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Autore: _Marika_    29/12/2012    2 recensioni
Bicchieri rossi, lampadari distrutti, giocatori di football, champagne scadente, danze esotiche, vestitini leopardati, baci, risate, lacrime.
Nuovi incontri.
Cos'altro potrebbe accadere questo venerdì sera?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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A Turning Point

 

 

 

 

 

Mi svegliai nel mio letto, da sola.

Fu triste, ma fu anche un immenso conforto. Mi alzai svogliatamente e mi infilai le ciabatte. Tesi le orecchie, cercando di capire se ne frattempo qualcuno fosse rientrato a casa. Un lieve russare mi confermò la presenza di Liam nella stanza accanto. Il letto di Donna invece era vuoto, sfatto da giorni.

Avevo il morale a terra.

E quello che è successo con Matt non aiuta, vero?

Zitta, vocetta di merda.

Lisciai con una mano le lenzuola, fissando il vuoto con espressione sconfitta.

Dovevo riprendere in mano la mia vita, capii. Quella deriva non poteva continuare per sempre. Mi stava distruggendo.

...finché non saprai di cosa hai bisogno per essere felice, non starai bene con te stessa. E sarai destinata a rimanere qui; a lasciarti portare via dalle onde”.

Perché le parole di Justin, che mi erano sembrate così ovvie e giuste, si ammantavano adesso di un significato così oscuro? Perché suonavano così vuote e irraggiungibili? Non erano ovvie, non lo erano affatto.

Perché, innanzitutto, cosa mi rendeva felice?

Di cosa avevo bisogno, io?

Non lo sapevo. Non è la cosa più orribile del mondo non sapere cosa ci rende felici di essere su questa Terra?

Avevo pensato di essere felice, prima di arrivare qui in Ohio.

Se la mia fosse stata vera felicità o uno stato mentale che mi ero autoimposta, ancora dovevo capirlo.

Avevo uno splendido ragazzo, amici di cui fidarmi, una famiglia che mi voleva bene. Studiavo lingue per il diritto internazionale con l'intento di trovare un lavoro che mi permettesse di vedere un po' il mondo. Avevo uno sgorbio di gatto obeso che mi mordeva i piedi quando dormivo.

Volevo una vita perfetta. Volevo essere perfetta, per tutti.

Non lo ero, ovviamente.

Studiavo molto, ma i miei voti non erano granché. I miei genitori fingevano che i diciotto e ventidue che portavo a casa fossero voti fantastici per potersi vantare con i vicini. Studiavo tantissimo per colmare le lacune della mia intelligenza. Giornate intere chiusa in casa per un misero diciotto.

Mediocre era pure la mia vita sociale. Avevo pochi amici, e certamente nessuno avrebbe potuto rientrare nella categoria cool: la mia migliore amica aveva una malsana fissazione per le piante grasse, ad esempio. Giulio, vecchio amico d'infanzia, ancora non aveva capito perché Dungeons and Dragons non fosse un buon argomento per abbordare una ragazza. E Francesca, occhiali e golfino all'uncinetto, a ventiquattro anni un uomo nudo l'aveva visto solo su YouJizz.

Non pensavo male di loro, non l'avevo mai fatto. Ma l'America mi aveva aperto gli occhi, senza dubbio. Forse mi aveva resa più crudele, chissà.

E mediocre, probabilmente, era la mia vita sessuale. Con Roberto ero docile e premurosa, mai aggressiva. Non avevo gli schizzi isterici di certe mie coetanee, non gli facevo pesare nulla, non lo rimproveravo, non lo costringevo a venire con me ai congressi di storia della lingua romanza.

Non che non facessimo sesso, eh. Lo facevamo. Ok, non ero certamente la dea del sesso che tutti gli uomini sognavano di avere nel proprio letto, ma me la cavavo.

Credevo che fosse abbastanza. Credevo che amarlo fosse abbastanza. Ma non lo era.

Trovarlo sul divano a stantuffare la cugina non fu divertente. Ma non fu divertente nemmeno dopo, quando mi ritrovai di notte a piangere morsicando il cuscino e di giorno a prestare ai compagni di corso gli appunti di glottologia con un sorriso gelido stampato in faccia.

