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Autore: CleaCassandra    22/07/2007    1 recensioni
Frances, una vita fuori dall'ordinario, e una persona speciale, reincontrata dopo anni.
Diciamo pure che non sono brava a fare riassunti, spero solo vi piaccia.
attention please: Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere delle persone di cui parlo (ma magari li conoscessi di persona ;O;), nè offenderle in alcun modo...beh, insomma, era una precisazione necessaria u_ù
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Frank Iero, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ehehe, grazie a tutte quelle che hanno recensito *_* ely, mi aspetto delle sticazzate da paura anche qua sopra è_é/ !

Cap. 4 – Say Hello To The Angels


È inverno. Fa discretamente freddo.
Ma non ho perso il vizio di sedermi in terrazza e guardare il tramonto, magari con una sigaretta a scaldarmi i polmoni e una birra a distrarmi dai soliti, ennesimi, brutti pensieri.
Anzi, da un po’ di tempo ho un’idea malsana che gira nella mia testa.
Perché non ho mai smesso di amare quello che facevo.
Suonare.
Donare un pezzo di me, il più nascosto, a chiunque ascoltasse le mie schitarrate.
Non l’ho venduta. È sempre qui, a casa mia. Ci tengo più della mia stessa vita, non permetterei mai che finisca nelle mani di qualche sconosciuto che non la sa accarezzare come me.
Gli strumenti sono così: quando li compri è solo per attrazione visiva e uditiva. Fascino e utilità.
Vedi la chitarra che diventerà tua, appesa all’espositore in un negozio di strumenti musicali.
Ti piace il suo corpo, e ti piace anche il suono che emana. Già lì pensi a cosa potresti fare con lei, gli accordi, gli arpeggi, gli assoli selvaggi e qualsiasi acrobazia sonora ti venga in mente di sperimentare.
La compri, ebbro di queste sensazioni che si affollano nella tua testa.
Poi ti affezioni, fai di lei la tua compagna inseparabile, la curi con amore, le cambi le corde quando serve e stai attento a non fare gesti inconsulti per non rovinarla.
Oppure sei talmente trasportato dalla passione che non ti accorgi più della sua fragilità, e lei si lascia maltrattare, docile e fedele.
A me è successo tutto questo. L’ho amata sin dal primo momento.
Sin da quando i miei genitori, coscienti dell’importanza che davo alla mia vecchia chitarra acustica, me ne regalarono una elettrica.
Fecero dei sacrifici per comprarla. Ma leggevo la loro soddisfazione negli occhi, perché era quella giusta.
Gliel’aveva detto Keith. Lui sapeva qual era il mio sogno proibito.
Il suo l’aveva già esaudito. Lavorava come un dannato all’epoca, ed era riuscito a comprarsi una batteria meravigliosa tutto da solo.
E lei mi segue ancora. Ha dato il meglio di sé in quei due album.
Ma sono tre anni che non la tocco più.
Perché mi promisi che non l’avrei più suonata.
Proposito alquanto infantile, il mio. Ma in quel momento, quando avevo preso la mia decisione, non c’era spazio, nel mio cuore, per altro.
Ero delusa da tutto quello che mi stava succedendo. Da quello che ero diventata.
Provavo una tristezza infinita per quell’epilogo inevitabile. Ma credevo che la mia salute mentale ci avrebbe guadagnato, se avessi chiuso quel capitolo così grigio della mia esistenza.
Avevo deciso di rimuovere anche i ricordi positivi, quelli che avrebbero meritato un posto nel mio museo personale. Perché se ci pensavo mi tornava in mente anche il rovescio della medaglia, e non ne sarei più uscita.
Ne ha presa tanta, di polvere, in tre anni.
Non ho nemmeno pensato di nasconderla da qualche parte. È ben visibile, in camera mia, nella sua custodia.
Dovevo resisterle.
Era una resistenza simbolica, il feticcio che accorpava in sé quegli anni disgraziati: dimentica i ricordi, ma non dimenticare gli errori. Per non ripeterli.
E dovevo starmene ben lontana da lei, dalla musica, da mio fratello e da Dave.
Ma non ci sono riuscita.
I divieti sono fatti per essere infranti.
Mi ero proibita di toccare la mia chitarra, ma dopo tre anni non ho più retto.
Stamattina sono andata in libreria.
C’era anche Dave.
È tornato.
“Ehi, stellina!” mi ha accolto. L’ho abbracciato, piena di gioia per averlo davanti a me dopo tanto tempo.
