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Autore: maggiefuckoff    02/01/2013    1 recensioni
[The Pretty Reckless]
Lo guardai dritto negli occhi, quegli occhi così azzurri che sembravano i più innocenti del mondo. Ma sapevo che non era affatto così. In quegli occhi potevo vedere chiaramente tutti i sentimenti negativi che avevo provato da un mese a quella parte. Tuttavia, non mi importava. Se quello era il prezzo da pagare per entrare nel suo mondo e per uscire dal mio, avrei rivissuto con piacere tutto il dolore, la paura e la tristezza. Dopodichè, avrei potuto anche spegnere i miei sentimenti. Sarebbe finito tutto.
THE PRETTY RECKLESS (TAYLOR MOMSEN) / THE VAMPIRE DIARIES (DAMON SALVATORE) (che non è ancora subentrato, ma lo farà presto. Spero)
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Nothing left to lose

Avete presente il momento subito prima di un tuffo in piscina? Il caldo opprimente ma tuttavia la paura dell’acqua troppo fredda? Beh, io mi sentivo così tutte le volte prima di un concerto, ma senza quella paura. Era come se il caldo soffocante rappresentasse la mia vita incasinata e il palco fosse l’acqua fresca, il sollievo. Per questo non esitai minimamente quando ci dissero che toccava a noi. Presi soltanto un respiro profondo e mi diressi verso il microfono. Quello era il mio ambiente naturale, la mia liberazione, perché sarei dovuta esserne spaventata?

Su una cosa però i ragazzi avevano ragione: a fatica mi reggevo in piedi e barcollai un po’ nel tentativo di raggiungere la mia postazione. Fortunatamente le luci erano ancora abbassate e la gente nel locale sembrò non farci troppo caso, ma fu questione di secondi prima che un potente getto di luce mi illuminasse in pieno viso. Alzai istintivamente il braccio per salutare i miei “fans” e loro prontamente mi risposero, ma io puntavo più in alto di qualche applauso di cortesia. Dopo quella sera, ogni singola persona presente al concerto sarebbe dovuta uscire dal locale e ricordarsi di quanto fossero forti i Pretty Reckless. Ma mi resi conto presto che sarei stata costretta a ridimensionare le mie aspettative…

Tolsi il microfono dall’asta. La nostra scaletta prevedeva un nostro pezzo per aprire la serata, intitolato Since You’re Gone. Energico, veloce, incazzato. Quello che mi serviva per sfogarmi e per far capire subito di che pasta ero fatta. Ci avremmo guadagnato entrambi, io e il pubblico.

Lanciai un veloce sguardo alle mie spalle, nello specifico a Jamie, che iniziò a scandire il tempo con la batteria. Poco dopo entrò anche Ben con il giro di chitarra e Mark con quello di basso. Fu allora che iniziai a cantare con tutta la voce che avevo in corpo. Non mi sentivo né rigida, né imbarazzata, né niente. Al contrario, tutte le mie barriere difensive e inibitorie erano cadute per lasciare spazio alla parte più disinvolta e spensierata di me: quella che tiravo fuori solo quando cantavo. Sopra a quel palco sentivo che tutto era come doveva essere. E, sebbene qualche lieve perdita d’equilibrio fra una canzone e l’altra, ero decisa a non rovinare nulla. Infatti, tutto andò bene per la prima parte della serata. Poi, inevitabilmente, qualcosa cambiò.

Dopo una movimentata scaletta composta sia di cover che di altri pezzi nostri, come Goin’ Down, Miss Everything e Factory Girl, la parte meno sobria di me decise che quella sera, proprio quella sera, dovevamo suonare Don’t Cry. Chiaramente Ben mi guardò esterrefatto e gli altri membri della mia band, ormai perfettamente consapevoli del fatto che fosse successo qualcosa tra noi due quel pomeriggio, cercarono in ogni modo di farmi desistere dalla mia pessima idea. Ma io non li stavo nemmeno ascoltando, avevo già rimesso il microfono sull’asta per dedicarmi con più calma a quella ballata così significativa per me. I ragazzi decisero quindi di arrendersi al mio volere, anche perché le persone ci stavano guardando in modo strano e nessuno di loro voleva rovinare la serata. Infatti, fui io stessa a farlo. Esattamente alla fine del primo ritornello.