Non fu carino quando la mia migliore amica mi confessò, con pindarici giri di parole, che secondo lei era colpa mia, se Roberto mi aveva tradito. Ero troppo dolce con lui, aveva detto. Troppo rassicurante. Lui aveva cercato un po' di avventura, poverino.

Non fu bello quando mia madre mi disse di perdonarlo, perché un errore così lo potevano fare tutti, e che non dovevo buttare via una relazione di anni per una scappatella. Mi disse che io e Roberto eravamo sempre stati perfetti insieme. Perfetti.

La cosa peggiore era che lo pensavo anch'io.

Mi era salita una grande rabbia dentro. Una frustrazione cieca e pulsante che avrei dovuto sfogare, o sarei implosa come una supernova.

Non ero mai stata impulsiva. Ero stata metodica, razionale, equilibrata; impulsiva, mai. Eppure lo diventai. Cominciai a saltare le lezioni.

Mi vedevo per quello che ero.

Una studentessa universitaria di ventitré anni, non particolarmente attraente, con amici sfigati, voti mediocri e non uno straccio di sogno per cui lottare.

Non avevo mai avuto talenti degni di nota. Non sapevo cantare, né ballare, né recitare, né disegnare, né intagliare il legno. Non ricamavo né cucivo, non sapevo né cucinare né occuparmi di un giardino.

Senza Roberto non sapevo nemmeno che tipo di film mi piacessero. Era sempre lui a scegliere. Sempre lui a portarmi in bruschetteria, lui a decidere le vacanze. E a me andava bene tutto, perché con lui tutto era bello.

Cominciai a pensare a me stessa, per la prima volta. Cosa mi piaceva, cosa no. Cosa volevo dalla mia vita.

A sei anni avevo dichiarato che da grande avrei fatto la restauratrice. Una parola così difficile da sillabare, a quel tempo. Perché non avevo seguito un corso di arte, poi? Non riuscii a trovare una risposta.

Pensai di mollare l'università, ma non lo feci. Arrendersi non avrebbe dimostrato un bel niente, se non che la ferita che mi avevano inflitto mi aveva lasciata dissanguata sul terreno e incapace di riprendere in mano la mia vita.

Non volevo arrendermi.

Ma se il tradimento nasconde sempre una colpa da entrambe le parti, qual'era stata la mia? Ero stata troppo davvero cauta, troppo attenta ai suoi problemi, troppo dolce, troppo mediocre?

Roberto mi aveva inviato fiori, lettere, e-mail. Aveva invaso la mia bacheca di Facebook con dichiarazioni strappalacrime alternate a autoflagellazioni in diretta.

Ma io non avevo ceduto. Non erano bastati il cordoglio delle amiche, l'insistenza di mia madre, l'indifferenza del mio gatto.

Per la prima volta, stavo conoscendo la vera Emma Villoresi.

A lei, signore e signore, dell'opinione degli altri se ne sbatteva alla grande.

Seduta su una panchina arrugginita fuori dall'università, cominciai a fare dei progetti. Il peso di quella situazioni stava diventando insostenibile. Tutti erano contro di me, anche senza saperlo: la loro compassione mi abbatteva, invece di aiutarmi.

Io non volevo essere compatita; io volevo dimenticare.

Volevo rinascere. Volevo cambiare tutta la mia vita, a partire da me stessa.

Ero ubriaca per la prima volta nella mia vita, quando chiamai Donna dal bagno di un locale sfigatissimo della periferia di Trento. Lei, con naturalezza, mi offrì un alloggio a casa sua, negli U.S.A., dall'altra parte dell'Oceano. Era un'idea talmente assurda che, in lacrime e annebbiata dall'alcol, avevo accettato.

La mattina dopo, preda di un violento mal di testa, avevo cercato il suo numero per scusarmi di quella scenata e mettere a tacere per sempre la follia di quell'idea: ma un messaggio di Roberto lampeggiava sull'angolino della schermata.

Una foto. Un bacio sospeso nel tempo, il suo naso che sfiorava i miei capelli.

Avevo chiuso il messaggio e cercato il numero di Donna.

Le avevo detto che il giorno dopo sarei stata da lei.

