Anime & Manga > Death Note
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Autore: MadLucy    04/01/2013    1 recensioni
Giappone, 2025. Nel vecchio quartier generale dell'SPK cresce una bambina, consegnata quindici anni prima da Mello al suo più acerrimo rivale.
Inghilterra, 2025. Un misterioso studente della Wammy's House parte per il Giappone, portando con sè un quaderno nero e una Shinigami petulante.
Usa, 2025. Un esperimento genetico iniziato nove anni prima, il cui scopo era creare un essere umano dall'intelligenza devastante, ha esito positivo.
Spagna, 2025. In seguito a una serie di barbari e atroci omicidi, una ragazza dagli occhi rossi viene internata in un manicomio.
E Death Note può ricominciare lì dov'è finito.
Genere: Generale, Malinconico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri personaggi, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Inseguimento.


C'era un silenzio piatto nella stanza, nè gradevole nè spiacevole. Quieto, placido, come un mare stanco di oscillare. Stagnava, quel silenzio, sfiorandoli senza toccarli.
Law giocherellava con il polsino della camicia, lo sguardo attentamente assorto; Rail era affacciata alla finestra e seguiva con occhi distaccati le automobili apparire e svanire dietro i palazzi. Rowena misurava la stanza con passi scomposti e saltellanti, come una bambina euforica, ma sembrava voler tacere un segreto.
-Non funzionerà mai.- sentenziò Rail, freddamente, gli occhi ridotti a fessure.
Law esitò. -Sei sicura che verrà?- domandò nervoso, quasi dando ascolto alla Shinigami.
Rowena sorrise, trasognata, come vedesse attorno a sè la scenografia di un sogno che nessun altro poteva cogliere.
-Verrà.- disse semplicemente, con la ferma tranquillità di una veggente. -E' ora di cominciare.-
Law annuì con la testa, pensoso. Gli riusciva ancora difficile credere alla riuscita di un piano tanto elementare quanto assurdo, ma la ragazza aveva afferrato con efficienza le redini della situazione e lui non aveva avuto la voglia o il coraggio di dissuaderla. Dopotutto non conosceva L, lei sì. Per la prima volta nella sua vita, occorreva fidarsi.
Si alzò in piedi e, preceduto da Rowena, uscì dalla porta di quella stanzetta muffita, spoglia, scrostata da anni: nessuno abitava, in quella palazzina a pezzi. Un semplice condominio, che però nascondeva qualcos'altro. Scendendo le scale, nessuno parlò.
Rowena, raggiunto il piano terra, lasciò che Law svanisse in una stanza e si fermò davanti alla porta. Aveva una vecchia amica da riabbracciare.
Rise, sul palato il sapore di un giorno pregustato per troppo tempo, e decise di dare il via agli ultimi atti di quella commedia. All'ultima battaglia di quella guerra.

Marion fissò con insistenza le parole sullo schermo, imprigionata in un silenzio irato. La sua fronte si corrugava e distendeva, mentre tentava di dare un senso a ciò che aveva davanti.
-E' un indovinello, suppongo.- sbuffò infine, scocciata. -Un rebus.-
Harmony sogghignò. -Pane per i tuoi denti, direi. Sei o non sei la grande figliastra di Near eccetera eccetera?-
Per tutta risposta la ragazza la fulminò con lo sguardo, prima di spostarlo stancamente sulle parole immobili nello schermo.
via kuromi Dokoi 49, Kyoto
Marion, dopo un lungo indecifrabile sguardo all'indirizzo, iniziò a parlare.
-Ci sono due cose che mi saltano subito all'occhio. Uno, è scritto in caratteri occidentali: perchè mai, visto che siamo in Giappone? Secondo. L'errore di grammatica.-
Indicò con il pallido indice una lettera. -Perchè scriverla in minuscolo, visto che sembra un nome proprio? E mettendo caso che sia una distrazione, perchè scrivere l'iniziale seguente in maiuscolo? E' una contraddizione.-
La bambina seduta accanto a lei le strattonò imperiosa la manica. Una scintilla nuova improvvisamente baluginava nei suoi occhi, qualcosa che sarebbe potuta essere brama o urgente intensità.
