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Autore: WhiteEskimo_    02/01/2013    2 recensioni
“Ciao” sussurro, anche se lui ormai se n’è andato. Possibile che mi sia trovato un amico? Sorrido ancora di più e poi ricomincio a fare quello che stavo facendo, ma nel cuore avevo conservato il suo sorriso.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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HEY YOU.
Capitolo 1, My life.
 “La nostra vita ha uno scopo? Io credo di sì, e sono sicura che abbiamo bisogno di uno scopo per essere realmente felici. Senza uno scopo la vita è priva di significato e le nostre decisioni mancano di passione. Non essendo ancorate a una solida struttura, le nostre decisioni hanno breve durata, anche se possono produrre effetti estremi come delusione, amarezza, paura, confusione e caos. Al contrario, le persone che sono in contatto con lo scopo della loro vita sono facili da riconoscere: i loro occhi brillano perché sono illuminati dall’interno, la loro vita risplende di entusiasmo e di significato. Sono persone infiammate di energia, perché sono loro a nutrire se stesse invece di far dipendere la loro felicità e la loro pace mentale dagli altri. In genere irradiano serenità e non si lasciano sviare facilmente. Il contatto con il compito della loro vita dà loro il potere e la fiducia necessari per superare i momenti difficili e per godere dei momenti belli.”
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Guardo fuori dalla finestra. Piove, e il paesaggio è nero, nero come la pece. Mi porto le gambe al petto e mi siedo davanti alla finestra, con una coperta sulle spalle. E penso. Penso. Mi piace pensare. Sapete, quando non si ha nessuno al mondo, resti solo tu con te stesso.
Non ho mai potuto avere nessuno al mondo, in effetti. Non è colpa mia, non sono una di quelle ragazze che non parlano con nessuno, o almeno non lo ero. Sono cambiata. Ho imparato a non fidarmi troppo delle persone, è tutto sempre così inutile e stancante. Una routine che si ripete all’infinito, una giostra troppo vorticosa per me. Così ho preferito scendere e non risalire.
Che giorno è? Mi chiedo. E’ il 13 Settembre. “E’ il suo compleanno” sussurro. Guardo in alto nel cielo, come se sperassi di poterlo scendere giù, da me e dirmi “Ehi, scusa il ritardo, ti stavo prendendo una caramella al bar!” ma non accadeva mai, naturalmente.
Avevo perso mio fratello già da 3 anni. Perso non nel senso che fosse morto, no lui è vivo, solo che non so dove sia. Me l’hanno portato via 3 anni fa. I nostri genitori… Bè, loro sono morti, entrambi. Mia madre se n’è andata 5 anni fa, mio padre … Mio padre subito dopo di lei. Non ha retto il dolore. E un camion lo ha travolto. Non ho mai saputo che fine avesse fatto il guidatore di quel fottuto camion, ma mi ricordo che al funerale qualcuno aveva detto una frase che mi colpì molto “C’è una ragione per ogni cosa. Anche alla morte c’è una ragione.” Non la capivo questa frase. Non c’è ragione nella morte, insomma. Arriva, silenziosa come un gatto, e ti porta via un pezzetto di te alla volta. Finché un giorno ti rapisce, e tu sparisci nell’ignoto. Non mi serviva sapere che ragione c’era nella morte, a che mi serviva? Non potevo impedire che le persone mi lascino, non potevo mettermi di certo a parlare con la morte e dirle “Sai, aveva appena comprato una nuova macchina, non potresti farlo morire più tardi?” Non vi era ragione.
Comunque, siccome io e mio fratello non eravamo maggiorenni ci hanno portato in un orfanotrofio. Era orribile, mi ricordo bene quel periodo. Ci facevano lavare tutti i bagni. Ci sgridavano se non facevamo le cose come volevano loro. Una volta ho visto un’istruttrice dare uno schiaffo a un bambino solo perché aveva fatto cadere una mollica di pane per terra. L’unica cosa positiva di quel posto era Niall, mio fratello. Nelle notti grigie, in cui eravamo davvero tristissimi, quando l’istruttrice spegneva le luci, sgattaiolavo nel suo letto e lui mi avvolgeva con le sue braccia. Piangevamo insieme, in silenzio. E quando le lacrime si erano esaurite, mi dava un bacio sulla fronte, io lo stringevo forte forte e poi me ne tornavo nel mio letto.