“Adesso me ne starò qui buono buono per un po’!” ha esclamato raggiante, raccontandomi poi del suo ultimo tour. Ha dovuto sostituire il bassista di non mi ricordo che gruppo per alcune date nella East Coast.
S’è divertito, come sempre.
“Ma è stato veramente massacrante, cazzo!” ha esclamato spontaneo.
La stanchezza per te non è nulla.
Io…lo so bene che a te basta suonare, e del resto, chi se ne frega. Anche della fatica, del dover viaggiare continuamente, senza fermarsi quasi nemmeno ad osservare il paesaggio intorno.
Non t’importa di questi inconvenienti.
Sei la tua passione, vivi per lei, alimentato da lei.
E lei ricambia, facendoti suonare da dio.
Sei uno dei bassisti più capaci che io abbia mai conosciuto.
Mi hai infuso un po’ di energia. Per attuare la mia idea malsana.
Chissà, forse l’hai fatto apposta, a raccontarmi la tua vita in tour.
Perché sai benissimo quanto mi manchi.
Come se tu avessi letto nel mio sguardo le intenzioni che mi stanno animando.
Così sono tornata a casa e…ho spolverato la custodia della chitarra.
Era praticamente scomparsa sotto la coltre grigiastra e fastidiosa.
Non dovevo toccarla, in nessun modo, mi dicevo.
E così non la pulivo nemmeno. Perlomeno fino a oggi.
La custodia è rovinatissima. La apro, il naso già in panne per tutto il grigiore che ho smosso. Lascio che la cerniera scorra e riveli il contenuto di quell’orribile involucro.
Lei, dentro, è intatta.
La mia piccolina.
Una Fender Jaguar.
Nera.
Era la mia vita, fino a tre anni fa.
Adesso tornerà ad esserlo. In barba ai miei giuramenti idioti.
La prendo, la scruto con attenzione, la imbraccio.
Suono qualche accordo a caso. Poi prendo fiducia, e anche la mano si riabitua.
Suono tutti i pezzi degli Unnamed, uno dopo l’altro.
Un magone invade la mia gola e preme, strozzandomi il respiro per pochi, convulsi istanti.
Siamo di nuovo insieme, come ai vecchi tempi.
Ma stavolta è diverso. Saranno più luminosi.
L’unica cosa che non è cambiata è l’amore infinito che ci lega.
Mi hai aspettato, paziente e devota. I tuoi pick-up, il battipenna, le corde, la paletta, le chiavi che stringono le tue corde, la presa per l’amplificazione, gioiscono sotto il tocco paziente delle mie dita.
Tutto di te sapeva già che sarei tornata.
Rimango, sul terrazzo, in preda a un’emozione fortissima e devastante, davanti al cielo quasi viola, la Jaguar ancora appoggiata sulle gambe incrociate.
Dovevo resisterti.
Ma non ci sono riuscita.
Perché io ho ancora una fottuta voglia di suonare. Con te.
Per questo non ti ho venduta, né tolta di mezzo.
Avevo sempre dentro me la speranza di tornare a fare ciò che più amo.
Le labbra si aprono da sole, la voce esce, con mio sommo stupore, mentre mi accompagno con le tue corde.
Le nostre canzoni non erano fatte per essere cantate da me. Una voce sgraziata come la mia le avrebbe rovinate irrimediabilmente.
Troppo profonda. Troppo sincera.
Non svezzata a whisky e sigarette, come potrebbe essere quella di un Mark Lanegan, ma ugualmente segnata dalla tristezza.
Avrei massacrato la magia che regnava nei nostri testi. Li avrei resi troppo veri, troppo sofferti. E nessuno vuole soffrire più di quanto gli sia dato di fare.
La nostra particolarità consisteva proprio in questo contrasto tra la rabbia che covava nei nostri cuori e la voce di lei, che la rendeva fruibile per tutti. Quasi piacevole e necessaria.
Una voce cristallina, limpida, pulita.
Che sul palco intonava frasi sporche e malate come mai se ne sono sentite.
Sto male. Da cani.
Perché ripenso a quelle frasi.
Le avevo scritte io.
Per lei.
Note tristi escono dalla mia chitarra, mentre canto sommessamente.
Sembro essermi spenta di colpo.
“Non mi ricordavo avessi una voce così bella” sento mormorare alle mie spalle.
Mi volto. Perché sembra un’allucinazione. Un miraggio.
E invece no.
Vedo due metri di Keith sovrastarmi e farmi ombra.
L’altezza l’ha presa tutta lui, in famiglia.
“Ehi…” gli faccio.