-Cosa c'è?- esclamò Craig, preoccupato. -Ti senti male?-
Marion sorrise lentamente, comprendendo all'istante. -... macchè male. Datele una cartina! Su!-
Tennyson, interdetto, obbedì comunque senza fiatare. Frugò in un cassetto della scrivania ed estrasse una cartina di Kyoto, spiegazzata e sbiadita; poi la spiegò rapidamente davanti alla piccola.
Marion, precipitosa, le tese una penna biro. Lei fissò la pianta, che si riflesse nello specchio degli occhi terribilmente neri. Silenzio.
Con un gesto brusco e improvviso, paragonabile al boato di un tuono, la bambina tracciò una sbarra lunga e netta sull'intera cartina. La sua espressione non si increspò.
Craig sobbalzò, Harmony imprecò, Marion aggrottò gli occhi e Tennyson la guardò male.
-Non è a Kyoto.- mormorò Marion. Il suo cervello lavorava. Non aveva voglia nè tempo per gli indovinelli, L era in guai seri... come aveva potuto essere così avventata, così sprovveduta?! Cosa aveva con sè? Qual'era il suo piano? Perchè diamine non li aveva coinvolti?! Tutte quelle domande affollavano la sua mente e si affacciavano ripetutamente alle sue labbra, ma le reprimeva infastidita: nessuno dei presenti conosceva le risposte. Per quel che ne sapeva, L poteva essere bella che spacciata. Eppure una vocina nella sua testa, quella positiva e fiduciosa, le ricordava quanto sveglia e sorprendente fosse la detective e la esortava a confidare in lei, che sicuramente sapeva cosa stava facendo...
La piccola attese, le iridi immobili. Tennyson si voltò verso la bionda, in attesa di un ordine.
-La cartina del Giappone.- ribattè lei, domando la confusione nella sua testa. -L'abbiamo?-
Lui ci pensò un attimo, prima di estrarla da un mobile e poggiarla sul tavolo. Aveva uno sguardo circospetto, quasi temesse che anche quella facesse la fine della precedente.
Ma la bambina, senza esitazioni, allungò la penna e con un gesto preciso e misurato cerchiò una città.
Marion impallidì. -Yokohama.-
-Yokohama?- ripetè Harmony, confusa. -E che c'entra adesso Yokohama?-
Marion capì. Un'idea fugace le illuminò le iridi verde pallido, così prese a scribacchiare freneticamente nei frammenti bianchi della carta. Vi fu una pausa sgomenta, in cui la bambina osservava tranquilla la soluzione apparire sul foglio e tutti gli altri cercavano di capire cosa fosse saltato in testa a Marion. Nessuno fiatò, per non sconcentrarla.
-E' un anagramma.- esclamò infine lei, fissando esultante la risposta. -Dando alle lettere un ordine diverso, compare "molo di Daikoku".-
Harmony squadrò le lettere, sospettosa. -C'è solo una d, sister. Non può esserci quel "di".-
L'amica esordì un sorriso ampio, euforico, come se sperasse in quell'obiezione.
-Guarda il numero! 49. "D" non è forse la quarta lettera dell'alfabeto? E "i" non è forse la nona?-
-Sbalorditivo.- ribattè Tennyson stupito. -Una cosa davvero ben congegnata.-
Marion fece una smorfia. -Beh, a dire il vero rimangono fuori delle lettere... avanzano una "v" di via e due "i".-
Lanciò un'occhiata interrogativa alla piccola vicino a lei, una domanda muta negli occhi. Lei allungò nuovamente la penna sulla cartina e, lì dove Marion aveva ricomposto il nome, con una grafia inaspettatamente tonda ed infantile, scrisse 7.