 Poi un giorno,  venne una famiglia. Stupida famiglia, mi stava già antipatica. Avevano un figlio più grande di Niall, Greg si chiamava, o qualcosa del genere. Dissero che volevano adottare un bimbo, solo uno. Ci fecero mettere tutti in fila. Odiavo quando succedeva, sembravamo degli oggetti da scegliere e da buttare. Questi 2 genitori passarono davanti a tutti noi e si fermarono davanti a Niall. “Come ti chiami, tu?” chiese la madre con voce gentile. Abbassai lo sguardo e  gli strinsi la mano. “Niall” sussurrò mio fratello. Gli occhi azzurri erano spaventati, non erano più coraggiosi e amichevoli come al solito. E questo mi spaventava anche di più. La signora lo squadrò per bene, poi notò la mia mano intrecciata alla sua. “E tu? Chi sei?” chiese a me, questa volta. “Evelyn” sussurrai. “Siete fratello e sorella?” chiese di nuovo. Annuimmo entrambi. Niall mi strinse più forte la mano. “Capisco” disse la donna. Stava riflettendo. Andò a parlare con l’istruttrice. Io e Niall ci guardammo. “Qualunque cosa succeda Evelyn, sappi che farò di tutto per stare sempre con te. Capito?” mi disse. Annui e lo abbracciai. Fu un abbraccio breve, ma speravo che intuisse almeno il 5% di quanto bene gli potevo volere. Quando la signora tornò e ci guardò, con quello sguardo, capii subito cosa stava per accadere, ma non ebbi il tempo di fare niente.  
Scelsero Niall, infischiandosene di quanto avevamo da dire noi 2. Non mi voleva lasciare la mano, io non volevo lasciare la sua; piangemmo entrambi, non più silenziosamente. L’istruttrice spiegò alla madre che era solo una fase, sarebbe passato tutto col tempo,ma sapevamo entrambi che non sarebbe passata mai... La madre si fece convincere, portarono le valigie di Niall in macchina loro. Io stavo a guardare, abbracciata a lui. Singhiozzavo, e piangevo, ero disperata. Non potevano portarmi via l’unica persona che avevo al mondo, la mia unica famiglia … E invece lo fecero. L’istruttrice mi afferrò e mi portò via da Niall. Cercai di divincolarmi, ma non ci riuscii. Avevo 11 anni, potevo fare poco contro di lei.  Fu trascinato nella macchina, piangeva e urlava il mio nome, come io urlavo il suo. L’ultima cosa che vidi prima che sparisse nella macchina furono i suoi occhi. Disperati, rossi, gonfi, arrabbiati. Ma sempre di quel colore meraviglioso. Le lacrime gli bagnavano tutto il volto, i capelli si agitavano. E poi… e poi tutto cessò. Mio fratello sparì là dentro, sentivo ancora le urla ma non potevo far niente. E se lo portarono via da me. Da quel giorno, ogni giorno non facevo che pensare a dove potesse essere, a dove era stato portato, se era felice. Mi chiedevo cosa stesse facendo in quel momento e mi piaceva pensare che stesse pensando al modo migliore per fuggire da quelli e tornare da me. La notte, quando tutti dormivano, andavo nel letto in cui dormiva lui e accarezzavo il cuscino. Raccontavo la mia giornata al cuscino, pensando che fosse lui, illudendomi che lui fosse lì accanto a me, e che mi avrebbe baciato la fronte e mi avrebbe detto che tutto sarebbe andato per il meglio. Cercavo di riempire quel vuoto che Niall mi aveva provocato, una grossa voragine al posto del cuore. Ma non ci riuscivo, parlare con un cuscino non è la stessa cosa, ed è anche un po’ da matti adesso che ci penso.
