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Autore: Elena Granger    16/07/2007    2 recensioni
Primo capitolo di un libro che parla di una ragazzina 15enne, Laura, che dovrà affrontare i problemi dell'adolescenza durante il tenebroso periodo della 2° Guerra Mondiale.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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L’insegnante ci guardò con occhi stanchi. Era seduta alla cattedra in maniera a dir poco maleducata,e guardava Giorgio, un nostro compagno di classe, parlare della Rivoluzione Francese. Sembrava veramente annoiata. Lo guardava con occhi vuoti, annuendo a volte, facendo sbattere rumorosamente i suoi pesanti orecchini d’oro. Giorgio,con voce stanca, concluse la sua spiegazione e rimase in silenzio, aspettando che l’insegnante aprisse la bocca rosata per dargli un voto. La professoressa rimase seria. Sembrava non essere in gran forma per poter dare un voto serio a quell’interrogazione. In effetti non aveva una gran bella cera. I suoi occhi erano gonfi e stanchi, la sua crocchia ,che usualmente era sistemata perfettamente dietro la testa, era disordinata, con qualche ciuffo che le ricadeva sul collo profumato. Forse era colpa del grande caldo. Effettivamente a Mestre, in quel periodo, si era abbattuta una grande afa. Fu un giugno a dir poco caldo, quel giugno 1940. Erano gli ultimi giorni di scuola, e tutti ci chiedevamo ancora il perché di queste inutili interrogazioni. La nostra professoressa, la signorina Rebecca, era una donna alta, sui ventott’anni ,i capelli castani raccolti sempre in quella crocchia ,ornata da una matita gialla; gli occhi color azzurro cielo sempre scintillanti e vivi. Era una grande insegnante, e tutti le volevamo un gran bene, nonostante a volte poteva sembrare scontrosa. “Molto bene, Dorisi” affermò la signorina Rebecca, abbozzando un sorriso per assicurare a Giorgio che quella era stata una grande interrogazione. Giorgio sorrise , compiaciuto di quella sua grande esibizione che gli costò un intero pomeriggio di studio, senza mai uscire di casa. “La campanella sta per suonare, ormai. Laura, per favore , distribuisci la lista dei compiti per le vacanze estive” disse con serenità, guardandomi con un leggero sorriso. Io, alzando lo sguardo verso ella, risposi un si quasi mormorato. Io, Laura Galli, ragazzina quindicenne abitante a Mestre sin dalla nascita, mi alzai lentamente dal banco, facendo scintillare i capelli castano”oro. Ero alta, magra e aggraziata nei movimenti. I miei capelli erano lunghi e luminosi sotto la luce scintillante del sole. I miei occhi erano di un castano scuro, quasi nero , e penetranti al solo sguardo. Andai alla cattedra e afferrai i fogli scritti a mano dalla professoressa stessa, su cui scritta una lunga lista di compiti. I fogli emanavano un delicato profumo d’inchiostro che mi facevano pensare intensamente alla mia scuola. La mia scuola era una di quelle scuole che si potevano definire “ per i ricconi”. Io non ero ricchissima, appartenevo solo ad una famiglia, come si suol dire, benestante. Mio padre, Alessandro Galli, faceva il banchiere a Venezia, e guadagnava abbastanza per poterci concedere una domestica che si occupava della casa. Mia madre, Ginevra Astori, di origine Romana e non Veneziana, non aveva lavoro ma passava tutte le giornate a casa, a dipingere, a leggere libri, a cantare, ad ospitare amiche, e in estate a prendere il tè in giardino sotto le fronde del nostro salice piangente. Mio fratello maggiore, Riccardo, andava a scuola con me. Frequentava il penultimo anno nella mia scuola e, dopo