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Autore: acetylcholine    30/12/2012    3 recensioni
Belle è attanagliata da degli strani incubi da circa tre mesi e inizia a pensare di aver perso la ragione quando grazie alla sua amica Tessha scopre che in realtà non è affatto così.
Lei e la fanciulla nel castello nero sono la stessa persona che scappano dallo stesso demone bianco. Per dodici anni, per dodici secoli, per dodici vite.
Muoveva le mani in tutte le direzioni cercando le pareti che avrebbero potuto darle modo di capire quanto grande fosse la stanza in cui si trovava.
Nonostante le sue mani non riuscissero a toccare niente lei sentiva di trovarsi in un posto angusto privo di ossigeno.
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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The Twelfth Hour

 

JPnzK
 

«Tu sarai mia o di nessun altro!»
Le urla le riempivano la testa, la confondevano, la divoravano dall’interno e la facevano incespicare sulle piastrelle lisce e nere del lungo corridoio.
Non esisteva luce in quel luogo di perdizione, c’era solo la notte perpetua ed i demoni che l’abitavano.
La mano gelida di Lèkythos la raggiunse chiudendosi sul suo polso facendole perdere l’equilibrio. Cadde in terra e sentì il contatto con le mattonelle fredde sul viso. Il freddo la avvolse propagandosi su tutto il corpo insinuandosi anche nelle ossa, nei muscoli, negli organi interni, in ogni fibra del suo corpo.
Si ritrovò a fissare per l’ennesima volta quei suoi occhi grigi, vuoti e gelidi come l’inverno stesso.
Un sorriso amaro si disegnò sul viso cinereo di lui mentre i capelli, bianchi come la neve, gli scendevano sulle guance.
«Quando imparerai che non devi scappare via da me?»
L’unghia lunga e biancastra di lui si fece spazio sul suo volto e con lentezza esasperante le graffiò la guancia sinistra strappandole un urlo di dolore.
 
Balzò a sedere sul letto col fiato corto ed il cuore che le martellava nel petto. L’ultima cosa che ricordava era il sangue caldo che le scorreva lentamente lungo una guancia ed il suo urlo che riempiva il silenzio opprimente dell’oscurità.
Si toccò istintivamente la guancia sinistra e constatò con sollievo che era stato solo un sogno. L’ennesimo sogno.
Rabbrividì pensando agli occhi grigi di quel demone, al suo tocco gelato, alla sua risata profonda ed angosciante.
Erano mesi che sognava del castello nero, di Lèkythos, della sua prigionia e di come finiva sempre col fallire quando provava a scappare.
Non aveva mai fatto un sogno tanto reale prima. Rabbrividì ancora e sospirando si convinse ad uscire dalle lenzuola.
Sbirciò la sveglia con ansia, come faceva da un po’ di tempo a quella parte, e constatò esasperata che erano le 5.25 del mattino. Come tutte le mattine degli ultimi mesi.
Si prese la testa fra le mani con l’infinita voglia di sbatterla contro un muro fino a perdere i sensi.
Aveva parlato persino con sua madre degli strambi sogni che la perseguitavano ma lei non vi aveva dato troppo peso, come ogni persona sana di mente avrebbe fatto, e lei alla fine si era arresa all’evidenza che stesse perdendo la ragione.
Cinque giorni prima, esasperata, aveva finito per parlarne con Tessha, la sua migliore amica, e lei, come c’era d’aspettarsi, le era scoppiata a ridere in faccia.
La frustrazione l’aveva avvinta ed in un accesso d’ira aveva finito per aggredire la povera e ragionevole Tessha.
Aveva già rinunciato alla sua sanità mentale quando, due giorni prima, Tessha aveva assistito a qualcosa di incredibile ed aveva iniziato a credere che dietro quei sogni ci fosse dietro qualcos’altro.
Lei, dal canto suo, di tutto quello che le aveva raccontato Tessha non ricordava assolutamente niente e spesso si domandava se non fosse solo uno scherzo un po’ crudele.
Secondo la sua migliore amica lei aveva avuto uno scambio d’identità, o di corpi, o d’anima o quel che cavolo era e lei non sapeva se prenderla sul serio o meno.
Fino a quando nessuno le aveva creduto era stato facile andare avanti, anche se frustrante, e dubitare della propria sanità mentale ma a quel punto o si trattava di uno scherzo o doveva essere la verità.
Una volta eliminato l’impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità.
Sorrise alzando gli occhi al cielo mentre la famosa citazione di Sherlock Holmes le attraversava la mente sussurrata dalla voce dell’affascinante Benedict Cumberbatch.
-Belle, ma mi stai ascoltando?
Sbatté un paio di volte le palpebre e si rese conto di essere in classe nel bel mezzo della pausa tra un’ora e l’altra.
-Sì, scusa Tessha.
-Stavi sognando di … lui?
Aggrottò le sopracciglia e ci mise qualche secondo a capire che si riferiva a Lèkythos ed il suo castello di ombre.
-Te l’ho già detto che non funziona così … - sussurrò sentendo improvvisamente un brivido percorrerle la schiena mentre gli occhi grigi di lui si piantavano, nella sua mente, nei suoi.
-Non funzionava così, prima! Ma ora non lo sappiamo più!- sussurrò di rimando Tessha sempre più agitata.
Alzò nuovamente gli occhi al cielo e sospirò pesantemente. Le faceva male la testa, aveva bisogno di riposo, di una sana dormita priva di incubi, corridoi neri, urla e demoni che la inseguivano.
-Non ti fidi di me, vero?- squittì improvvisamente Tessha incrociando le braccia al petto – Pensi che ti stia prendendo in giro?!
-Oh andiamo Tess, cosa penseresti tu?!- sbottò Belle massaggiandosi la tempia sinistra con lentezza cercando di analizzare ancora una volta tutto quello che lei le aveva detto.
-Mi dispiace che tu abbia una così bassa opinione di me.-sibilò di rimando Tess e prima che lei potesse solo pensare di risponderle lei si alzò impettita ed uscì dalla classe con il broncio.
Sospirò ancora e sprofondò la testa fra le braccia, esasperata.
 