La bionda rimase in silenzio una decina di secondi, mordicchiando il labbro inferiore, con sguardo corrucciato. Poi capì e battè le palpebre.
-I numeri romani. Certo... VII in numeri romani è sette! V, i, i.-
Harmony alzò gli occhi al cielo. -Minchia, che roba contorta. Solo tu potevi arrivarci...-
-No, non solo lei.- replicò Tennyson, facendo un cenno verso la piccola silenziosa, che sembrava essersi ritirata nuovamente nella sua apatia e stava per essere riavvolta in una cappa impenetrabile.
-Sette dev'essere il numero civico.- affermò Marion, alzandosi in piedi. -Su, andiamo.-
Craig e Tennyson si alzarono dalle sedie e la seguirono a ruota, senza una parola; Harmony sollevò il capo, una protesta dipinta in volto.
-Ma puoi spiegarmi, per piacere?! Il numero civico di che cazzo?!-
-Ma non hai ancora capito?- Marion le lanciò un'occhiata penetrante, un po' tetra. Il suo volto s'era rabbuiato, e la linea rigida delle labbra s'inasprì. -Kira ha dato appuntamento ad L esattamente dove è avvenuto il primo scontro finale.- Prima che Harmony potesse mormorare quel nome, lo fece lei. -Yellow Box.-
Si voltò, facendo per uscire, ma Tennyson la prese per il braccio. -Aspetta! Partiamo così?! Dobbiamo prendere delle armi... e la bambina? La lasciamo sola?-
Marion riflettè in silenzio, osservando il viso bianco della piccola. -Qui è più al sicuro che in qualsiasi altro posto al mondo.- gli fece notare. -Comunque hai ragione, prendi in cassaforte quattro pistole.-
Mentre il ragazzo si affrettava ad ubbidire, la porta dell'ufficio si aprì. Chi accidenti è adesso? pensò esasperata, battendo impaziente un piede a terra. Ogni minuto era prezioso: Yokohama era terribilmente vicina a Kyoto, e probabilmente L era già arrivata. Nella sua mente le più atroci immagini si increspavano e inarcavano e infrangevano l'una contro l'altra, come onde di un mare inquieto, in un terrore confuso e stordito che prima si attutiva e poi imperversava con frenetica insistenza. Era nella rete di Kira che si era imprudentemente avventurata, L, come vittima inconsapevole e dannatamente temeraria, armata solo della sua inflessibile presunzione. Dovevano sbrigarsi, sbrigarsi, fare più in fretta, una cantilena rotta nelle sue orecchie.
Lidner e Gevanni fecero capolino dal corridoio, e le loro espressioni spaventate affilarono ancora di più la smorfia di Marion.
-Ragazzi! Ma cosa avete intenzione di fare?!- sbottò Lidner, negli occhi un'ansia che oscillava fremente tra la rabbia e la preoccupazione. C'erano delle telecamere, nell'ufficio, perciò avevano ascoltato tutta la conversazione. Tennyson sbuffò silenziosamente, prevedendo la sfuriata che stava per essere loro propinata, e sperò che almeno finisse il prima possibile.
Marion tagliò corto, bruscamente. -Dobbiamo andare adesso. Non abbiamo tempo di fermarci a chiacchierare. L è in pericolo.-
Credeva che Lidner l'avrebbe sgridata, minacciata, supplicata, dissuasa. E credeva sbagliato. La donna la fissò negli occhi, leggendovi la stessa determinazione di ferro aguzzo che l'aveva fatta infatuare, un tempo, di Mihael Kheel. La fissò negli occhi e comprese. Era una storia a cui bisognava dare un finale: a cui lei doveva dare un finale. La sua bambina, la frugoletta minuscola e indifesa fra le sue braccia, la piccola con le trecce bionde che giocava con i puzzle del suo tutore. Grande, ormai.
-Veniamo con te.- disse, con una voce incrinata che non ammetteva repliche. La ragazza annuì, ma la sua espressione non si ammorbidì.