La scena fu identica a quella che vissi in prima media. Blocco improvviso della voce, caduta a terra e sgomento delle persone che mi stavano di fronte. Ma questa volta non ero imbarazzata. Sentivo solo una fortissima emicrania, dovuta alle immagini che rapidissime si susseguivano nella mia testa con il suggerimento del mio inconscio ubriaco. La partenza di mia madre, l’incontro con Mark e Jamie, l’arrivo di Katherine, la morte di mio padre,…Fino ad arrivare ai ricordi più recenti di quella stessa giornata. Tutto ciò in pochi secondi, ma che a me sembrarono essere una vita. E fu quando riaprii gli occhi che cominciai a delirare sul serio.

“Allora? Nessuno di voi è disposto ad accompagnarmi con la chitarra? Devo riprendere a cantare, queste persone non sono di certo venute qua per guardare una deficiente piangere…”

“Taylor…”

“Esatto, proprio tu! Perché non mi suoni la strofa successiva? Non vedi che ho bisogno di aiuto?”

“Taylor, finiscila.”

“Non mi sembra di aver chiesto il tuo parere, Mark, io sto parlando con il chitarrista. Non ti ricordi quella volta, quando mi hai aiutata a finire la canzone? Che c’è, non mi aiuti più perché non siamo più amici? Ah aspetta, forse non lo siamo mai stati…”

“Taylor, ti prego…”

“…forse tutto quello che hai sempre voluto fare è portarmi a letto, stronzo!”

E fu con queste parole che riattaccai il microfono all’asta e uscii correndo dal locale, senza badare minimamente al pubblico e tantomeno alla mia band.

-

In un vicolo dietro al locale, sola con le mie emozioni, potei finalmente sfogarmi. Prima la crisi di pianto: i singhiozzi mi scuotevano così forte il corpo che dovetti respirare profondamente e a lungo prima di calmarmi un po’. Non avendo le sigarette con me, sfogai invece la rabbia nell’unico modo possibile, ovvero tirando pugni alle tre pareti che mi circondavano, fino a farmi sanguinare le nocche, fino a che il dolore mi impedisse anche solo di alzarmi da terra. E fu allora, quando stavo per chiudere gli occhi, decisissima a passare la notte lì senza che nessuno mi trovasse, che fui sollevata di peso dalla causa di tutti i miei problemi.

“Vaffanculo, lasciami stare, lasciami stare!”

“Tu sei pazza, sei pazza a reagire così per una stronzata del genere!”

“Ah, stronzata la chiami? Quindi l’hai fatto così, perché ti andava! Di bene in meglio proprio!”

“Smettila di comportarti così Taylor, non mi hai nemmeno lasciato il tempo di spiegare…”

“Che cazzo c’è da spiegare? Ben, toglimi le mani di dosso, o giuro che…”

“Taylor, io ti voglio un bene assurdo, io voglio solo starti vicino dopo quello che ti è successo e…”

“Non prendermi per il culo, non osare giustificarti tirando in ballo mio padre, avevo detto che non volevo più parlarne e le due cose non c’entrano niente, sei un egoista, sei un coglione, sei un…”

“Ti amo.”

Fu la prima volta, dopo quel botta e risposta, che uno di noi due parlava senza urlare o piangere. O, nel mio caso, senza urlare e piangere allo stesso tempo. Il mio isterismo si fermò giusto il tempo necessario per elaborare quelle due parole, cosa che mi fece rimanere ammutolita per una manciata di secondi e che Ben interpretò come un via libera da parte mia per potersi spiegare. Liberò quindi i miei polsi dalla sua presa.