Le mancava l’aria mentre le sembrava che il buio si facesse più intenso di secondo in secondo. Riusciva quasi a percepirne l’essenza mentre le entrava nei polmoni soffocandola.
Muoveva le mani in tutte le direzioni cercando le pareti che avrebbero potuto darle modo di capire quanto grande fosse la stanza in cui si trovava.
Nonostante le sue mani non riuscissero a toccare niente lei sentiva di trovarsi in un posto angusto privo di ossigeno.
Sentì improvvisamente qualcosa colarle sul viso ed urlò inorridita prima di rendersi conto che erano solo le sue lacrime che scorrevano impietosamente sulle sue guance.
 
-Belle, Belle rispondimi … BELLE!
Fu l’urlo di Tessha a svegliarla e quando aprì gli occhi si ritrovo con gli occhi di tutti i suoi compagni di classe puntati addosso.
Si tirò su a sedere e ci mise qualche secondo a capire quanto era successo: si era addormentata in classe ed il suo sogno era tornato a tormentarla.
Sentiva un rantolo incessante riempire il silenzio e si stupì constatando che era il suo respiro agitato.
Si portò una mano alla testa e la trovò madida di sudore. I suoi sogni stavano diventando sempre più reali, sempre più angoscianti e dolorosi.
Lo sguardo preoccupato di Tessha la riportò definitivamente alla realtà.
-Sto bene- sussurrò con un filo di voce mentre cercava di alzarsi.
Si stupì nel constatare che le tremavano le gambe e che riusciva a stento a stare in piedi, come se non si muovesse da giorni. Come nel sogno. Chiusa per ore interminabili nella stanza buia priva di stimoli esterni.
Le mancò nuovamente l’aria e fu costretta a sedersi sulla sedia cercando di dare un ordine ai tasselli del puzzle che aveva.
I suoi occhi saettarono improvvisamente sull’orologio e trasalì quando notò che erano le 14.25 del pomeriggio.
Fu in quell’istante esatto che capì che l’orario non c’entrava assolutamente nulla con i suoi sogni.
Lei era la numero dodici.
 
Due giorni prima Tess aveva trovato Belle, dopo averla cercata per tutta la scuola, nel bagno delle ragazze priva di sensi.
Allo stupore si era aggiunta poi la paura e l’aveva raggiunta per accertarsi che stava bene.
Aveva chiamato il suo nome più di una volta, l’aveva scossa, schiaffeggiata, rinfrescata con dell’acqua fredda e, quando stava per correre a chiamare aiuto, lei aveva semplicemente aperto gli occhi.
Si era gettata su di lei, le aveva stretto i gomiti con le mani e l’aveva fissata con i suoi occhi nocciola.
-Aiutami!
Tess era rimasta intontita da quella richiesta laconica e ci aveva messo qualche istante a capire cosa le venisse chiesto.
-A fare cosa Belle? Ti senti bene? Che cavolo è successo?!- squittì cercando di liberarsi dalla sua presa.
-Belle?- chiese lei inclinando la testa di lato mentre il suo respiro si faceva sempre più irregolare.
-Hai sbattuto la testa?!- chiese ancora mentre l’ansia tornava ad attorcigliarle lo stomaco.
-Il mio nome è Anna - rispose quella, sommessamente.
I suoi occhi si riempirono di lacrime ed un forte tremore prese possesso del suo corpo.
-Ti prego aiutami!- urlò Belle aumentando la pressione della sua stretta.
-Mi fai male, Belle
-…E’ qui…- sussurrò improvvisamente lasciandola andare, le lacrime le rigarono il volto e proruppe in un urlo angosciante e straziante prima di ricadere nuovamente in terra, priva di sensi.
 