Gli occhi di Gevanni caddero sulla bambina seduta lì dietro, al computer. Avvertì la bocca inaridirsi, mentre lei rispondeva al suo sguardo con apatia imperturbabile.
-E'... è lei?- domandò con voce esitante. Harmony ridacchiò fra sè.
-Ahah... sensi di colpa.-
Marion le lanciò un'occhiata bieca. -Tu datti una mossa, Sirenetta.- L'appena citato soprannome veniva attribuito a Harmony solo quando qualcuno si innervosiva nei suoi confronti, ed era riferito alla bella chioma fiammeggiante di cui andava tanto fiera.
Anche Lidner vide la piccola. La osservò circospetta, dubbiosa, un po' incerta, quasi non sapesse come comportarsi con lei e provasse una sorta di timore cauto.
-Forse conviene che venga con noi.- commentò infine, distogliendo in fretta lo sguardo da lei. -Potrebbe rivelarsi ancora utile.-
-Vero. Marion?- Craig si voltò verso la bionda, arrossendo ancora per ciò che era successo poco prima, sapendo che spettava a lei l'ultima parola.
Marion aveva notato l'atteggiamento dei due agenti verso la figlia di Near, non le erano sfuggite quelle occhiate colme di disagio e nervosismo.
-Fate decidere a lei.- concluse, con voce aggressiva e tagliente, quasi per ribadire il fatto che lei era una persona e poteva benissimo scegliere cos'era meglio per sè.
Tutti si voltarono verso di lei. La bambina invece non guardava nessuno mentre si alzò e, con passi leggeri, affiancò Craig. Ormai, per lei, corrispondeva ad una figura affidabile e familiare.
E, dopo aver svolto gli ultimi brevi frettolosi preparativi, quella strana comitiva prese l'elicottero e partì.

Craig non era un codardo.
Nella sua famiglia, non si conosceva il reale significato della parola vigliaccheria: tante volte, nel periodo ombroso e confuso della sua infanzia, due bambini dalle chiome rosse e scompigliate avevano chiesto a Linda di raccontare la storia di Mail Jeevas. E lei, una stanchezza sfocata ad offuscare il bagliore vivido dei suoi occhi celesti, mormorava con voce pallida e sfibrata le sue emozionanti e pericolose avventure -era stato lui stesso a narrargliele, molti anni prima, giocherellando con i suoi capelli biondi e fumando sigarette dal sapore aspro; Linda non sapeva quali fossero vere e quante semplici favole per incantarla, ma le riferiva senza imprecisioni, paziente e forte. Già, forte, Linda, forte nonostante avesse visto il sangue del padre dei suoi figli imbrattare l'asfalto, nonostante quei piccoli gemelli dai capelli scarlatti li avesse cresciuti da sola. E il finale della storia, sempre, inesorabilmente, era quello in cui l'eroe si sacrificava per aiutare il suo migliore amico. Ma i suoi figli non piangevano mai. Erano felici, loro, di avere avuto un papà così coraggioso, proprio come quelli dei film. Quando ormai erano cresciuti e riuscivano a rendersi conto della loro perdita, non erano più capaci di trovare spregevole quella morte solitaria.
Craig aveva sempre stimato suo padre e sperava di poter fare qualcosa di simile anche lui, di rendere onore alla sua memoria salvando a sua volta coloro che amava . Ed ora quel desiderio sembrava essersi avverato.
Pareggiare i conti con Kira... l'idea a volte sembrava esaltante ed altre spaventosa. Ma in quel momento particolarmente spaventosa. Non era così impavido da rimanere indifferente, davanti alla prospettiva di morire, ma chi lo sarebbe stato? L'idea che a lui, o alle persone a cui voleva bene, venisse fatto del male era inconcepibile e atroce.