“Io non ti ho mai voluta prendere in giro. È vero, è da tanto tempo che provo questi sentimenti per te, ma non ho mai trovato il momento giusto, le parole giuste per…”

SBAM!

Lo colpii in piena faccia con lo schiaffo più forte che avessi mai tirato in vita mia, accompagnato dal vaffanculo che gli avevo soltanto sussurrato a casa di Mark quella mattina. Dopodiché corsi via di nuovo, ritornando all’interno del locale solo per riappropriarmi della mia borsa. E mentre mi ricatapultavo fuori, diretta a Tufnell Park, riuscii a sentire chiaramente le voci di Mark e Jamie che urlavano il mio nome.

-

Le luci accese in casa non sono mai un buon segno. Soprattutto se la casa in cui vivi non è tua e se hai lasciato la camera da letto della proprietaria sommersa di sigarette, bottiglie e rimasugli di cocaina. Sì, Katherine era tornata.

Corsi in casa il più velocemente possibile e me la ritrovai lì, in piedi, al centro della stanza. Sembrava che stesse cercando qualcosa in mezzo al casino, più che essere effettivamente arrabbiata per il casino.

“Katherine! Scusa per il disordine, io non…”

“Non ho intenzione di trattenermi, prendo solo delle cose e poi riparto, in Virginia non riesco proprio a stare senz-“

“Portami con te!”

Katherine si girò per la prima volta nella mia direzione da quando ero entrata in casa. Il suo sguardo aveva sempre avuto qualcosa di superiore, di strano, di ipnotico. Mi faceva terribilmente paura e inoltre non riuscivo a capire se fosse seccata perché l’avessi interrotta o stupita per la mia insolita richiesta. In effetti, io stessa ero stupita da quello che avevo appena detto, le parole mi erano uscite così, di getto. All’inizio pensai che fosse ancora colpa dell’alcol, ma poi, ripensandoci, era proprio quello che volevo. Andare via, lasciarmi tutta la sofferenza di quella città alle spalle. Non vedere più né Mark, né Jamie, né Ben, che mi ricordavano costantemente quanto io fossi sola. Dimenticarmi di tutto e di tutti. E non potevo farlo se ogni giorno il mondo mi metteva davanti l’evidenza dei fatti in tutta la sua crudele realtà. Katherine sembrò leggermi nel pensiero e non mi fece ulteriori domande. Mi chiese solo se ne ero sicura e io risposi di sì.

“Bene, allora prendi quello che ritieni necessario e andiamo.”

E detto ciò uscì dalla stanza, lasciandomi da sola con le conseguenze delle mie scelte. Non mi rimaneva altro da fare se non seguire le sue istruzioni e quindi presi una valigia e ci misi dentro dei vestiti a caso. Poi andai in bagno per prendere alcune cose per l’igiene personale e mi ritrovai faccia a faccia con il mio riflesso, ancora una volta stremato, ancora una volta sofferente e implorante. Sembrava volesse dirmi che quella volta no, quella volta non era tutto al suo posto, ma che, sicuramente, era tutto finito.

Ritornai in camera quasi correndo, chiusi la valigia e mi diressi verso la porta, ma qualcosa sulla scrivania di fronte alla finestra attirò la mia attenzione: un foglio di carta. Lo stesso foglio di carta su cui, mentre mi ubriacavo, avevo scarabocchiato delle parole.

Lost between Elvis and suicide
Ever since the day we died, well
I’ve got nothing left to lose
After Jesus and Rock N Roll
Couldn’t save my immoral soul, well
I’ve got nothing left to lose

Ripiegai il foglio e me lo misi in tasca. Dopodiché, raggiunsi Katherine fuori.

Era vero: che cosa avevo da perdere?
   
 
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