 

Ero esposta, nuda sotto i suoi occhi. Ma non riuscì a farmi sentire a disagio. Lo volevo almeno quanto lui voleva me, e mi stupii di quel desiderio. Infilai le mani tra i suoi capelli neri e crespi, affondando di più nella sua bocca. Lui mi strinse forte, per poi percorrere la mia schiena con le dita. Gemetti contro le sue labbra, preda dei brividi. Lo volevo. In quel momento, lo volevo.

 

Suonarono alla porta.

Mi sforzai di scacciare i pensieri molesti e scesi le scale. L'ingresso era pulito e in ordine; qualcuno aveva raccolto i resti di rose e polistirolo. Con una stretta al cuore, seppi che quel qualcuno era Matt.

Aprii la porta, e fui tentata di richiuderla di botto.

Che cazzo ci fai tu qui?” mi uscì invece.

Ian Evans si mosse a disagio nelle sue logore All Stars. Lo guardai fisso, divisa tra la repulsione e la paura.

Sono venuto a parlare con Justin”.

A parlare con Justin, pensai orripilata, non a scusarsi con me, pregandomi di non denunciarlo alla polizia.

Justin non c'è” risposi, tentando di essere fredda. Suonai invece terribilmente malinconica.

Ti prego. Ho bisogno di parlargli” replicò lui, con un'urgenza prepotente che nascondeva umiltà e vergogna.

Ti vergogni, Ian Evans?

Io mi sentivo in una bolla. Intuivo le mie emozioni, piuttosto che provarle veramente. Pensavo di dover essere sdegnata, e quindi lo ero. Pensavo di dover avere un sano e logico terrore di quel tizio, e quindi l'avevo. Ma era tutto così lontano e distante, così indifferente...

Justin non c'è” ripetei, monocorde. La mia imperturbabilità parve mettere ancora più in difficoltà il ragazzo di fronte a me.

Ian Evans si ficcò le mani nelle tasche, in un gesto che mi ricordò molto un'altra persona. “Credo di dovermi scusare con te”.

Credi?” mormorai.

Ian mi guardò strano. Non capiva se ero ironica, o scema, o drogata, o tutt'e tre.

Sì. Io... non sono così. E' stato un incidente. Mi dispiace”.

Ok”.

Però devo parlare davvero con Justin. E' urgente”.

Sospirai. Cominciavo a innervosirmi.

Justin non c'è. Non ho idea di dove sia né di quando tornerà” sbottai.

Quella dimostrazione di enfasi verbale convinse Ian, che abbassò il capo sconfitto.

D'accordo” concesse. “Tornerò più tardi”.

Bene”.

Sbattei la porta.

 

 

Donna mi aveva accettato senza riserve. Mi aveva accolto in casa sua senza fare domande, mi aveva infilato in un pigiama e mi aveva spedito a letto con una tazza di tisana bollente.

Non avevo una valigia, né un cambio di vestiti. Avevo preso la mia decisione con l'insolita fermezza che accompagna la follia. Ero arrivata lì con un passaporto e un biglietto aereo. Nient'altro.

Per circa una settimana avevo vissuto da lei come un parassito, dormendo e respirando e piangendo. Lei mi consolava, mi spingeva a reagire.

Ricominciai a recuperare poco a poco. Con lei ero una persona diversa. Aveva sempre avuto questo potere su di me.

Dopo una settimana risposi alle chiamate di mia madre. Sapeva dov'ero, ovviamente. Donna l'aveva chiamata poco dopo il mio arrivo, per dirle che ero viva e che sarei stata da lei per un po'. E che no, non ero stata rapita e no, chiamare i servizi segreti non sarebbe stato di aiuto.

Emma!” aveva strillato mia madre nella cornetta. “Sei impazzita ad andartene in questo modo? Non pensi a me e a tuo padre? Non pensi a Roberto, povero caro? Che ti è saltato in mente di andare in America?! Perché?!”.

Io non ero riuscita a rispondere. Avevo il respiro incastrato in gola, mentre i pensieri si affastellavano incoerenti l'uno sull'altro.

Sei un'egoista, Emma”.

Un'egoista.

Ecco cos'ero per mia madre.

Lei era sempre stata molto brava a farmi sentire in colpa.

Perché sono venuta qui?” avevo chiesto a Donna quella stessa sera, tra i singhiozzi. Donna si era seduta sul letto accanto a me, facendo inclinare un poco il materasso. Aveva sospirato e aveva stretto la mia mano sul lenzuolo. “Perché tu ti rispetti, Emma. E non avresti permesso a nessuno, nemmeno a Roberto, di calpestarti”.