Smise di agitarsi nervosamente sul sedile di stoffa grigia e volse lo sguardo dietro di sè: Harmony, la testa reclinata contro il petto, era scivolata in un sonno inquieto. La chioma fiammante era drappeggiata sulle spalle ed adagiata contro le setole dello scomodo cuscino; la sua fronte si corrugava febbrilmente, come incalzata da un incubo. Craig sorrise, quasi inconsapevolmente.
Il desiderio disperato, la necessità strenua di proteggere sua sorella era come un affondo di spada nel suo petto, un dolore tormentoso a cercare un sollievo irraggiungibile. A volte provava l'orrenda sensazione che le sue braccia fossero troppo deboli per stringerla e sottrarla ai pericoli, che ricadessero come oggetti inservibili lungo i suoi fianchi. Aveva bisogno di saperla al sicuro, aveva bisogno di quella sola certezza, che in mezzo al delirio Harmony sarebbe stata bene. Ma era chiedere troppo, e benchè ragazza era forte, forse più di lui. Non poteva imporre alcuna autorità su di lei, nè pretendere che rimanesse in disparte. Tanto non l'avrebbe fatto. Era sicuro che, se le fosse capitato qualcosa, sarebbe stata una parte di lui a morire. Immaginare la vita senza Harmony significava spogliarla, mozzarla a metà, districare i fili che la tessevano e lasciare solo un ammasso di confusione incolore.
Poi si girò dall'altra parte. Sul sedile opposto sedeva la bambina senza nome, che fissava con occhi imperturbabilmente assorti il cielo vorticoso oltre il piccolo oblò tondo. Sul vetro era ombreggiato uno sbiadito riflesso delle sue iridi d'ebano, e la sua espressione era gesso inafferrabile. Un vero mistero, come lo era stato Near prima di lei, d'altronde. Craig si chiese quanta della sua freddezza fosse dovuta alla sua indole e quanta alla sua vita probabilmente terribile nel laboratorio genetico, e se fosse stato possibile sciogliere lo strato di brina che la isolava dal resto del mondo. Provava una strana e piuttosto irragionevole responsabilità nei suoi confronti. Forse perchè era stato lui ad andarla a prendere in America, a rivolgerle per primo la parola. In ogni caso, gli sarebbe sembrato assurdo che una bambina così piccola fosse costretta a versare il suo sangue innocente in quella guerra folle, combattuta a causa di folli.
Scostò gli occhi da lei e, con un sospiro spezzato, lo riconcentrò verso lo schermo del computer sulle sue ginocchia. Respirò a fondo, ma l'odore asprigno del sangue sul palato non lo abbandonò, come uno spettro nefasto a girargli intorno. La sua espressione rimaneva accigliata, mentre i minuti scorrevano lenti e faticosi con beffarda freddezza.
Quasi non sentì i passi irrequieti contro il pavimento rivestito di moquette lisa e scura.
-Hai trovato qualcosa?- Una voce lo fece sobbalzare, vibrando vicina al suo orecchio. Una voce vigorosa e fresca che conosceva bene.
Sorrise a Marion. -Niente di che. Soltanto, ho scoperto che lo Yellow Box è stato trasformato pochi anni fa in un palazzo, con l'intenzione di farlo divenire un grande centro commerciale. Poi però il progetto è stato abbandonato, così al momento rimangono solo grandi locali vuoti, in attesa che l'intero edificio venga smantellato o ristrutturato. Ma ci vogliono tanti soldi.-
La ragazza annuì distrattamente, poi lo guardò negli occhi con intensità. -Dovresti spegnere questo affare e riposarti un po', prima dell'atterraggio.-
-Troppi pensieri per la testa.- Abbozzò un mezzo sorriso, appena un po' nostalgico.
Marion battè le palpebre, le iridi verde perla luminose di un polveroso senso di colpa, e abbassò lo sguardo verso il bracciolo del sedile.
-Ti capisco. Mi sembra... beh, mi sembra quasi di essere stata io a trascinarvi in questo casino, di non avere agito pensando al vostro bene ma solo alla mia vendetta... e se dovesse capitare il peggio, non so come farei a sopportare questo pensiero.- Scosse la testa, affranta.