aver finito anche l’ultimo anno, avrebbe seguito le orme di nostro padre. C’era anche Michele, il nostro fratello minore di 12 anni. Lui frequentava una scuola poco lontana dalla nostra, e tutti i pomeriggi passavamo a prenderlo per fare la strada con noi. Con quel noi, intendo anche i miei amici. Camminai lentamente con i fogli in mano, passando di banco in banco, distribuendo i fogli della professoressa sopra il banco di ognuno con una certa delicatezza.”Oggi che ne dici di andare giù al Forte?”mi bisbigliò Emma, una volta giunta al suo banco. Io, senza darle alcuna risposta, le feci segno con lo sguardo che non era il momento migliore per parlare di questo. Lei ,imbronciando il viso, sbuffò. Emma era la mia migliore amica. Anch’essa non era ricca ma di famiglia benestante, e i suoi genitori lavoravano parecchio a tal punto da vederla di rado alla sera. Aveva i capelli ricci e crespi,con piccoli boccoli cadenti sopra le spalle, un naso piccolo e appuntito ricoperto di lentiggini, gli occhi di un castano scuro,la bocca piccola e carnosa. Era di origine ebrea, e da poco ero stata al suo bat mitzvà . Uscivo con lei quasi tutti i pomeriggi, e nei giorni estivi amavamo andare al Forte, il nostro Forte, quel Forte circondato da un fossato ed alberi a non finire.Era un piccolo fortino abbandonato, costruito in occasione della I° Guerra Mondiale, ma che infine non fu mai stato usato da nessuno. Le uniche persone ad averlo mai usato fummo proprio noi, forse. Sorrisi alla mia amica imbronciata con aria quasi divertita, amavo farla arrabbiare, perché aveva espressioni buffe che mi suscitavano sempre un certo senso di divertimento. Tanto facevamo sempre pace alla fin fine. Arrivai al banco di Daniele. Mi fece l’occhiolino, mostrandomi un sorriso splendente e solare, guardandomi con i suoi occhi azzurri cielo. Daniele era un nostro migliore amico. Faceva parte anch’esso della nostra banda, ed era un ragazzo a dir poco bellissimo. Era alto, capelli neri corvino e mossi, occhi azzurri cielo, sorriso bianco e candido il quale poteva darti l’idea di un angelo sceso dal paradiso. Ho sempre creduto che tutte in quella scuola avessero un debole per lui, ma non sono mai riuscita a capire se dicevo il giusto; non parlavamo mai di ragazzi. Di Daniele non sapevo molto, era piuttosto riservato quando parlava della sua famiglia. Quello che sapevo era che aveva i genitori molto ricchi, e suo padre possedeva una piccola azienda. Passai ad Andrea, che era seduto dietro a Daniele. Andrea era rosso di capelli, gli occhi verdi e scintillanti, un naso piuttosto largo e ricoperto di lentiggini, come quello di Emma. I suoi capelli erano mossi e il loro rossore scintillava sempre sotto la luce del sole, rendendoli ancora più rossi. Mi guardò colpito, facendo scintillare gli occhi. Gli sorrisi. Lui abbozzò un mezzo sorriso intontito, quasi non capendo quello che faceva. Aveva delle espressioni buffe quando si comportava in quel modo maldestro. “Molto bene,ragazzi” disse la signorina Rebecca una volta che distribuii tutti i fogli e mi risedetti al mio posto, accaldata. “Spero non siano troppi compiti, per voi”farfugliò con un tono mezzo dispiaciuto, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Prima che riuscissimo a borbottare qualcosa di non interamente comprensibile, la campanella suonò. Tutti si alzarono ed uscirono dalla classe in un battibaleno, urlando dalla gioia. La professoressa sospirò e si abbandonò sulla cattedra, con aria quasi disperata e rassegnata. Prima di uscire riuscii a sentirla mormorare:”Quanta pazienza ci vuole con questi