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Autore: Giuls_x    30/12/2012    1 recensioni
Eccomi qui pronta per un altra storia. Questa volta sarà una long-fic, ambientata più o meno quattro anni dopo il diploma dei ragazzi. La storia è vissuta da Quinn in prima persona e girerà intorno al suo rapporto travagliato con Puck, all'amore per sua figlia, alle sue prospettive sul futuro. Non amncheranno ovviamente gli altri personaggi :) Non mi dilungo, buona lettura :)
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Noah Puckerman/Puck, Quinn Fabray, Rachel Berry | Coppie: Puck/Quinn
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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“This is a man’s world”
Sobbalzai e diedi una testata contro al finestrino. Puck rise sotto i baffi, ma il suo sguardo era inquieto.
“This is a man’s world”
-Non è divertente !- Sbuffai, e mi massaggiai le tempie.
“But it wouldn’t be nothing, noth…”
-Vuoi cambiare stazione radio ?!- Non lo aspettai e la spensi direttamente. Non si oppose. Avevo cantato quella canzone al Glee Club, quando ancora aspettavo Beth. Quando avevo cominciato a sentire che enorme impatto avrebbe avuto nella mia vita. Girai la testa lentamente. Santana e Brittany dormivano aggrovigliate tra loro. Avevano insistito per “salutare il signor Fabray”. Brittany in particolare, le era grata perché ogni volta che veniva a casa nostra, le concedeva sempre qualche zolletta di zucchero da mangiucchiare, dopo il tè. Io per cosa le ero grata ? Per non avermi permesso di rifarmi il naso a 14 anni ? Per avermi appeso un santino al collo appena nata ? No, forse per avermi cacciata di casa. Avevo parlato molto con Rachel su questo argomento. Lei spesso mi ripeteva “E’ pur sempre tuo padre”. Ed aveva ragione. Avrei voluto andare da sola ma, dopo il mio incidente e, peggio, dopo l’incidente di Beth, utilizzavo la macchina solo in caso di emergenza. Anche Noah era diventato prudente nel guidare, sembrava un soldatino. Dopo un’altra mezzoretta, arrivammo davanti alla clinica privata al confine tra Ohio e Pennsylvania in cui era ricoverato mio padre da più di un anno, ormai. Ignoravo anche il nome della malattia, che figlia modello. Mi misi a capo del gruppetto, chiesi per la stanza e, quando ci arrivai davanti, esitai qualche minuto. Puck mi accarezzò il braccio:- Vuoi ancora farlo ? Sai che non me ne vedo mezza di portarti via.-
-No, va bene.- Guardai lui, poi le mie amiche. Mi feci coraggio e bussai.
-Avanti.- Mi si strinse lo stomaco. Da quanto non sentivo la sua voce ? Sei anni ? Spinsi la porta e feci capolino lentamente. Non ebbi il coraggio di guardarlo negli occhi per un po’. Il silenzio invadeva la stanza. Mi decisi ad alzare lo sguardo. Spalancai gli occhi. Era… Invecchiato. Dimagrito. Rovinato. Mi fissava stupito, evidentemente non si aspettava la mia visita. Visto che la sua bocca era spalancata da qualche minuto ormai e non aveva ancora emesso alcun suono, parlai io.
-Ciao papà.- Sussurrai, tenendomi sempre a debita distanza dal suo letto.
-Figlia mia…- Mi mangiava con gli occhi. –Sei… Cambiata.-
-Grazie, papà- Il mio tono era ironico. Ero molto più magra, i capelli erano più lunghi rispetto a come li portavo al liceo e legati in una morbida coda. Il trucco era un po’ più pesante, più maturo. Ma sapevo che non intendeva quello. La mia espressione era cambiata.
-Avvicinati.- Sembrava stralunato. Obbedii e mi trascinai vicino al letto.
-Ti… Trovo bene.- Il mio tono era ancora ironico.
-Ti pare giusto scherzare in un momento del genere ? Che ne hai fatto di mia figlia, Quinn ?-
-E’ morta,- alzai un sopracciglio, -con sua figlia. Sotto una macchina, poco più di un mese fa.- Strabuzzò gli occhi.