Poi si era inginocchiata davanti a me, costringendomi a guardarla. “Una donna più debole sarebbe rimasta, sweetei. Avrebbe ceduto alle lusinghe di un uomo pentito, alle sue vuote parole d'amore. Avrebbe raccolto i cocci del suo ego e avrebbe accettato di continuare quella relazione. Una donna più debole sarebbe scesa a compromessi, persino con se stessa. Ma tu no, sweetei. Tu ti ami troppo per permettere tutto questo. Tu hai troppo rispetto per la persona che sei perché un uomo meschino possa sputare sui tuoi sentimenti e poi decidere di riaverli. Tu sei venuta qui perché sai che meriti molto di più. Tu sei venuta qui perché non ti lascerai mai mettere i piedi in testa”.

Quelle parole mi avevano scaldato il cuore.

Non erano vere, ovvio.

Non ero io quella donna forte che lei aveva dipinto. Ma mi piaceva pensarlo, questo sì. Mi cullavo nell'illusione che fosse vero, che fosse vero che avevo lasciato l'Italia per il rispetto che provavo verso me stessa e non per l'estenuante situazione che sarei stata costretta a sopportare.

Sguardi di compassione, pacche sulle spalle, imbarazzati sorrisi d'incoraggiamento. Tutti quei vi siete lasciati?!, e i mi dispiace!, e i bè, con il prossimo andrà meglio!, come se Roberto fosse stato un fidanzato tascabile da cambiare ogni sei mesi. Magari cambiando profumazione, come un arbre magique.

Io allora lo amavo ancora, porca puttana.

Ma gli incoraggiamenti di Donna ebbero un effetto concreto su di me.

Cominciai a uscire. Mi vestivo bene, mi truccavo, flirtavo con i ragazzi carini.

Mi guardavo allo specchio e mi vedevo bella. Spensierata, luminosa. Non ero più la vecchia Emma secchiona, mediocre in tutto. La nuova Emma aveva il mascara sbavato e la gonna troppo corta. Non cercavo l'amore, ma la trasgressione.

Era la mia giovinezza, fatta di bottiglie di vodka e musica a palla, di baci rubati in piscina, di tramonti mozzafiato. La giovinezza che, a ventitré anni, non avevo ancora vissuto.

Quel mese in America aveva attuato in me una trasformazione che nessuno avrebbe creduto possibile. Io meno di tutti.

Ero cambiata, o forse ero diventata me stessa. La sottile differenza tra queste due possibilità mi aveva sempre lasciato sconcertata.

 

Mi aggrappai al collo della sua T-shirt, mentre le sue mani si chiudevano sui miei glutei. Dio, sì. Sì. Mi staccai dalla sua bocca solo per guardarlo negli occhi. Lo sguardo appannato di desiderio, torbido, accese calore ben conosciuto tra le mie gambe. Gli tolsi la maglietta in uno scatto di follia. Per un attimo gli rimase impigliata sotto il mento, ma poi scivolò libera verso l'alto. Matt mi guardò, senza parole. I capelli arruffati e gli occhi vitrei furono troppo per me. Mi desiderava. Mi voleva con tanta forza da non capire nemmeno dove si trovava. Mi addossai a lui, facendo aderire ogni mia curva nuda al suo corpo. Il suo torace solido fu delizia per il mio cuore infranto.

 

Adesso sentivo di essere ad un punto di svolta.

Ero quasi crollata, con Brian Hustings. Mi ero svuotata a furia di piangere quella relazione che mai era esistita. Tutto quello spreco di liquidi corporei, e per cosa? Per un idiota con l'ormone impazzito.

Forse non ero cambiata, in effetti. Cercavo ancora l'amore. E cercarlo nei posti sbagliati sembrava essere diventata la mia specialità.

Lo deturpavo, nascondendolo sotto una maschera di disinteressata lussuria. Volevo essere come Donna, imperturbabile ammaliatrice, che non si faceva mai invischiare in cose banali come i sentimenti. Era lei a decidere, era lei la padrona.

Io non ero mai stata la padrona di niente, nemmeno di me stessa.