Craig impresse con forza gli occhi castani in quelli di lei, finchè non li incontrò. -Scherzi, vero? Ascoltami: siamo grandi abbastanza da rispondere delle nostre azioni e delle nostre scelte, quindi tu non c'entri un cavolo. La colpa è solo nostra, se ci succede qualcosa. E credi forse che noi non agiamo in parte per vendetta?! Abbiamo sopportato ma non dimenticato, Marion.-
La ragazza lo fissò per un po'. -Deve andare tutto bene. Deve. Abbiamo una sola possibilità di successo, una sola occasione. O si vive o si muore. Voglio farla pagare a Kira più di qualsiasi altra cosa, ma mi capita di voltarmi indietro, vedere voi... ho già perso Near. Non sto facendo tutto questo per piangere altre morti.-
Era vero, e tacquero entrambi sotto il peso gravoso di quelle parole. Craig la osservò con la coda dell'occhio, cauto, cercando di non farsi cogliere in flagrante: Marion aveva raccolto i capelli in una lunga coda, che ricadeva come un fascio di grano spiegazzato contro la sua spalla. Il loro colore era sempre stato strano: un oro pallido rilucente però di una certa adamantina trasparenza, come vetro dorato, una stella fredda sotto la luce. Probabilmente era dovuto alle origini tedesche di suo padre. Aveva le guance sbiancate dalla preoccupazione e il suo labbro inferiore era arrossato per i troppi morsi. Anche le ombre bluastre pennellate sotto le palpebre erano scavate dal tormento. Però la scintilla metallica e inflessibile conficcata nei suoi occhi persisteva, con una tenacia immortale, quella che si era accesa nel vedere il corpo senza vita di Near e non si sarebbe spenta finchè il suo assassino non avesse fatto la stessa fine. Era la sua forza inarrestabile ciò che la rendeva così speciale agli occhi di Craig, quella ruvida durezza che sapeva essere arma e scudo secondo le circostanze, quell'atteggiamento di costante ed insfaldabile sfida nei confronti della vita, nonostante le terribili batoste che si erano abbattute su di lei. Marion marciava di notte sotto la tempesta da tempo, ma proseguiva senza lasciarsi sopraffare, barcollava senza cadere.
Marion, soffocata dai suoi pensieri insistenti e impetuosi, si lasciò scivolare sul sedile accanto al suo. Il suo sguardo vorticava sul sedile di fronte a lei senza cercare niente nè trovare nulla.
Craig avvertì un nodo di parole non dette strattonare impaziente nella sua gola. Si rese conto che era il momento di liberarsene.
-Senti, Marion, io... sono cresciuto con te, e non avrei mai potuto immaginare...- Sospirò, ridacchiando del suo stesso imbarazzo. -Credevo che tu fossi la mia migliore amica, ma... non è affatto così. Sei molto più importante di quando finora non abbia mai ammesso con me stesso.-
La ragazza lo fissò sgranando appena le iridi, interdetta, quasi tentando di metabolizzare il significato delle sue parole. Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma si bloccò e le strinse lentamente.
-Insomma, adesso sono qui come un idiota a cercare le parole giuste per dirti che sono innamorato di te, e non ci riesco nemmeno troppo bene.- concluse Craig, tutto d'un fiato, e la sua voce si affievoliva man mano che la frase scorreva.
Sul viso di Marion prese forma un sorriso pieno e sincero, inaspettatamente dolce. Inaspettatamente morbido sul suo viso accigliato.
-Beh, e che cosa aspettavi per dirmelo? Che morissimo?-
Con un movimento un po' troppo svelto per i sensi annebbiati di Craig, si allungò verso il suo viso e lo baciò sulle labbra, un bacio lento e lungo che la bambina sul sedile opposto pudicamente non osservò. E intanto Harmony russava poco beatamente dietro di loro, ignara di ciò che stava succedendo ad un sedile da lei.