giovani”. Sorrisi tra me e me, reggendo sul petto il mio quaderno con aria felice, e camminando lentamente verso l’uscita. Fuori,al cancello, come, d’altro canto, mi aspettavo, Daniele,Emma,Riccardo e Andrea mi stavano aspettando sereni. “Allora,andiamo al forte si o no?” disse Emma senza nemmeno darmi il tempo di salutare.”Si, Emma” risposi con voce stanca, accontentando la mia instancabile amica. Gli occhi della mia amica scintillarono: era così contenta quando non le negavo una proposta.”Vieni anche tu con Michele?” chiesi a mio fratello “No, oggi non ne abbiamo molta voglia, e poi gli avevo promesso che l’avrei aiutato con il modellino di aeroplano” mi rispose alzando le spalle.”Fantastico , allora” disse Emma, sorridendomi. ~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~ I sassi scricchiolavano sotto le nostre scarpe, accompagnando quel silenzio tombale che era sorto tra me ed i miei amici, mentre ci stavamo dirigendo verso il Nostro Forte. Credo fosse stata l’afa a non farci parlare lungo il tragitto, perché volevamo conservare quel poco fiato che restava per proseguire il nostro cammino. E poco dopo, eccolo lì. Il Nostro Forte sorgeva prorompente tra il folto fogliame del bosco che lo circondava. Cominciammo a correre, con il fiato tornato come per magia. L’erba era alta e ci solleticava le gambe facendoci ridacchiare di tanto in tanto, come dei bambini innocenti. Il sole era ben alto e picchiava sopra le nostre teste, facendoci andare in fiamme i capelli lucenti. Entrammo dentro la foresta, lasciandoci il mondo alle spalle. Quando entravamo dentro la foresta era come se abbandonassimo le nostre vite reali, entrando in un mondo tutto nostro, al di fuori dei problemi e dalle preoccupazioni. Anche all’interno della foresta il caldo era insopportabile, ma poco male, tanto non ce ne saremo resi conto ancora per molto. Adoravamo fare il bagno nel fossato, la quale acqua era pulita e limpida. Daniele ed Andrea amavano andare a pescare, di tanto in tanto, e dopo organizzavamo una cena a casa mia, cucinando il pesce pescato, aromatizzando tutta la casa con le spezie che usava la domestica. Mio padre amava queste cene. Adorava il fatto che i miei amici venissero a trovarmi in casa, adorava le risate e il divertimento spensierato, amava i giochi che facevamo, ma più di tutto, amava me, ed io amavo lui. “Piccola, ti va di farti una nuotata?” mi chiese Daniele di punto in bianco, guardandomi intensamente. Lo guardai, leggermente sorpresa, ed a quel punto non riuscii più a mormorare nulla. La saliva sembrava essersi esaurita dentro la mia piccola bocca, ma dopo un po’ riuscii a mormorare un si strozzato. Daniele, con un’ espressione piuttosto divertita, mi sorrise e mi afferrò la mano. Ebbi un tuffo al cuore quando le mie dita sfiorarono le sue. Le guance si fecero pazzamente rosse di timidezza, e le mie gambe sembravano fatte di pastafrolla. Mi feci trascinare dal ragazzo, con i nostri due amici alle spalle. Giunti alla riva, mi tolsi il grembiule nero della scuola. Sentii un lieve imbarazzo a rimanere in canottiera e mutandine bianche di pizzo davanti ai miei amici; quell’inverno ero cambiata parecchio e le mie curve erano più delineate rispetto all’estate scorsa. Il sorriso di Daniele, però, mi incoraggiò ugualmente. Tutti e quattro entrammo dentro l’acqua fresca del fossato, che ci rinfrescava da quelle giornate così stranamente calde. Daniele mi afferrò un braccio e mi trascinò lontano. Ad un certo punto cominciammo a spruzzarci freschi getti d’acqua che ci facevano ridere in una maniera a dir poco buffa. Continuammo questo