Non parlavo più con nessuno e presto gli altri bambini impararono a ignorarmi. Solo un bimbo non mi ignorava. Se ne stava lì, a fissarmi con lo sguardo preoccupato. Quando non avevo niente da fare, andavo nell’aula di musica e suonavo il pianoforte. Io e Niall andavamo lì, lui afferrava la vecchia chitarra e si metteva a cantare allegramente. Quello è sempre stato il nostro posto. Sempre. Ma senza di lui, non c’era più niente di magico. Il bambino veniva a sentirmi, sempre. E io lo lasciavo fare, in fondo era bello sapere che esistevi per qualcuno. Scoprii che era il figlio di una delle maestre, quella di italiano. Era simpatica quella maestra. Ci faceva fare dei testi su ciò che volevamo dalla vita. E non ci pressava, non urlava, non comandava. Lei ci diceva che temi fare e poi li leggeva, tutto qui. Il figlio sembrava fare lo stesso con me. Non mi pressava, non parlava mai. Mi guardava con quegli occhi dolci e poi ascoltava. Non gli ho mai chiesto il nome, ne lui l’ha chiesto a me.
Poi un giorno, il figlio non tornò più. Era stato mandato alla scuola pubblica, diceva orgogliosa la madre. E non lo rividi più. Solo allora mi accorsi che forse potevo chiedergli il nome. Saremmo potuti diventare amici, mi sarebbe venuto a trovare magari. Mi dispiacque un po’, quasi mi mancava. Ma presto mi abituai anche a quello.
La mia infanzia è stata così … silenziosa. Non ho vinto nessun premio, partecipato a nessuna gara. Nessuna festa, al massimo il Natale. Adesso, a 3 anni di distanza, la situazione non è cambiata: mi hanno mandato a Bradford, mi hanno dato una stanza in un edificio e mi pagano l’affitto. Viene un insegnante ogni giorno in sostituzione alla scuola. Guardo il mondo come se fossi in una bolla, come se non ne facessi parte. Come se fossi uno spettatore di un film in 3D, mi sembra di appartenere alla vita ma in realtà non vi appartengo. Sono solo … una spettatrice.
Potrete pensare che sono triste, che sono depressa magari. Ma la verità è che più di tutto, più della tristezza che fa scendere lacrime, più della depressione che non lascia sorridere, mi sento sola. E adesso vorrei solo uno di quegli abbracci che sapeva dare solo mio fratello.
Sospiro. Afferro una felpa e la metto sopra i leggins neri che porto. Poi esco dalla stanza. Mi guardo intorno. Vedo tanti ragazzi che girano per i corridoi, alcuni sorridenti, altri tristi. Sono un po’ tutti come me. Respiro a fondo quell’aria e poi mi incammino verso il bar. I corridoi sono stretti, le pareti grigie. Le finestre sono ampie. Visto da fuori questo posto probabilmente somiglierebbe molto ad un manicomio. Già, vorrei sapere cosa pensa che sia questo posto la gente? Mentre ci penso arrivo al bar. Ci sono un po’ di ragazzi che stanno mangiando tranquillamente. Mi avvicino al bar e chiedo un panino al tonno e una fanta. Adoro mangiare, fin da quando ero piccola. Non dico mai di no al cibo. Ringrazio il barista, sorrido e mi siedo al mio posto. Dopo aver mangiato, come al solito mi aspetta il mio turno alla mensa dei poveri. Quando sto lì, non posso fare a meno di sorridere. Mi alzo dal tavolo e mi incammino, la mensa sta di fronte al nostro istituto. Entro, mi metto il grembiule e inizio..  Davanti al bancone scorgo molte facce amiche, le solite:
“Ciao Evelyn!” “Salve, signora Rose, come va?” rispondo con un sorriso. “Bè, sai… come al solito. Affamati e infreddoliti. Ma per fortuna c’è questa mensa no? Ma ci sei sempre tu, fiorellino?” mi chiede. Alzo le spalle. “Preferisco stare qui, che lì dentro con quell’arpia” le sussurro all’orecchio. Lei ride e scuote la testa.  Rido anche io. “Ecco qua, signora. Oggi purè e piselli” dico mettendole il cibo nel piatto. Il suo sorriso si allarga, mi ringrazia e se ne va.
