.
Li vedrò anche in prigione, me lo sento. E penserò alle sue strane scapole da tacchino malnutrito, e al neo sul fianco, come una macchia d'inchiostro, e all'odore un po' troppo borghese del detersivo sui suoi vestiti.
Se ci arrivo vivo.
Un solo secondo che ci penso, alla fine, mentre il mio braccio ha lasciato andare la molotov.
La spranga si schianta a caso, in un casino fottuto che mi rimescola le budella.
La molotov esplode, sparando schegge di vetro rotto alla velocità di un missile sparato nell'iperspazio.
Non so nemmeno se la voce che sento è mia o sua quando mi arrampico fuori dal mio nascondiglio, brandendo quella stupida spranga di ferro improvvisata che quasi sicuramente non avrò il tempo di usare.
Vedo solo l'occhio pesto di Ivan sotto una crosta di sangue raggrumato contro il sopracciglio.
Uno scudo, un manganello, urla.
Altre urla, imprecazioni.
Porte che sbattono, sirene, botte.
Ancora urla.
Un manganello si solleva a mezz'aria.
Un silenzio pesante come una bolla di benzina inesplosa, che scava cunicoli e gallerie di fuoco contro la mia spina dorsale.
A terra, contro i ciottoli divelti e le macchie scure di benzina sull'asfalto, riesco a malapena a voltarmi.
Lui mi guarda ancora, sempre, incessantemente, da dietro il berretto che gli ho calcato in testa per proteggerlo nemmeno io so da cosa. 
Apre la bocca e la richiude, la cartelletta sgualcita in un gioco di contrasti fra le sue dita bianche e la giacca rossa della divisa.
Nebbia, fumo, sangue nelle orecchie.
Mi guarda ancora, in quel silenzio saturo di altre voci e rumori che lottano per sovrastarlo.
Sei tu, ragazzino, con i tuoi capelli e il tuo odore, e la tua cartelletta nuova. Prima di te io nemmeno ci pensavo che si potesse rischiare tanto e volere tanto. Adesso ci credo, vedi, e ci rimetto il culo.
Tu sei venuto da me.

12 aprile

You can crush us
You can bruise us
But you'll have to answer to
Oh, the guns of Brixton
(Guns of Brixton, The Clash)








Angolo della delirante autrice: 'Sta cosa è nata così, perchè il 22 dicembre 2012 era il decimo anniversario della morte di Joe Strummer, il frontman dei Clash, nonchè uno dei padri spirituali della mia adolescenza, e dell'età adulta e penso di tutto quello che verrà.
Guns of Brixton risuona nelle mie orecchie da all'ora, e in un impeto di follia suicida mi sono gettata nella mischia dei disordini di Brixton con una preparazione da Wikipedia ma uno slancio inaspettato. La gente normalmente scrive di Natale durante le vacanze di Natale. Io scrivo dei disordini di Brixton. E' il mio Natale, capitemi^^
Non ha la pretesa di essere storico o una ricostruzione fedele, è solo quello che dice a me la canzone, quello che io sento sotto la pelle. Sono persone, non fatti, come sempre.
Senza nome, se non qualche nomignolo accennato e l'Ivan della canzone dei Clash al quale ho voluto rendere omaggio. Ci sono le foto di tumblr che mi ispirano sempre un'infinità di cose, e c'è il disagio, che è la mia manna.
Per me questa OS è quasi una flashfic, perchè non dilungarmi non è il mio forte, ma in onore della brevitas e della brevità tanto amata da Calvino, sì insomma, sapete com'è, dovevo fare una prova^^
Se siete curiosi, vi piace ciò che avete letto, e in qualche modo vi incuriosisce, potete trovarmi nel gruppo FB con la mia roommate Elle Sinclaire <3

NB: aggiornamento del 21/08/2014. La OS è stata rivisitata e corretta. Ho aggiunto qualche pezzo e mi sono nuovamente innamorata degli stronzetti dell'ultimo pezzo. Tornerò a scrivere su di loro. Oggi è il compleanno di Joe, e in onore degli anni che purtroppo non avrà, l'ho rivista un attimo e corretta^^ Ho fatto anche qualche modifica all'html per inserire le foto, altrimenti era brutto :D

 
   
 
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