Dell’accaduto Belle non ricordava assolutamente niente, sapeva solo di essersi ritrovata nel mezzo del bagno con Tess che la stringeva contro il suo petto chiamando il suo nome.
Prima di quella mattina non aveva badato troppo all’episodio ma tutto cominciava improvvisamente a combaciare.
Dodici era il numero della stanza di deprivazione sensoriale nel castello nero.
Dodici era il suo numero, quello che le avevano marchiato contro la schiena come fosse una mucca.
Dodici era Anna. Cinquecentoventicinque era lei, Belle.
Cinque, due, cinque. Dodici.
Anna era Belle e Belle era Anna. Due facce della stessa medaglia.
Osservò la sua immagine riflessa nello specchio, i capelli lunghi e ramati, gli occhi nocciola, la pelle del viso liscio e bianca come se non dormisse da mesi.
Sfiorò la superficie dello specchio e trasalì. Cosa vedeva Anna quando guardava allo specchio? Cosa sentiva sotto le dita quando lo toccava.
-Dodici- sussurrò.
Il cuore le precipitò nel petto quando la vide. I capelli scompigliati, rossi come i suoi, gli occhi nocciola spalancati e terrorizzati. La bocca aperta per chiedere aiuto senza che nessun suono riuscisse ad uscire. E le mani cineree di lui strette sul suo collo.
«Tu sarai mia o di nessun altro!»
Boccheggiò e riuscì a scorgere gli occhi gelidi di lui mentre il suo viso si avvicinava allo specchio.
Le mani cineree strinsero più forte sul collo di Anna e lei sentì il fiato mancarle.
Poi lui la vide. Riuscì a vedersi nei suoi occhi.
Le sue labbra si incurvarono in un’espressione divertita.
-Belle- sussurrò.
Chiuse gli occhi con forza cercando di ricacciare quell’immagine indietro, cercando di convincersi che fosse solo un sogno e poi tutto divenne buio.
 
