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Autore: The_Last_Change    30/12/2012    2 recensioni
Quando tutto sembra perduto, l'uomo perde di vista l'essenziale...
... e crede di non aver più nulla.
- Eccoci. Sai perché siamo qui?- e si volse verso di lui, accennando un sorriso emetico.
Quella semplice domanda, entrata nei suoi pensieri come il quesito meno importante da risolvere, iniziò a dissacrargli la testa, continuamente. Si mise una mano tra i capelli, nella speranza di riuscire ad utilizzare al meglio le meningi. Notando che le sue gambe si stavano intorpidendo, si gettò a capofitto sullo spazio erboso che campeggiava sotto i suoi piedi. Percepì la sua frescura, come se fosse ancora bagnata dalla rugiada mattiniera. E chiuse gli occhi, lasciandosi ammaliare da quel piacevole torpore. Dopo averli riaperti iniziò ad arrotolare tra le sue dita un fuscello d'erba assorto com'era nel dubbio. La ragazza era poco più avanti, al limitare di uno strapiombo che volgeva sul mare in tempesta, tumultuoso come un cavallo irrequieto che voleva solo essere libero, ragion per cui si dimenava così animatamente.
Genere: Angst, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Shawn/Shirou
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Meraviglioso...

E’vero...
 credetemi è accaduto,
di notte su di un ponte
guardando l’acqua scura
con la dannata voglia di fare un tuffo giù...