pazzo divertimento per un altro po’, finchè, stremati, ci fermammo. Ci guardammo negli occhi per qualche secondo, entrambi con il volto per metà dentro l’acqua limpida. Lo guardai intensamente, lui continuava a fissarmi con il suo sguardo azzurrino, trasmettendomi un sentimento mai provato. Ci avvicinammo pian piano, accompagnati dal gorgogliare dell’acqua e dal canto degli uccellini. “Daniele, Laura! Cosa state facendo lì isolati? Venite a giocare con noi, no?” urlò improvvisamente Emma, rompendo quel momento così meravigliosamente magico. Entrambi non fiatammo, e seguimmo i nostri due amici lasciati soli vicino la riva. “Ebbene? Che cosa stavate facendo? Si può sapere perché vi isolate?” brontolò Andrea, scrutandoci con aria a dir poco infastidita e ingelosita allo stesso momento.”Niente, stavamo solo giocando” rispose Daniele, diventando serio. Entrambi non si guardavano in faccia, tenendo un broncio orripilante. Guardai Emma: nemmeno lei sembrava aver capito cosa stesse succedendo tra i due ragazzi. “Bè, io esco dall’acqua e vado a prendere il sole” affermai imbarazzata, facendo cenno ad Emma di seguirmi. Lei annuì senza darsi spiegazioni. Avrei tanto voluto rimproverarla per averci disturbato proprio in quel momento, ma rinunciai, a cosa sarebbe servito? Faceva talmente caldo che rinunciai persino a rimettermi i vestiti, il grembiule nero poi, potete immaginare che caldo farebbe? Emma rimase in silenzio, osservando i rami degli alberi oscillare al soffio del vento. “Bè, cosa facciamo allora?” chiese dopo un po’. “Fa troppo caldo, Emma. La voglia di giocare sta fuggendo via” ammisi sbuffando. “Credo che me ne andrò a casa” annunciai. Lei rimase in silenzio, guardandosi attentamente le scarpe, e annuì. “Salutami gli altri” dissi in modo brusco. “Sarà fatto. Ci vediamo domani a scuola, che in teoria sarebbe anche l’ultimo giorno” rispose annuendo nuovamente. “Ciao Emma” la salutai prima di cominciare a correre. La mia casa distava pochissimo dal Forte, infatti non ci misi molto a ritrovarmi davanti al verde cancello. Lo aprii, e questo cigolò, dandomi il benvenuto. Percorsi il lungo vialetto di ghiaia contornato da decine di vasi di terracotta contenenti fiori di ogni genere e colore. Mi sorpresi nel non vedere mia madre in giardino, sotto le fronde del salice piangente, con una delle sue solite amiche che venivano per raccontarle gli ultimi pettegolezzi del paese. Stranamente in giardino non c’era nemmeno il nostro giardiniere, che veniva praticamente tutti i giorni ad innaffiare i nostri fiori, assetati d’acqua. Trovai tutti dentro casa, papà compreso, stranamente tornato prima dal lavoro ( affari di lavoro che non dovevano interessarmi, rispose quando glielo chiesi). Tutti, compresa l’amica di mia madre, ad ascoltare la grande radio del salotto, in ansia e in agitazione. Mi chiesi cosa c’era di tanto interessante da ascoltare, forse una nuova canzone del compositore famoso Stravinsky? Ma quello che emetteva la radio non era di certo musica, ma una voce grossa e imponente. Appena si accorsero della mia presenza alzarono lo sguardo. “Tesoro, già di ritorno?” chiese mia madre sorridendomi. “Si” risposi secca. Mio padre mi fece un cenno con la testa, poi tornò a fissare la radio e ad aguzzare le orecchie. “Cosa state ascoltando di così interessante?” chiesi stupita, notando che nessuno parve essere così interessato ad ascoltarmi. “Fa silenzio, Laura” mi ammonì mio padre con una voce severa che usava di rado. Provai ad aguzzare le orecchie anche io. “Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata (e qui il popolo