Altro che amarmi troppo. Io non mi amavo affatto, perché ancora non sapevo chi ero.

 

Non arrivammo al letto. Sapevo che quei pochi istanti necessari a salire le scale avrebbero spezzato la magia. Dalla cucina ci trascinammo al salotto, per cadere sul divano senza lasciarci mai, bocca su bocca. Le mie mani cercarono frenetiche i passanti della sua cintura. Lui si sollevò e completò l'opera, sfilandosi jeans e boxer in un unico movimento. Sentii il calore della sua bocca sul collo. Mi inarcai quando la sua lingua bollente scese a lambirmi un capezzolo. Le scie di fuoco e saliva andarono sempre più giù, finché non sentii il suo fiato caldo sull'ombelico.

Poi Matt alzò la testa e incatenò i suoi occhi a miei.

 

Mi ritrovai a fissare attonita il corrimano delle scale.

Ma che ora era?

Salii le scale a entrai in camera. Il telefono era sempre al solito posto, posato sul comodino. Lì accanto la matrioska scheggiata pareva sogghignare.

Il senso di colpa mi aggredì lo stomaco, pesante come il cotechino di capodanno. Matt, con la sua bocca sul mio seno solo poche ore prima. Brian, che accavallava le due emme del mio nome in un suono come mi affascinava. Roberto, con quel 'ti amo' sussurrato sotto i fuochi d'artificio...

Basta, mi dissi.

Basta con Matt, Brian, Roberto. Basta uomini. Basta stare di merda.

Io merito di più.

Afferrai il telefono per controllare l'ora.

Un messaggio.

Di Brian.

Dobbiamo parlare. Raggiungimi al memorial

 

•••

 

I quindici minuti che occorrevano per arrivare al Memorial Park furono tra i più lunghi della mia vita.

Quando i miei piedi si posarono sull'erba mi mancava il fiato. Mi strinsi il fianco per far rientrare la milza al suo posto e presi due lunghi respiri. La mia dieta di uova, toast e tequila forse non era la migliore per quel tipo di esercizio fisico.

Ormai erano le sette p.m., un'ora stupenda per andare al parco. L'aria era più fresca e il cielo cominciava a tingersi di indaco.

E Brian era lì, e doveva parlarmi.

L'immagine di lui spalmato su quella baldracca a casa di Mitchell non mi abbandonava. Ricordavo ogni schifoso dettaglio. Le unghie di lei, laccate di viola, che stringevano la maglietta bianca di lui in mezzo alle scapole. I capelli di Brian che si arricciavano appena dietro il collo.

E d'improvviso lui era lì, seduto su una panchina accanto al campo da rugby. Mi salutò appena con la mano e io mi avvicinai. Il cuore mi batteva all'impazzata. Diedi la colpa al fatto che stessi per sputare un polmone.

Ciao”.

Ciao” risposi, cauta. Non mi sedetti. Rimasi in piedi di fronte a lui.

Lui si mosse a disagio sulla panchina, ma rimase in silenzio. Voleva che continuassi.

Io dovevo continuare?

Questa è proprio bella! Chi è sparito di punto in bianco per poi ricomparire magicamente tra le gambe di un'altra?

Cosa devi dirmi?” lo incalzai. Cominciavo ad innervosirmi. Soprattutto perché il mio cuore non la smetteva di pomparmi furiosamente sangue nelle tempie.

Cosa io devo dirti?”. Brian spalancò gli occhi, ma si riprese subito. Anche lui stava cominciando ad incazzarsi.

Toccò a me rimanere sbigottita. Mi ero aspettata delle scuse, un monologo straziante e supplicante. Una sorta di replica di una soap opera che avevo già visto, insomma. Che cosa voleva sapere Brian da me?

Davanti al mio silenzio il nervosismo di Brian crebbe a dismisura. Si alzò dalla panchina con uno scatto, facendomi indietreggiare.

Quando avevi intenzione di dirmi che sei fidanzata?!” sbottò, impetuoso.

Rimasi senza parole.

Io, fidanzata...?

Cosa?!

Cosa... chi te l'ha detto?” articolai.

Brian si inalberò. “Che importa chi me l'ha detto?! Perché uscivi con me se eri già impegnata?” continuò, ferito.

Non riuscii a rispondere.