-Spero tu stia scherzando.- Mi morsi il labbro, stavo cominciando ad irritarmi.
-Perché scherzare su una cosa simile ?- La mia voce era un sibilo. –Io ci tenevo, a mia figlia.-
-Io ci tenevo a te, Lucy Quinn Fabray ! Mi hai delusa, non ho avuto scelta ! Suppongo che questa non sia una visita di cortesia, vero ?-
-Ah, non hai avuto scelta ? Tenermi a casa non era una scelta ? No, ho girato per mesi come una barbona, chiedendo un tetto a destra e a manca. Dio non insegna il perdono ? Hai ragione, non è una visita di cortesia, è una visita di addio. Non… Non sei cambiato, per niente.-
Esitò per qualche istante. –Si, Quinn. Dio insegna il perdono. E, dopo tanti anni, non pensi che dovresti concedere il tuo perdono a questo povero vecchio malato ?-
-Perché una persona perdoni, dev’esserci del pentimento da parte del destinatario.- Parlavo a denti stretti, visibilmente irritata, con le mani che tremavano. Dal… Fatto di Beth, facevo più fatica a controllare i miei sentimenti: poteva capitare che esplodessi in momenti poco opportuni, come in coda alla cassa del supermercato, o durante gli incontri dell’ex Glee Club. Ma, in quel momento, non potevo permettermi di esplodere, per cui mi sforzavo di mantenere un tono di voce grave. –Io mi pentii, a mio tempo. Mi tormentavo tutte le notti invece di dormire, pregavo assiduamente di ottenere la vostra comprensione, arrivai anche a desiderare di perdere la bambina. Ed è successo.- La voce cominciò a tremare e sentii gli occhi inumidirsi. –Ma tu… Sei davvero pentito ? Te n’è mai importato qualcosa ? Anzi, sarai contento: la ragione della vergogna della nostra famiglia non c’è più. E’ morta, papà !- Evidentemente la mia voce aumentò di qualche tono, perché Noah seguito da Brittany e Santana fece capolino dalla porta.
-Tutto apposto ?- Chiese, leggevo la preoccupazione nei suoi occhi. Guardai mio padre un’ultima volta. Continuava a spostare lo sguardo da me ai miei amici, lentamente, gravemente. Non una parola uscì dalla sua bocca. Forse non gliene diedi neanche il tempo.
-Si, tutto apposto. Ho… Fatto quello che dovevo fare.- Mi asciugai velocemente gli occhi. –Addio, Russel Fabray.- Mi precipitai fuori dalla stanza senza aspettare una sua risposta, seguita a ruota da Noah. Corsi fuori dalla clinica, lui mi raggiunse e afferrò il mio braccio. Scoppiai a piangere così, col viso scoperto, davanti a tutti, finalmente liberata di un peso. –E’ fatta- sussurrai, prima di girarmi verso il mio fidanzato. –E’ fatta !- Ripetei a voce più alta, accennando un sorriso. Per anni, la malattia di mio padre mi aveva inseguita come uno spettro. Rifiutandomi di fargli visita, avevo soltanto rimandato un’azione che comunque sapevo avrei dovuto svolgere. La morte di mia figlia non mi aveva resa più clemente verso di lui. Evidentemente, l’incombenza della morte non aveva reso lui più magnanimo. E andava bene così. Ero libera. Afferrai la testa di Puck con entrambe le mani e lo baciai intensamente, come non facevo da mesi. Rimanemmo allacciati per qualche minuto, in quell’attimo perfetto di serenità. Fummo interrotti da un applauso generale, molto probabilmente fatto partire da quella svampita di Britt, che era quasi commossa. Siccome l’idea di tenermi a distanza di sicurezza da lui per diverse ore mi faceva venire i brividi, decidemmo di far guidare Santana che, ogni tanto, alzava la musica al massimo facendoci sobbalzare mentre noi, abbracciati, ci coccolavamo tranquilli sui sedili posteriori. Quello era il prezzo da pagare, ma ne valeva la pena.
  
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