È una cosa faticosa, si, ma i sorrisi che ricevi in cambio compensano tutto.
La giornata continua così, finchè, verso mezzogiorno, sento delle risate da fuori. Guardo la porta e vedo un  ragazzo entrare correndo nella mensa. Sembra che stia scappando da qualcuno e nel mentre ride. Corre zigzando tra i tavoli, poi punta verso il bancone dove ci sono io, lo scavalca e si accuccia vicino a me. Lo guardo “Ehm, ciao?” dico  incerta.  Lui mi guarda e sorride. “Sai, se volevi un po’ di cibo bastava che me lo chiedevi..” lui mi zittisce “Ti prego, non dire che sono qui” sussurra. Lo guardo incuriosita “E… vabbene.” Rispondo. Scrollo le spalle e poi continuo a fare quello che stavo facendo, anche se a volte lancio uno sguardo a quel ragazzo per terra. È moro, occhi color nocciola, con una cresta abbastanza alta (?). E’ un bel ragazzo, lo ammetto.
“60!” sento urlare da fuori. Una ragazzina mora e con gli stessi occhi di quel ragazzo entra ridendo nella mensa. Si aggira furtiva tra i banchi, scrutando sotto i tavoli e facendo sobbalzare i poveri vecchietti che cercavano di mangiare tranquillamente. “Zayn, dove sei? Ti trovoo!” dice ridendo. Il ragazzo accovacciato ridacchia. Lo guardo sorridendo e mimo con le labbra “Nascondino?” Lui sorride e annuisce. Ridacchio un po’ e scuoto la testa, poi faccio finta di niente. La povera ragazza continua a cercarlo, ridendo. Mi mette allegria guardarla. E’ alta poco di meno del ragazzo, che a quanto pare si chiama Zayn. Di sicuro non hanno origini inglesi, hanno quei tipici tratti orientali, un po’ misteriosi ma affascinanti.
“Eccola, si avvicina!” sussurro a Zayn, per metterlo in guardia. “Che devo fare?” chiedo senza farmi vedere dalla bimba. “Indifferenza, indifferenza assoluta.” Mi risponde lui. Eccola, di fronte a me. “Scusa, hai visto un ragazzo alto, moro, una grossa cresta?” mi chiede con un sorriso. “Ummm… vediamo. Moro, dici?” chiedo, facendo un’espressione interrogativa. Lei annuisce. “E’ mio fratello, e stiamo giocando a nascondino. L’hai visto per caso?” chiede con un altro dolce sorriso. Mi avvicino a lei e le sussurro all’orecchio “Sai, mi pare che sia andato nel negozio delle caramelle. Ma sshh, non dire che te l’ho detto io eh?” Lei sorride tutta contenta e poi annuisce. Mi ringrazia e si allontana. Zayn aspetta che la ragazza esca dalla mensa, poi si alza e mi sorride. “Grazie…?” “Oh.. Evelyn, mi chiamo Evelyn.” Dico con un sorriso. Mi porge la mano e gliela stringo. “Bene, Evelyn, grazie per avermi fatto vincere una partita di nascondino allora J” dice. Sorrido “Niente, l’ho fatto con piacere!” rispondo. “Adesso vado a vincere, ok? Ti faccio sapere come l’ha presa la mia cara sorellina. Ciao!” dice, mi fa un inchino e poi si allontana. Rimango lì, con un sorriso in faccia. “Ciao” sussurro, anche se lui ormai se n’è andato. Possibile che mi sia trovato un amico? Sorrido ancora di più e poi ricomincio a fare quello che stavo facendo, ma nel cuore avevo conservato il suo sorriso. <3
  
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