«Smettila di correre o ti farai male!» la voce della madre la raggiunse lontana mentre si perdeva fra gli alti fiori gialli del giardino.
«Annabelle!» il suo nome risuonò nello spazio attorno provocandole una fitta di panico all’altezza del petto.
Arrestò immediatamente la sua corsa e si voltò verso la figura imponente di suo padre.
«Questo non è il comportamento adatto ad una futura regina!» ringhiò nuovamente lui avvicinandosi a grandi falcate.
Chiuse gli occhi aspettandosi da un momento all’altro un sonoro schiaffo.
Aspettò qualche secondo e poi aprì incerta un occhio spiando la figura di suo padre.
«Hai 12 anni, Annabelle. Devi imparare a comportarti bene» aggiunse con voce più calma e docile il suo gigantesco padre.
Sorrise e gli gettò le braccia al collo strofinando il viso sulla sua lunga barba riccia, bionda e morbida.
Quella mattina, al cospetto del consiglio di Harava’el, si comportò come una perfetta principessa, stando al suo posto con aria composta, ascoltando con attenzione tutti i discorsi tra i cavalieri e suo padre, il Re, e non si intromise mai né sbadigliò o lasciò la stanza presa dalla noia.
Era il suo regalo speciale per il suo papà. Era il giorno del suo compleanno.
Aveva ormai 12 anni e sapeva che presto sarebbe stata oggetto di corte dei Principi e dei Re di tutto il Regno.
Era ormai sera e la sua festa di compleanno stava per giungere a termine quando una strana sensazione alla bocca dello stomaco la invase.
Sentì improvvisamente l’aria mancarle e stava per accasciarsi in terra quando le porte della sala da ballo si spalancarono sbattendo violentemente contro il muro.
Una figura incredibilmente aggraziata uscì dall’oscurità abbaiando tutto i presenti.
La sua figura era slanciata e magra, la pelle cinerea ed i capelli così bianchi da sembrare fatti di neve. Aveva degli occhi vacui e grigi come il cielo in tempesta.
La stanza iniziò improvvisamente a divenire più fredda e le sembrò che il gelo le se stesse attaccando addosso trasportandola verso l’oblio.
«Il mio nome è Lèkythos e vengo a reclamare l’anima di vostra figlia» sussurrò pacatamente la figura rivolgendo lo sguardo a mio padre.
L’uomo di ghiaccio, il grande inverno. Quel nome era centro di miliardi di leggende che avevano costellato l’adolescenza di ogni bambino e bambina di Harava’el e suscitò in lei un lungo brivido lungo la sua spina dorsale.
«L’anima di mia figlia appartiene solo a lei» ringhiò suo padre sfoderando immediatamente la spada.
La risata cristallina del bianco demonio riempì la stanza.
«L’anima di vostra figlia appartiene a me, Sire» disse con tono affettato «O avete forse dimenticato il patto che avete stretto dodici anni fa?»
Suo padre si irrigidì immediatamente e sua madre si afflosciò sul suo trono coprendosi le labbra con le mani.
«E’ mia» ripeté il giovane uomo con un mezzo sorriso dipinto sul volto.
«Che patto?» sussurrò con voce tremante.
«Voi siete frutto della mia magia, mia dolce Annabelle, e per questo mi appartenete» i suoi occhi si fissarono in quelli di lei «Per sempre» aggiunse, raggelandola.
Lei, frutto della magia?
«Tua madre non poteva avere figlia Annabelle» sussurrò suo padre con aria colpevole mentre la sua spada si abbassava lentamente verso terra.
Pensava che avrebbe almeno provato a combattere per lei ma non lo fece. Sapeva già di non poter combattere il grande inverno.
Quello fu l’ultimo giorno che Annabelle vide Harava’el ed il suo campo di fiori gialli.
Da quella notte esistette solo l’oscurità, il nero denso ed impenetrabile, il bianco accecante della figura di lui, e la paura costante.
Dodici era l’unica cosa che sapeva di essere.
Dodici, ed il suo nome: Anna. Era come la chiamava lui. Anna.
E dodici era il nome sulla sua porta.
Sapeva che ce n’erano altre undici, o ce n’erano state prima di lei, rinchiuse in quell’agonia senza forma e senza speranza. A volte le urla strazianti di qualcuno raggiungeva le sue orecchie facendola rabbrividire.
Le spose di Lèkythos i suoi oggetti di proprietà e vanto.
Le amanti del grande inverno.
 
