Il
principe azzurro in groppa alla navicella spaziale verde vomito
Prologo
Quando
Takeru vide la nave spaziale verde vomito arenata in casa sua, fumante
in una
voragine che (poteva giurare) prima era occupata dalla sua stanza,
rimase
inquietantemente calmo e solo un po’ (ma davvero poco)
momentaneamente
perplesso. Avrebbe dovuto dare di matto si disse, sarebbe stata la
dimostrazione che la sua testa era ancora a posto, si disse. Poi si
ricordò di
aver passato l’infanzia e la prima adolescenza peregrinando
per diverse
dimensioni parallele, inferni digitali, oceani senza acqua; di aver
combattuto
insieme a creature mostruose e mitologiche all’ombra di
giganteschi obelischi
neri costruiti da un dittatore dodicenne che aveva tiranneggiato una
intera
dimensione solo per problemi di compensazione (ed era la
verità, non una brutta
battuta) e che il suo mostro protettore aveva le sembianze di un angelo
in
perizoma. Una navicella spaziale, tutto sommato, non era poi
così male. Stappò
la bottiglia e prese a sorseggiare il té verde, ispezionando
la carcassa della
nave: aveva un diametro di circa quattro metri, sembrava ricoperta da
una lega
metallica dipinta di un verde discutibile e non parevano esserci
bocchettoni da
nessuna parte. La superficie sembrava liscia, ma preferì non
toccarla. Dopo
aver riflettuto per un po’, si schiarì la voce e
provò a parlare:
“Uhm…
salve, uh… abitanti di un mondo lontano…
Uhm… io sono Takeru Takaishi, il
proprietario della stanza che avete distrutto. In nome di tutti gli
abitanti
del nostro bellissimo e pacifico pianeta vi do il benvenuto sulla terra
e… ehm…
Sentite, pacifismo d’obbligo a parte, quella tv costa e la
rivorrei indietro,
grazie.”
Nessuna
risposta.
“Vanno
bene anche i contanti.”
Niente.
Takeru
sospirò e si sedette con
calma sul
divano. Afferrò il cordless e chiamò casa Yagami
per riferire a Taichi: anche
dopo gli ultimi anni trascorsi, non aveva mai smesso di considerarlo
una specie
di capitano della nave che cola a picco. Aveva constato, inoltre, che
anche se
dimostrava esplicito disinteresse riguardo le allucinogene avventure
dei
digiprescelti, non riusciva mai nel suo intento primo, ovvero rimanere
ancorato
al divano di casa con il pc sullo stomaco, la televisione nelle
orecchie, e
l’unica mano libera insozzata dall’unto
delle patatine. Taichi e gli
altri, chissà come, venivano sempre a scoprire quale
catastrofe cosmica stava
per abbattersi sul pianeta terra, per quanto lui si sforzasse di
nasconderla.
Lo avrebbero costretto comunque a fare l’eroe con al seguito
l’angelo
sessualmente confuso, a costo di forzare la porta della sua stanza,
tanto
valeva evitare che lo facessero trovandolo con un mano nelle mutande a
boccheggiare mentre guardava un porno svedese. Dopo aver digitato il
numero,
attese un paio di squilli e gli rispose una voce femminile che sapeva
di
focolare materno e Takeru provò un fastidioso groppo alla
gola: la signora
Yagami era gentile e accogliente. Gli preparava il suo dolce preferito
ogni
volta che era a conoscenza di una sua visita, chiacchierava con lui
volentieri
e lo chiamava sempre “caro”. Non ricordava nemmeno
l’ultima volta che sua madre
gli aveva cucinato qualcosa che gli piacesse o che avessero condiviso
una
conversazione che andasse oltre “Io esco,
ciao”… Non era nemmeno certo che lo
avesse mai chiamato “caro”.
Comunque,
Taichi non era casa. E Hikari c’era? Si? Bene, disse, sarebbe
arrivato di lì a
poco. Gli avrebbe messo da parte una fetta di torta, grazie mille.
Takeru
andò a prendere le scarpe all’ingresso e si
guardò di sfuggita allo specchio: i
suoi capelli sembravano una balla di fieno, gli occhi erano appestati
dal sonno
e indossava ancora il pigiama azzurro decorato con la stampa di
pulcini.
Purtroppo, il suo guardaroba era andato distrutto con la sua stanza,
quindi
avrebbe dovuto fare a meno anche dei calzini per un po’.
Guardò un’ultima volta
l’astronave: era silenziosamente accasciata nel parquet,
divelta e ammaccata,
sembrava stanca e appesantita da un grigiore intenso. Se non fosse
stato per il
fumo che usciva da vari, piccoli, fori nell’intelaiatura, gli
sarebbe parsa il
corpo esamine di un maestoso e massiccio animale con una strana
malattia della
pelle. Stava per
aprire la porta di casa
quando un piccolo dubbio si insinuò nella sua mente.
Trovò il block notes in
cucina, strappò un foglio e scrisse con una calligrafia
ordinata:
“Torno
subito.”
“P.s:
se
mia madre torna prima di me, non mangiatela , per favore. Non
ancora.”