Fu come se qualcuno avesse rovesciato una scatola di puzzle dentro la mia testa, e i miei neuroni umiliati stessero cercando di ricomporre l'immagine. Un pezzetto era Brian, che dopo un incontro da fiaba e appuntamento da sogno smetteva di scrivermi apparentemente senza motivo. Un altro pezzo era Justin, che annunciava davanti ad un'intera platea il nostro fidanzamento. Un pezzo biondo e profumato era Alexis, che giurava di trasformarmi in un puntaspilli per le sue Manolo.

Quando Brian aveva smesso di pensare a me?

Dopo quella festa, mi dissi. Quella festa a casa della Milton.

Eccolo, quel pezzettino insignificante che non ero mai riuscita a trovare. L'amica di Alexis. Brian era andato a casa sua e aveva sentito delle voci velenose sulla mia presunta relazione con Justin.

Era così maledettamente ovvio!

E Brian si era sentito umiliato, usato, tradito. Forse per quello era finito a consolarsi con una ragazza random contro la carta da parati.

Il che significava che Brian, in realtà, non aveva mai smesso di pensare a me.

Io non sono fidanzata con Justin” scandii. “Non lo sono mai stata”.

Brian mi fissò corrucciato.

Come sarebbe che non lo sei mai stata? Ho sentito la Johnson parlarne due... tre sere fa” spiegò. Voleva apparire intaccabile, ma intravedevo tentacoli di dubbio farsi strada nelle incrinature della sua voce.

Era tutta una montatura!” replicai con troppa enfasi. “Justin l'ha detto perché Alexis smettesse di perseguitarlo. La nostra è una relazione inventata. Per il suo benessere”.

Un po' meno per il mio.

Devi credermi, Brian. Sono morta quando hai smesso di scrivermi. Pensavo non volessi più vedermi perché ero troppo banale per te”.

Da dove arrivava tutta quella sincerità?

Ma era così facile dire quello che veramente pensavo...

In un'altra occasione, in un altro paese, avrei usato frasi più retoriche ed evocative, ma molto meno chiare. Inutili e vuoti giri di parole per nascondere il vero significato dei sentimenti.

Parlare una lingua straniera, soprattutto una pragmatica come l'inglese, mi aveva reso più diretta. Districavo meglio i miei pensieri se dovevo esporli in un'altra lingua.

Brian rimase a bocca aperta, letteralmente.

Devi credermi” ripetei, più convinta.

E, improvvisamente, capii che non sarebbe stato difficile convincerlo. Perché lui voleva credermi. Lui voleva che io non fossi mai stata con Justin, voleva che io mi fossi logorata pensando a lui in questi giorni.

Lui...

Tu mi piaci, Emma” confessò, trascinato forse dalla mia sincerità. “Mi sei piaciuta subito, da quella sera, in quel vestito leopardato. Forse avrei dovuto dirtelo allora, ma ho deviato un più neutro 'sei carina'. Sembra sempre così difficile dire quello che si pensa, così fuori luogo”.

Tacque per un attimo, rimettendo a posto i pensieri.

Avrei voluto baciarti quella sera, sai. Ho voluto baciarti da quando quell'idiota ti ha lavato con lo champagne e noi non riuscivamo più a smettere di ridere”.

Il polmone ormai era risalito fino alla gola, ostruendomi il respiro.

Ma non ero l'unica ad avere difficoltà a respirare. Brian prese fiato rumorosamente.

Il mondo mi è crollato addosso quando ho sentito che stavi con un altro. Che ti stavi prendendo gioco dei miei sentimenti. Puoi capire come mi sentivo”.

Certo che lo capivo.

Mi sono ubriacato” continuò, parlando velocissimo. “Il giorno dopo sono stato di merda e mi sono detto che non l'avrei fatto mai più. Ma poi ieri mi hai scritto quel messaggio, e io volevo solo dimenticarti. Sono andato ad una festa, ho bevuto troppo. Credo di aver baciato una ragazza”.

Mi accorsi di quanto costava quella confessione a Brian. Era mortificato. E spaventato all'idea che io potessi considerare quell'atto un tradimento.

Tradimento per chi, poi?

La maglietta impigliata sotto al mento di Matt.