cominciò ad urlare in coro “Guerra, guerra!”) agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia” questo fu quello che sentii, poi mi fermai di ascoltare. Era chiaro che quella poteva essere senz’altro la voce di una sola persona: Benito Mussolini. Sospirai, nulla di buono poteva essere annunciato da quella voce. Se si parlava di guerra, poi, peggio che mai. Uscii dal salotto, salii le scale e mi fiondai in camera a mettermi una camicetta bianca, almeno mi teneva più fresco. La mia camera era piccola, con uno spazioso letto con le fodrette bianche, la tastiera color oro e un quadro raffigurante una ragazza al di sopra di esso. Un armadio di legno, uno specchio, una porta, una finestra e un piccolo calendario riempivano i tre muri restanti. Guardai attentamente il calendario, e mi emozionai: 10 Giugno, due giorni prima del mio compleanno, il mio quindicesimo compleanno. Avremo organizzato una festa a casa mia, con tutti i miei amici e parenti. Mio padre, come ho detto prima, amava organizzare feste in casa. Uscii da camera mia, e per le scale incontrai mio fratello Riccardo. “Tutti impegnati in salotto ad ascoltare la radio, eh?” ghignai simpaticamente. “Già, volevo chiedere a papà se ci sono ancora chiodi, ma la sua risposta è stato un -Shhh, fa silenzio-” borbottò leggermente su di giri. “Come precede il modellino?” chiesi ridendo. “Sarebbe perfetto se solo qualcuno si prendesse la briga di dirmi dove sono i chiodi!” rispose cominciando ad arrossarsi in volto. “Vado a vedere se sono ancora lì” annunciai scendendo le scale. “Non aspettarti una risposta diversa dal si” disse di rimando. Infatti aveva ragione, erano ancora lì, a ciondolare dal caldo davanti alla radio. “Siediti qui, tesoro” mi invitò mia madre facendomi posto vicino a lei. “Sta ancora parlando?” chiesi infastidita dal ventaglio di mia madre che non smetteva di colpirmi l’orecchio per sbaglio. “E’ molto importante questo discorso, tesoro” rispose mia madre con voce severa. Alzai le spalle, poi ricominciai ad ascoltare :“L’Italia proletaria e Fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai (e qui il popolo urla un “siii!”). La parola d’ordine è una sola, categorica, e impegnativa per tutti” mi bloccai, stavamo veramente entrando in guerra? Ma a che scopo? A seguire quel pazzo furioso di Hitler che ci avrebbe portato tutti alla morte? “Vincere! E vinceremo!”. La folla cominciò ad urlare pazzamente, acclamando con ardore quelle parole. “Starà scherzando, spero!” esclamai alzandomi dal divano, fissando tutti. “Laura, calmati” disse mio padre. “Ci porterà tutti al massacro!” ripetei accalorandomi. “Laura, ti prego. Ora siediti e stai calma, ne riparleremo assieme” ripetè mio papà con voce calma, alzando le braccia per farmi cenno di calmarmi. “Ma..” bofonchiai. “Ti ripeto, calmati” disse con un tono poco comprensibile. Mi buttai sul divano, abbattuta. Mia madre prese a sventolarmi il ventaglio in faccia per far si che mi calmi. Questo non fece altro che infiammare nuovamente il mio sistema nervoso, ma rimasi in silenzio. Cos’avrei potuto fare in fin dei conti? Esattamente nulla, ma la guerra non è cosa su cui scherzare, la gente muore a causa sua. Mi limitai ad ascoltare le parole prorompenti del Duce, che sembravano così acclamate da un popolo talmente stupido e patriottico come gli Italiani, senza capire a cosa andavano incontro: “Popolo Italiano! Corri alle arm (popolo urlante di gioia) e dimostra la tua tenacia (ancora esulti) il tuo coraggio (tanto per cambiare, ancora urla) il tuo valore!”.
  
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