“Quanto entusiasmo! Non mi vedi da mesi e mi accogli così?” domanda, un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.
È contento di vedermi, e io lo stesso, ma proprio non ci riesco a sorridere.
Scusami.
“No, scusa, è che…”
“Lascia stare” mi risponde, comprensivo.
Poso la chitarra a terra e lo abbraccio con forza.
“Ma come hai fatto a venire fin qua?”
“Devo ricordarti ogni volta che questa è anche casa mia?” ride.
“Hai ragione! Scusami” riesco solo a mormorare sul suo cappotto.
“Dai, sorellina, sei troppo cerimoniosa oggi! Torniamo in casa, non senti che freddo fa?”
No. Non riesco a sentirlo.
Perché fa molto più freddo nel mio petto, fratellone, ora che ho avuto il coraggio di far tornare a galla il passato.
Coraggio o masochismo? Chissà.
Ceniamo insieme. Beh, la cena è quella che è. Pizza.
L’abbiamo ordinata una mezz’ora fa, ed eccola ora, fumante, davanti a noi.
Il mio umore si risolleva un po’, davanti al cibo.
“E insomma, che ci fai qui?” chiedo con tono inquisitorio.
“Sì, sei proprio contenta di vedermi!”
“Ehm, non è per quello…sono un po’ così ultimamente…”
“Eh, notavo…”
Si accorge sempre se ho qualcosa che non va.
Per questo cambia discorso.
“Ma il negozio? Non dovresti essere là?”
È speciale. Non potrebbe essere altrimenti. È mio fratello maggiore, in fondo.
“No…ho chiesto a Alice se poteva gestirlo lei per un paio di giorni…” rispondo, distratta.
“E tu stai in casa a fare la muffa? Però ho visto che hai ripreso la chitarra in mano…”
“Sì, ma…come mai sei qui, dicevo? Hai finito il tour?”
“Non proprio…”
“Mica ti sarai licenziato?”
“No, no! Però…sai…”
“Arriva al nocciolo” sorrido, divertita nel vedere mio fratello così impacciato. E anche parecchio incuriosita.
Chissà che avrà combinato.
E invece…quello che ha da dirmi mi fa mancare quattro o cinque battiti.
Rimango a bocca aperta, lo spicchio di pizza in una mano e la lattina di Coca Cola nell’altra.
Beh, la Coca mi cade di mano, atterra sul tavolo e barcolla per alcuni istanti, finendo per rotolare a terra.
Per fortuna è quasi vuota.
“Ho…parlato con Dave. Rimettiamo su il gruppo.”
*
“COOOOOOOSA?! E me lo dici così? Mi stava andando di traverso la pizza Keith!” mi ricordo che sbottai.
Il tono della voce avrebbe potuto trarre in inganno, ma credetemi, anche ce l’avessi messa tutta non sarei riuscita a incazzarmi per quello che mi aveva detto.
"Ehi, non accetto rifiuti. Tu sarai con noi, punto!" asserì, vendendo la mia faccia assumere un’espressione alquanto dubbiosa.
Keith, ti avrei risposto di sì comunque. Non c'era bisogno di puntualizzare.
Non so cosa stesse pensando. Magari che credevo fosse uno stupido scherzo, oppure un’intenzione campata in aria, nulla di serio.
E invece no, avevo capito benissimo.
Già da quella mattina, quando andai in libreria e trovai Dave, e mi fece tutto quel discorso sul tour da cui era reduce.
Mi stava instillando una sana voglia di tornare a fare musica.
Aveva già parlato con mio fratello, e sapeva benissimo che a toccare certi tasti con me sarebbe andato sul sicuro.
Le cose accadono per caso, o hanno lo strano, inquietante, inebriante potere di seguire un percorso lineare e preciso?
Avevo deciso di imbracciare di nuovo la chitarra, per rievocare i vecchi tempi, ed ecco tornare mio fratello, ecco tornare Dave, che aveva acuito questa mia volontà, ed ecco che gli Unnamed erano di nuovo in piedi.
Il caso può aiutare, ma siamo noi gli artefici di quello che siamo, e di come viviamo.
Ero l’unica incognita, nei loro calcoli. Per questo avevano deliberato di dirmelo alla fine, quando ormai la decisione era già stata presa. Perché, a quelle condizioni, non mi sarei certo tirata indietro.
Maledetti.
Vi adoro.
La passione è stata più forte di qualsiasi ostacolo.
Una settimana dopo eravamo già in sala prove. Di lì a poco, tramite certi agganci di mio fratello, avremmo ricominciato a suonare in vari locali della California.