Scossi la testa, cacciando via i pensieri. La mia testa era un ronzio assordante. Dovevo dire qualcosa, prima di impazzire.

Tu mi piaci, Brian” esalai “ma...”

Ma cosa?

Ma non sono pronta per cominciare una nuova relazione.

Risi amaramente. Se c'era qualcosa che avevo imparato leggendo gli Harmony scadenti che Francesca mi rifilava -oltre a legare un uomo alla testiera del letto con una cravatta- era che un “non sono pronto” equivaleva ad un “non voglio avere una relazione con te”. E siccome ormai quella conversazione era diventata il party della sincerità, la vera domanda era: perché non voglio avere una relazione con Brian Hustings?

Boccheggiai, incapace di trovare una risposta.

Brian mi piaceva da impazzire, e io piacevo a lui. E allora cosa, cosa mi impediva di stare con lui?!

Poi un pezzo del puzzle venne a galla, limpido e sincero come pochi.

Non volevo preoccuparmi di un'altra persona.

...ma voglio pensare a me stessa, adesso”.

L'espressione da cucciolo di Brian mi fece sentire meschina. “Non capisco”.

Nemmeno io.

Presi fiato. “Per troppo tempo mi sono occupata degli altri. Adesso è il mio turno. Devo prendermi cura di me stessa. E' per questo che sono venuta in America”.

Lui continuava a fissarmi in quel modo che mi lacerava dentro, e fui costretta a distogliere lo sguardo.

Non voglio aspettare che tu mi chiami, Brian” spiegai al terriccio ai miei piedi. “Non voglio aspettare che sia tu a chiedermi di uscire. Non voglio preoccuparmi di essere abbastanza bella, abbastanza intelligente, abbastanza sexy per te. Non voglio che sia il tuo umore a decidere la mia giornata. Non voglio passare la notte a consumarmi per decifrare ogni tua frase e ogni tuo gesto”.

Brian non mi interruppe.

Perché è questo quello che faccio” continuai allora io “mi logoro, mi consumo, metto tutta me stessa nelle mani dell'altra persona. E io non voglio più farlo”.

Tornai a guardarlo negli occhi.

Adesso voglio pensare a me stessa”.

Brian aveva l'espressione di uno a cui hanno sparato. “Ma io... noi...” tentò. Deglutì e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, aveva una luce decisa nello sguardo.

Io non voglio rinunciare a te, Emma”.

Perché, dico io, perché dopo un discorso così toccante e intimo e sensazionale, tu mi complichi la vita in questo modo?!

Annaspai, cercando aria.

Il mio nome suonava così morbido accarezzato dalla sua lingua straniera...

No.

No, Emma. Sei tu a decidere.

Io tornerò in Italia, Brian”.

 

•••

 

Quando varcai la soglia di casa, mi sentii annientata.

Avevo distrutto tutto quello che avrei potuto avere con Brian. Avevo distrutto ogni tipo di relazione civile con Matt. Avevo tagliato i ponti con il passato, e adesso era proprio in quell'abisso che volevo tornare.

Io non ero come Donna, aveva ragione Justin. L'Ohio non era la mia casa. Dovevo tornare a Trento e prendere in mano la mia vita.

Non volevo più scappare.

Uno scalpiccio fuori dalla porta mi costrinse a tornare sui miei passi.

Chi diavolo era adesso?

Marciai fino all'ingresso. Fuori dalle finestre, il sole era ormai tramontato.

Spalancai la porta e mi trovai faccia a faccia con una Donna con gli occhi sbarrati, la mano con la chiave sollevata a mezz'aria.

Ho quasi fatto sesso con Justin” sparò a bruciapelo.

Ho quasi fatto sesso con Matt” replicai io neutra.

Donna mi guardò affranta.

Abbiamo ancora dell'alcol in casa, vero?”.

 

 

 

 

 

 

Lo so, avevo promesso un rapido aggiornamento. Lo so, ho mentito di nuovo. Lo so, mi brucerete al rogo dopo questo capitolo.

Dopo molte disavventure, comincia a delinearsi l'epilogo di questa storia. Finalmente vedo la luce in fondo al tunnel, per così dire. Che ne pensate? Cosa succederà alla cara piccola Emma?

Spero in molti commenti, che mi aiutano a tirare avanti.

A presto! (forse)

   
 
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