La pallida luna si erigeva mestamente nella densità della penombra notturna. Il suo chiarore cinereo era però coperto da una decina di cirri sonnacchiosi che non avevano nulla di che fare, pertanto, aspettavano tragicamente il sopraggiungere del crepuscolo, l’ora della loro morte silenziosa. L’assenza pressoché totale dell’albore selenico che distingueva il giorno dalla notte, gettava qualsiasi uomo nello sconforto, costringendolo a cercare un barlume di speranza che non sarebbe mai venuto. Ecco, questa era la pura essenza dell’oscurità, della paura, dello smarrimento più totale. Ed ora, persino il più incapace dei pittori sarebbe riuscito a cogliere per mezzo del suo pennello, unica forma di espressione assoluta nonché intermediario tra la vita terrena e quella celeste, la beltà eclettica di quello spettacolo che annegava in un mare di disperazione. E da lì a poco la sua anima avrebbe guidato la sua mano, riuscendo a riprodurre perfettamente lo scenario che gli si presentava davanti con la precisione di una macchina fotografica. Quel quadro però, era capace di trasmettere emozioni maggiori, cosa che una foto, un semplice momento di vita quotidiana rubato nello scorrere del tempo, fulgida bellezza senza fine, non sarebbe riuscito a trasmettere. Un qualsiasi comune mortale dotato di una conoscenza superficiale dell’animo umano, avrebbe tranquillamente constatato che quel meraviglioso dipinto rappresentasse un luogo buio, mal illuminato, nulla più. In realtà, quello stolto non avrebbe mai potuto immaginare che dietro a ciò, in realtà vi era un significato molto più profondo. La concezione pessimistica e frivola della vita prendeva il posto di quella ottimistica per le disgrazie più disparate. Ed accadeva per colpa dell’incommensurabile fragilità dell’essere umano. Bastava un semplice fatto luttuoso, anche la morte di un lontano parente di qualche stirpe sconosciuta, e si diventava vittima della disperazione. C’era chi lo manifestava di più e chi meno, ma alla fine, era sempre così. Shirou, quella notte, provava quelle emozioni. Si sentiva perso, come se non avesse più una ragione per vivere.
Quando si sentiva un po’malinconicamente poetico, era solito a passere le notti in bianco vagabondando senza meta, per consumarsi nel suo stesso fuoco avvilito. Nella tela della sua anima v’ era la nebbia, una fitta cortina di fumo che l’aveva allontanato dal mondo esterno, un muro che lui stesso aveva eretto per allontanarsi da tutto e da tutti. Per restare solo.
Nonostante fossero passati più di sedici anni da quel giorno nefasto, lui continuava a ricordarlo. Poteva dimenticarlo, si ripeteva ossessivamente. Eppure si dovette ricredere, gettando all’aria quegli ultimi dieci anni della sua vita trascorsi con la finta convinzione che Atsuya era ancora vivo, dentro di lui. Invece no, erano solo futili bugie che avevano costruito un solido ponte, forse, unico tramite tra lui e suo fratello. Lo stesso ponte dove lui si trovava, in quella gelida notte senza luna.
Sistemò accuratamente il cappuccio impellicciato, e mestamente, si lasciò cadere all’indietro, avendo l’accortezza di appoggiare ambedue gli zigomi sul parapetto. Chiuse gli occhi, e sospirò. Dopo averli riaperti, volse il capo verso le stelle.
Quei piccoli astri, talmente lontani da sembrare cuciti al cielo, rasentavano quella sua assidua ricerca della perfezione assoluta che era diventata la sua unica ragione di vita, un’ossessione che l’aveva portato alla pazzia.  Già, una ricerca cominciata sedici anni fa, e forse iniziata solo adesso, quando gli anni della fanciullezza erano passati sotto i suoi occhi ad una velocità spaventosa.