Sì, ammetto che il nostro nome fa ancora un certo effetto. È un piccolo miracolo, quando un gruppo si riunisce per una genuina e sana voglia di suonare.
Sì, perché in fondo, almeno parlando per me, di soldi ne farei di più a imprimere disegni sulla pelle della gente.
É meno approssimativo. Se suoni e non riesci a ingranare, non guadagni.
Quello che ci disse nostro padre, quando gli dicemmo che volevamo mettere su un gruppo. Ci aveva lasciato imparare a suonare chitarra e batteria, perchè credeva fosse solo un passatempo. Ma io e Keith sapevamo già cosa volevamo fare nella vita.
E ci era andata di lusso, almeno fino a che non abbiamo preso strade diverse.
Siamo cambiati molto, in questi anni.
Soprattutto io.
Non so, forse sono più consapevole di me. Meno ragazzina cresciuta a suon di sani principi e musica di ogni tipo e più persona adulta, indipendente e totalmente autonoma. Non nascondo che la faccenda mi soddisfi, però sento di aver perso un po’ di quell’incanto che illuminava i miei occhi di diciassettenne.
Adesso che ho quasi ventiquattro anni, lo sento.
Sento che la vita da adulti è disincantata, spigolosa, sempre piena di doveri e pochi piaceri a risollevarla da un grigiore quasi inevitabile, prodotto in serie di una società omologante che ci vuole tutti produttivi al massimo.
Ma voglio fare di tutto affinché la mia rimanga sempre qualcosa di esaltante e imprevedibile.
Tre lunghi anni, senza dare traccia di noi, della nostra esistenza come band.
Eppure ci hanno accolto come amici di una vita, tornati da un lungo viaggio.
Chi, dite? Beh, i nostri fan.
Oddio, mi fa stranissimo chiamarli così.
Abbiamo un rapporto strettissimo con loro, molti li conosciamo personalmente da anni.
É grazie al loro calore se, tempo un mese, eravamo già a registrare.
Ho fatto leggere a Keith e Dave dei pezzi che mi è capitato di scrivere quando non avevo da fare e l’ispirazione volava nei pressi della mia testa.
Beh, li hanno apprezzati. Così abbiamo deciso di lavorare su alcuni di quelli.
Abbiamo suonato, come dei forsennati. C'abbiamo perso il sonno, ma nelle occhiaie, negli sbadigli, nelle sigarette fumate e nei caffè bevuti a ripetizione per non crollare a dormire, si poteva leggere la gioia più autentica.
Siamo stati rapidissimi. Ispirati, quasi in preda a un fervore mistico.
Il disco è finito. Quanto ci avremmo messo, due mesi? Forse un po' meno.
Ora deve passare la trafila necessaria per rendere appetibile un prodotto grezzo.
È primavera, e il clima si ingentilisce.
Il cielo è sgombro dalle nubi, limpido, quasi accecante.
Perfetto.
I tramonti di primavera hanno una poesia lieve, fluttuante, tutta loro.
Riescono a essere delicati come un'alba, i colori decisi sembrano quasi annacquarsi.
C'è della bellezza indescrivibile.
Ma non supereranno mai la magnificenza dei tramonti d'estate.
E quest'anno...
Non me ne perderò uno.
Da San Francisco a New York.
Tutti i tramonti estivi degli Stati Uniti.
Siamo in tour.
Ed è un tour speciale.
Ci hanno chiamato a suonare al Vans Warped Tour.
Lo faremo tutto, dal primo all’ultimo giorno. È quello che ci vuole, per riprenderci. Per far tornare a parlare di noi.
Quando Dave me l'ha detto, non credevo alle mie orecchie.
"Tu stai scherzando! TU STAI SCHERZANDO!" ho ripetuto, all’infinito, come un disco rotto.
Ma, no, lui non scherza. È vero, è tutto dannatamente, meravigliosamente reale.
Mi fiondo al computer, cerco il sito ufficiale.
Lo trovo.
Scorro la line-up con rapidità.
I miei occhi si fermano. A circa metà della pagina.
E anche il cuore, anche lui…perde qualche battito.
Ci sono.
I My Chemical Romance.
Solo per un lasso di tempo di per sé risicato, trattasi infatti di tre o quattro date a fine luglio.
Ma ci sono.
E le mie labbra si allargano in un sorriso che scopre i denti e mi fa fissare con sospetto e sconcerto da mio fratello e il suo migliore amico.
“Ehi, che ha tua sorella?” sento Dave mormorare a Keith.
“Ah, boh, proprio non lo so”.
  
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