L infilò i pollici nelle tasche del largo poncho in lana multicolore. Già, di solito un poncho non ha le tasche, ma Travis l'aveva fatto confezionare apposta, su misura per lei: un regalo pensato, un gesto gentile e caloroso, colmo di quel sentimento che la pelle di L non conosceva più. Disperatamente innamorato di lei, Travis. Sospirò e fissò l'asfalto bagnato del marciapiede, strofinando la punta della scarpa contro quella pietra sgretolata e intaccata e consumata dai troppi passi, con accigliata assorta distrazione. Se avesse potuto evitargli tutta quella sofferenza gettata in un pozzo senza soluzione, l'avrebbe fatto. Gli aveva sempre voluto bene, ma mai come lui sperava. Non c'era futuro per lei e un uomo: L sapeva qual'era il suo destino e taceva una rassegnazione disarmata senza protestare. E poi, nonostante non avesse mai imparato ad interpretare i suoi sentimenti e ad interessarsene, poteva affermare con una certa sicurezza di non essere innamorata di lui. Ad essere sinceri, nè lei nè suo padre avevano mai capito bene cosa l'amore fosse.
Era un pomeriggio uggioso, grigio ed umido di un'apatia consueta. Il cielo, una cappa inquinata e fetida come acqua sporca, ammantava le strade incombendo sulla città con insoffribile pesantezza, gravando in nubi stanche e sporche di quella pioggia che non avrebbero liberato, non oggi. Le macchine, di colori opachi e spenti, attraversavano la strada di fronte a lei con misurata velocità, nè lente nè rapide ma con prevedibile tempismo, e i semafori lampeggiavano avvertimenti stinti. L'unico negozio all'angolo, un antiquariato buio, era vuoto. Il silenzio imperfetto che regnava sapeva di consuetudine già vissuta incapace di stupire.
L giocherellò con le frange del suo poncho, con le nappe che vi penzolavano senz'arte. La zona attorno allo Yellow Box non era più disabitata come un tempo -in quindici anni cambiano un sacco di cose, gli abitanti di Yokohama avevano deciso di sfruttare quel terreno per costruire fabbriche ed istituire quartieri periferici, ma non era nemmeno il fulcro dell'attività. La ragazza si guardava intorno senza interesse, e nulla tratteneva il suo sguardo per più di tre secondi di orologio. Era giunta lì in treno (la stazione sorgeva a pochi isolati dal luogo d'incontro prestabilito) e ci aveva messo all'incirca tre ore, passate a rimuginare sulla politica e sfogliare vecchi manuali di cucina su come cucinare il tacchino -informazioni che acquisì senza esserne particolarmente interessata, ma il portariviste nello scompartimento era quello che era. Si era anche chiesta a che ora sarebbero arrivati Marion & Co: non metterli al corrente della sua partenza era stata semplicemente una cortese dimostrazione di tenere alle loro vite, e perchè no? magari una specie di test. Sapeva benissimo che avrebbero risolto l'enigma dell'indirizzo e l'avrebbero raggiunta al più presto per aiutarla. Anzi, era tutto previsto nel suo piano.
Così adesso era lì. La porta dell'edificio che un tempo fu lo Yellow Box era chiusa con diversi catenacci, che avevano sferragliato mugghiando infastiditi appena lei aveva tentato di bussare; affacciata al marciapiede, attendeva qualcosa.
Stava giusto pensando che aveva intenzione di comprare quel bel frigorifero a forma di cabina telefonica rossa londinese che aveva visto su un catalogo, quando avvertì una mano minuta e forte artigliarle la spalla con delicatezza. L non distolse lo sguardo fisso in alto, verso il cielo plumbeo.