Sentiva che gli anni della sua vita erano andati sprecati.
La gelida brezza notturna gli immobilizzò il viso, impedendogli per qualche secondo qualsiasi movimento facciale, irrigidendosi.
E dietro il suo imperterrito sibilo sembrava si nascondesse qual cos’altro, forse una risata soffocata, quasi soppressa dall’apparente moto tranquillo di un ruscello che campeggiava sotto il ponte, ma perfettamente udibile. Tutto il mondo si faceva beffa di lui.
Mugugnò qualcosa con il tono di una persona che non voleva più avere niente a che fare con la vita, che voleva solo morire.
Si girò di scatto, cercando di trattenere le lacrime, mentre i suoi capelli andarono con lui, seguendolo in un fruscio impercettibile.
Ormai era diventato adulto, aveva imparato a trattenersi, per evitare di essere infantile agli occhi degli altri.
E invece no, non era vero.
Proprio in quel preciso istante, il ruscello proiettava la sua immagine distorta per via delle troppe gocce di quell’anima sofferente, che non aiutavano di certo a delineare un’immagine ben definita. Nonostante ciò, un’immagine andava via via a comporsi, e Shirou stette ad attendere quella sorta di miracoloso prodigio, a metà tra l’incredulità e lo stupore. Si dimenticò persino che stesse piangendo fino a qualche secondo fa. Sbarrò gli occhi.
“No, impossibile, tutta colpa della serata di ieri” pensò lui.
Ecco che l’anima arsa al suolo, debole, ritornò. E le lacrime iniziarono a rigargli il viso, più velocemente di prima.
“Dannazione, non è possibile!” gridava il suo subconscio, ostentatamente.
Aveva ragione, stava davvero sognando. Sul pelo dell’acqua, invece di vedere il suo riflesso, vedeva quello di Atsuya. Sorrideva.
Anche lui sembrava sorridere con la stessa radiosità. Aveva finalmente trovato il fratello, e il cuore gli si riempiva di gioia al solo sapere di vederlo ancora vivo. Era là, sotto il fiume. Gli occhi dorati ancora accesi, e non più spenti dalla crudeltà dello spirito della morte, quella sciarpa che gli cingeva ancora il collo, ancora candida, non macchiata dal colore del dolore, della sofferenza.
Sapeva benissimo di stare sognando, però lo rinnegava volutamente. Voleva darsi l’illusione di non essere rimasto ancora solo.
Dovevano stare insieme, fino alla fine dei tempi. Provò un’irrefrenabile voglia di slanciarci sotto quel ponte, di vivere con lui, di essere felice. Qualcosa però lo bloccò.
Perché morire proprio adesso?
Sembrava una cosa così facile, ormai non aveva più nulla da perdere. In bilico sulla ringhiera, volse gli occhi al cielo un’ultima volta. Avrebbe avuto un posticino là, in qualche angolo sperduto della volta celeste, magari insieme a suo fratello. Sarebbe diventato una stella, la perfezione. E finalmente, quella promessa sarebbe stata mantenuta. Richiuse le palpebre, ancora inumidite dal suo dolore. Non voleva vedere la sua vita nel momento in cui stava per volgere al termine. Tante volte era caduto, rialzandosi con le sue gambe, accettando il fatto che il Fato avesse vinto. Ora però era diverso.
Il Destino aveva vinto davvero, e questa volta non si sarebbe rialzato, mai più. Mise una mano sul cuore, ancora straripante di vita.
Buffo pensare che da lì a poco quel battito irrequieto si sarebbe fermato. Provava rabbia al solo dispiacere di veder frantumarsi in mille pezzi le sue ambizioni. Non avrebbe mai potuto veder spegnersi il candore dei suoi capelli, il suo viso incresparsi di rughe e farsi pesante, segno di un’esistenza giunta al termine, ma colma di avventure da raccontare. Esperienze che ora, avrebbe dovuto tenersi per sé. Avrebbe imparato a volare come gli angeli, perché ormai non aveva più niente.