Cinque, due, cinque.
Aprì gli occhi e si ritrovò a fissare il soffitto bianco, quasi accecante, della sua camera.
Si strinse fra le braccia e chiuse nuovamente gli occhi cercando di capire se quel corpo fosse vero.
Si sentiva ora come vapore sotto sembianze umane e sapeva che quel mondo non le apparteneva.
La sua anima era stata spezzata in due, irrimediabilmente compromessa.
Il suo corpo non era più il suo, spedito in esilio in una terra lontana fatta di luce e di poche ombre.
L’altra sua metà, il suo vero corpo, era rimasto nella sua prigione di notte eterna. Anna. Belle.
Tutti quei finti ricordi, la vita che si era costruita negli ultimi quattro anni. Solo finzione.
Perché proprio quel momento? Perché solo negli ultimi mesi? Perché era improvvisamente nuovamente Anna, perché la sua mente si attaccava con forza a quel numero?
Rabbrividì.
«La tua anima sarà la mia, Anna. Per dodici anni sarai solo mia. E combatterai, e cadrai. E saranno altri dodici secoli. E combatterai, e cadrai, Belle. Per dodici vite non sarai più Annabelle ma solo Anna e solo Belle. E poi sarai ancora mia, per sempre. Annabelle.»
Quattro anni. Quattro anni mortali e dodici vite d’agonia nel castello delle ombre.
La sua anima strappata, violentata, torturata e ridotta in polvere.
Era morta e rinata dodici volte, aveva combattuto e perso già due volte. Era stata Anna. Era stata Belle. Ed ora, cos’era ora?
Dodici, pensò Anna.
Cinque, due, cinque, pensò Belle.
L’urlo ruppe il silenzio con violenza mentre la sua anima veniva sballottata dentro qualcosa di solido e sconosciuto e tremante.
Ciao Belle, sussurrò Anna con gli occhi spalancati e le lacrime che le bagnavano il viso senza pietà.
Ciao Anna, sussurrò senza fiato Belle.
Le loro mani si intrecciarono, la luce le invase in un unico istante. Il calore le bruciò la carne strappandole un altro urlo di dolore. E rinacque dalle fiamme, nel bel mezzo delle tenebre.
Annabelle, la principessa di Harava’el.
-Bentornata.- la voce di lui la raggiunse, vellutata e vagamente divertita.
-Lèkythos- sussurrò sentendo il fuoco scorrerle nelle vene.
-La figlia del fuoco di Valky’ra- sussurrò inclinando la testa di lato.
L’aveva tenuta lontana per dodici vite dalla sua terra, l’aveva rinchiusa in un palazzo senza luce, senza neanche il più piccolo barlume che avrebbe potuto ricordarle che il sangue che le scorreva dentro era sangue di drago. Sangue di Valky’ra.
-Sei mia da sempre, lo sarai per sempre- aggiunse lui con voce affettata e vagamente divertita.
Per tutti gli anni che l’oscurità l’aveva avvolta, per tutte le volte che aveva dubitato della sua sanità mentale, per tutte le volte che aveva urlato, sofferto, pianto, per tutto il tempo passato senza una parte di se stessa lei si sarebbe battuta. A costo di perdere per altri dodici vite.
Il fuoco la invase improvvisamente annebbiandole la vista, prendendo possesso del suo corpo.
Era certa che sarebbe esplosa ma ne sarebbe valsa la pena se avesse significato portare l’anima di lui con sé, ammesso che ne avesse una.
Il tempo pere sempre più consistenza, le fiamme si fecero più dense e l’oscurità più palpabile mentre le inghiottiva.
Il grande inverno che si batteva per la sua anima fatta di luce. Il demone bianco, dall’anima avvolta dal buio, voleva avere la luce ai suoi piedi.
L’oscurità fu squarciata da una gittata rossa come il sangue che la animava ed il silenzio fu spezzato da un urlo sgraziato che si trasformò nel ringhio feroce di qualcosa che non aveva nulla di umano.
Annabelle perse consistenza lasciando spazio ad Athusa e l’oscurità fu inghiottita dalle fiamme dell’ultimo drago di Valky’ra.
 
Harava’el era cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni ma a lei sembrava sempre uguale, sempre ricca di luce e di promesse.
Osservava Aryel correre fra i fiori gialli del grande giardino del palazzo di luce e sorrise, sentendo una fitta all’altezza del cuore.
-Smettila di correre o ti farai male!- gridò rivolta alla piccola bambina dai capelli corvini che correva in lungo e in largo riempiendo il giardino col suono delle sue risa.
-Fa come dice tua madre Aryel!
Spostò lo sguardo alla sua sinistra e si ritrovò a guardare negli occhi azzurri di Ka’y, il Re di Harava’el. Sorrise stringendosi a lui mentre la piccola e non troppo capricciosa Aryel si avvicinava loro con aria contrita.
-Scusa papà- sussurrò guardandosi le mani sporche di terra.
-Hai dodici anni Aryel, devi iniziare a comportarti come una vera principessa se vuoi diventare una Regina come la tua mamma.
Aryel alzò gli occhi su di lei e le lanciò uno dei suoi magici sorrisi.
-La maestosa estate- sussurrò con aria timida Aryel con occhi sognanti.
-Proprio lei.
Ka’y si abbassò e sollevò di peso sua figlia facendola volteggiare in aria. Doveva crescere ma non in un solo giorno. Aveva solo dodici anni e la sua vita era appena sbocciata.

blablablaaaah: questa one-shot nasce per un contest a torneo in cui ci è stato affidato ad ogni partecipante un pacchetto diverso contenente un'immagine ed una canzone. L'immagine è quella editata su in alto e la canzone anche.
E' evidente che io e il fantasy non andiamo a braccetto con le one-shot perché ho dovuto tagliare oltre il limite del pensabile. Avevo avuto un'altra idea ma si è tramutata velocemente in una storia a capitoli e quindi niente. Per non far fare la stessa fine a questa ho preferito tagliuzzare qui e là XD
Consideriamolo un regalo di fine anno *non lo vuole nessuno*
Non chiedetemi perché il numero 12 perché non lo so... sarà che siamo ancora, per poco, nel 2012? Vallo a capire il subconscio XD
Grazie a chi ha letto e grazie a chi commenterà :*
Se non mi conoscete vi segnalo il mio gruppiciattolo su facebook: 
I'm a Renegade, it's in my blood
  
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