-Buon pomeriggio, Rowena. E' un po' che non ci vediamo.- esordì a voce bassa, colloquiale e un po' distratta. La sua disinvoltura non era artificiosa, la spalla sotto la pressione delle dita era ferma e salda. La paura che aveva provato a tredici anni di fronte alla ragazza dagli occhi rossi era scemata gradualmente, fino ad esaurirsi in mera sprezzante compassione. Esisteva al mondo molto peggio della sua spasmodica insanabile pazzia e di un ragazzetto vanaglorioso dalle distruttive manie di grandezza, lei non stava certo combattendo i veri mostri annidati nell'universo ma soltanto due spostati arroganti e violenti. Avere paura era sciocco e controproducente, e comunque in quel momento non sarebbe servito a nulla.
-L.- La voce di Rowena era un sibilo euforico, che vibrò intenso nelle sue orecchie come una scarica elettrica. Dopo qualche secondo gravido di trepidante impazienza, la voltò stringendole le braccia con uno scatto fulmineo. Rowena aggrottò le sopracciglia, contrariata. Al suo sguardo ombroso di disappunto si presentava una maschera immacolata e liscia, che copriva interamente il volto di L. Solo gli occhi bicolori ammiccavano sarcastici verso di lei, e irregolari ciuffi di capelli celesti ricadevano sulle sue spalle coperte dal poncho.
Ma la ragazza si ricompose subito, la delusione nel vedere quel viso di nuovo nascosto parve dissolversi e si affrettò a sogghignare, battendo le ciglia con troppo vigore.
-L, L... che gioia vederti, finalmente. Tu sei come l'aria, L: sei ovunque ma da nessuna parte, ti cerco e mi scappi sempre, anche se sei proprio lì, intorno a me... poi allungo le mani e non riesco mai ad afferrarti.-
L la esaminò con un'occhiata fredda, quasi ammonitrice. Non era cambiata per nulla, in tutti quegli anni, sembrava la stessa tredicenne che l'aveva aggredita come un animale nella sua casa a Damasco. Il suo viso non era maturato, non dimostrava affatto la sua età, e gli occhi di sangue scuro sarebbero sempre stati oltre ogni classificazione.
-Vogliamo procedere? Siamo qui per uno scambio, se non erro.- dichiarò spazientita. Gli inutili, gingillanti preamboli di cui abusava in continuo per divagare scioccamente la esasperavano.
Lo sguardo rossastro di Rowena si ravvivò, come braci che riprendono ad ardere sotto la cenere. -Niente scambio, cara L. Ti ho ingannata... hihihi! Ti ho ingannata, sciocchina di una L. Ovvio che non ti do lui! Lui è mio, L! Lui è mio... E tu mi hai creduta e adesso sei qui!-
La sua risata era acuta, trillante, stridula in maniera improbabilmente irritante e il suo divertimento era incomprensibile ma sincero; strillando quelle parole, invasa da uno spasmo di entusiasmo quasi isterico, saltellò sul posto e battè le mani bianche e sottili. Con un gesto subitaneo a cui era impossibile sottrarsi le strinse il polso e la attirò nel buio dietro la porta, socchiusa poco prima senza che L se ne accorgesse.
Intanto Law aspettava paziente, e all'elicottero diretto a Yokohama mancavano solo venti minuti per giungere a destinazione.







































Note dell'Autrice: Mamma mia che ritardo! ^-^" Ah, mi vergogno immensamente. Ma che dire, il mio tempo è davvero ridotto ai minimi storici!
Ho cercato di curare il capitolo il più possibile, anche perchè ci stiamo inesorabilmente avvicinando alla fine. Manca poco allo scontro finale: che cosa succederà, che parte avranno i diversi personaggi? E inoltre ci sarà il primo incontro tra Law e Marion...
... = guai. XD
Scusate se non ho nemmeno risposto alle vostre recensioni, sono davvero un'ingrata! Giuro che non succederà più! Mi inchino al vostro giudizio,
Lucy
  
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