D’un tratto qualcuno alle mie spalle,
forse un angelo vestito da passante
mi portò via dicendomi...
così...


Nella penombra notturna, fece capolino una ragazzina. La sua gioiosa espressione si spense nel vedere Shirou al limitare dell’altra sponda, sul punto di volersi uccidere. Fortunatamente, non fece nulla. Con un balzo degno della maestria di un felino, ritornò a terra e volse le spalle a quella ragazza, istintivamente. Con un rapido gesto delle braccia si mise il suo cappuccio, per coprire la sua incommensurabile vergogna. Gli occhi erano chiusi quasi forzatamente, in modo che intorno a lui ci fosse il buio, unico rifugio dai suoi pensieri, e, al tempo stesso, gabbia delle sue stesse paure, senza più una chiave. Le mani erano chiuse, serrate in dei pugni.
Stringeva talmente forte che dalle nocche, consunte dagli innumerevoli graffi che lui stesso si era volontariamente procurato, sgorgavano rivoli di sangue, le ferite da tempo rimarginate si riaprirono, provocandogli un dolore insopportabile. Un brivido gli percosse la schiena, facendogli tremare quelle stesse dita sporche dal sangue, e rosse per via della temperatura invivibile, tipica dell’Hokkaido. Non si rendeva conto però di starsi comportando come un bambino, perché aveva paura. Paura di essere preso in giro per le sue lacrime nonostante i suoi ventitré anni, paura di mostrare il suo animo fragile. Eppure non lo nascondeva a se stesso, era cosciente dei suoi limiti, e senza Atsuya, non sarebbe mai riuscito a superarli. Senza di lui non era nessuno. Era diventato adulto ormai, ma dentro di sé vi era ancora la voglia di rimanere bambino, di non conoscere il significato di parole orribili come solitudine o disperazione. Perché nell’età della fanciullezza, ne rinnegava il significato. Ecco, era quello il motivo del suo tentato suicidio.
La vita gli aveva tolto tutto, non aveva più niente. O almeno sì, una cosa ce l’aveva, ed era sempre accanto a lui: la depressione.
E da lì a poco era iniziato l’autolesionismo e l’abuso eccessivo di antidolorifici. Le cicatrici sulle braccia e i suoi episodi disturbi bipolari spesso frequenti, ne erano la prova. E tutto questo allo scopo di trovare un senso nella vita.
Aprì lentamente una palpebra, poi l’altra. Ebbe un leggero spavento nel vedere che davanti a lui, due occhi strabuzzanti lo fissavano con uno sguardo a dir poco penetrante. Nel mezzo tra lo stupore e lo spavento, il suo viso assunse un’espressione che pareva essere un incrocio dei due. Una delle sue sopracciglia si increspò al tal punto da irrigidirsi, mentre l'altra si inarcò, mostrando esplicitamente la sua perplessità. Le labbra erano chiuse, serrate, nel tentativo di eludere qualsiasi espressione fuori luogo. Nel' aspettare una reazione da parte della bambina, non si mosse. Il suo silenzio inquietante lo turbava molto. Tese la sua mano verso di lui. Shirou esitò, titubante. Non era in grado di fidarsi degli sconosciuti, neanche se la persona in questione sarebbe dovuta essere un'ingenua fanciulla che non avrebbe potuto torcergli un capello. 
- Vieni con me, voglio mostrarti una cosa!- disse lei, con una vocina così gracile da far breccia nel suo cuore, facendogli emettere un bizzarro mormorio compiaciuto.
Sorrise, e la bambina, estasiata, iniziò a correre con una velocità tale da dover costringere Shirou a lasciarsi far trascinare da lei. Ed era davvero ammirevole la sua forza, capace di portare un peso che andava ben oltre la sua portata. Il paesaggio rurale correva veloce, era pressoché impossibile riuscire a delinearne i contorni. Nonostante le avesse dato fiducia era ugualmente perplesso. Non aveva idea di dove lo stesse portando, e dato che si trattava di una sconosciuta comparsa quasi magicamente, ci si poteva aspettare l'impensabile. Ad un tratto, si fermò di colpo. Semplice constatare che fossero arrivati.
Difatti, mormorò:
- Eccoci. Sai perché siamo qui?- e si volse verso di lui, accennando un sorriso emetico.
Quella semplice domanda, entrata nei suoi pensieri come il quesito meno importante da risolvere, iniziò a dissacrargli la testa, continuamente. Si mise una mano tra i capelli, nella speranza di riuscire ad utilizzare al meglio le meningi. Notando che le sue gambe si stavano intorpidendo, si gettò a capofitto sullo spazio erboso che campeggiava sotto i suoi piedi. Percepì la sua frescura, come se fosse ancora bagnata dalla rugiada mattiniera. E chiuse gli occhi, lasciandosi ammaliare da quel piacevole torpore. Dopo averli riaperti iniziò ad arrotolare tra le sue dita un fuscello d'erba assorto com'era nel dubbio. La ragazza era poco più avanti, al limitare di uno strapiombo che volgeva sul mare in tempesta, tumultuoso come un cavallo irrequieto che voleva solo essere libero, ragion per cui si dimenava così animatamente. Il vento passava tra i suoi capelli con un dolce sibilo, per poi innalzarli. Anche gli scogli, muti e solenni, si lasciavano trascinare da quella dolce composizione musicale che la brezza marina aveva ideato solo per loro. I gabbiani, sul pelo dell'acqua, intonavano il loro ultimo inno d'amore prima del sopraggiungere del crepuscolo, che sarebbe arrivato a momenti. Davanti a lui si stava manifestando uno spettacolo sensazionale, un quadro dipinto sagacemente da madre natura, inimitabile per il suo splendore. Eppure, non capiva il senso di tutto ciò, giacché la sua anima aveva perso la capacità di guardare nelle piccole cose.

Meraviglioso...
Tu dici non ho niente, ti sembra niente il sole?
La vita, l’amore...

- Non pensi che tutto ciò sia meraviglioso?- mormorò lei.
Aggrottò la fronte, perplesso. Non capiva. Davanti a lui, vi era una situazione pressoché quotidiana, che avveniva ogniqualvolta che la notte perdesse la strenua lotta con il giorno, e vinta dalla stanchezza, sparisse nell'immensità del mare azzurro. Ed ecco che il sole, trionfante, si svegliava dal suo sonno profondo e si elevava sopra la volta celeste, irraggiando il paesaggio circostante, mentre gli usignoli annunciavano l'arrivare del giorno. Apparentemente, era un semplice avvenimento di tutti i giorni, nulla più. Eppure, allo stesso tempo era un regalo donatogli dal Massimo Fattore, dono che non riusciva ad apprezzare per via della sua limitata capacità d'osservazione. 
- Guarda... non trovi sia meraviglioso? L'uomo non comprende tutto ciò... perché cerca ancora un rimedio per porre fine al suo dolore- biascicò la ragazza.
Ora, il suo sguardo pareva essersi sbiadito, d’un tratto era diventato insostenibile per le sue stesse membra. Le labbra ricaddero sulla mascella, e le sopracciglia, smorte si lasciavano abbandonare al loro destino. Gli occhi, spenti, erano diventati talmente opachi che non si riuscivano a distinguere le sue meravigliose sfumature azzurrine. Aveva detto un'amara verità ma, purtroppo, tremendamente giusta. Secolo dopo secolo, l'uomo lentamente si avvalse delle cose più futili, dimenticando tutte le cose donatogli dal mondo, che era tutto ciò che un essere vivente poteva avere di veramente essenziale. Ed ecco che, immancabilmente, spostò lo sguardo sulle sue scarpe. Anche se quella bambina non si era riferita a lui, si sentiva come se fosse stato appena processato, e lui fosse colpevole, indirettamente.
Era soggiogato in una gabbia di metallo, robusta e senza chiave, perché non aveva serrature. Impossibile uscirne, lui stesso vi si era chiuso dentro per difendersi dal suo dolore. Era vittima di una sofferenza destinata a non avere fine. Alzò mestamente gli occhi al cielo, e mogio, mormorò:
- Certe volte mi sembra che l'uomo sia stato concepito solo per soffrire...- non appena finì la frase, chiuse le palpebre e ricadde all'indietro, quando il suo capo fece contatto con il suolo, andò incontro ad un piccolo spiazzo di soffioni e, non appena avvenne il contatto, migliaia di spore si librarono in aria,
danzando non più in là del suo naso. Sbuffò, e uno di quei soffici batuffoli non dissimili dal cotone si posò sotto la palpebra sinistra, causandogli non poco fastidio. Non appena lei vide quella scena, fece un risolino compiaciuto prima che la sua volontà riuscisse a fermarlo. Istintivamente, si portò le mani alla bocca, vergognandosi dell'azione compiuta. Lui non si offese, non era il tipo da offendersi per così poco. La ragazzina, contenta per la sua reazione inoffensiva, si sedette sulle sue ginocchia, e con un soffio, liberò Shirou da quell'incombente fastidio. 
- Anche le cose più piccole possono soffrire. Vedi i resti di quel dente di leone sui tuoi capelli? Se non lo avessi sradicato dal terreno, sarebbe potuto morire-.
Alzò le pupille, e vide un piccolo germoglio di tarassaco che lentamente stava prendendo la sua strada. Non si preoccupava degli ostacoli che avrebbe potuto incontrare sul suo cammino, l'unico pensiero che balenava nella sua mente era quello di portare al termine la sua missione, la sua unica ragione di vita. Avrebbe si incontrato difficoltà, ma avrebbe ricominciato a volare, senza rimpianti. Anche il suo dolore sarebbe servito, un giorno.
- Forse avevi ragione. Ma l'uomo è stato creato anche con una propria volontà. Può trasformare il suo dolore in qualcosa di meraviglioso-.
Non ci aveva mai pensato. Per lui la sofferenza era un'emozione orribile, lo stato puro della perdizione. Da tempo aveva spento il barlume della speranza ed era pienamente convinto del fatto che non avrebbe più ritrovato la felicità. In verità, non ci aveva mai provato in tutta la sua vita, ragion per cui ora si sentiva uno stupido. D'ora in poi però, non avrebbe più perso tempo. Avrebbe cercato il meglio nelle piccole cose, perché tutto poteva diventare meraviglioso. Sentì un abbraccio sfuggevole, due braccia che gli cinsero la vita, e il calore. Sì, quel calore che non sentiva da tempo, quel calore che percepiva quando, assonnato si addormentava tra le braccia di sua madre. Confortante e rassicurante, l’amore. Con quella testa che stringeva contro il suo stomaco, quasi aggressivamente per la rabbia e il dolore di dover lasciare una persona cara, che diventata un momento importante per la sua vita, una lacrima, fugace, gli rigò il viso. Si mise in ginocchio, abbastanza in basso per riuscire a vedere il viso della bambina sfigurato dalle lacrime, che solcavano le sue guancie come lava incandescente. E bruciavano, anche. Bruciavano di dolore. A quella scena, Shirou si trovava del tutto impreparato, odiava gli addii. Che parola orribile, non vedersi più con una persona doverla cancellare dalla propria vita, perderla. E lui sapeva quanto facesse male.
- Ci rivedremo. Magari più in là, quando non mi potrò più reggere in piedi, e avrò ancora bisogno di aiuto. Poi, in letto di morte, la mia ultima parola sarà....
- Meraviglioso, Shirou, meraviglioso... - finì lei.
Già, il sapore di una vita rinata.

La notte era finita
e ti sentivo ancora
l’amore della vita...
Meraviglioso...
 

*Angolino di tutte le meraviglie del mondo (?)*
Ok, non so come ho fatto a partorire sta'cosa in due settimane, non se nemmeno se definirla songfic...
E'anche cortissima.
Oh, beh, la ragazzina che incontra Shirou, non viene descritta fisicamente perché non c'è n'è bisogno.
Spero vi piaccia...

   
 
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