Titolo:
Là, dove la neve non ha fretta di cadere
“Ragazzi,
fatte attenzione
alla vetrata!”.
“Non
preoccuparti Esme”
risposero all'unisono Emmett e Jasper “non è la
prima volta che portiamo un
abete dentro casa”.
“Già,
è proprio per questo
che vi sto avvisando” replicò lei portandosi le
mani al viso e socchiudendo gli
occhi quando la punta dell'albero sfiorò il lampadario.
Rosalie
sbuffò sulle scale.
“Vedo che anche quest'anno avete preso l'albero
più piccolo della foresta.
Possibile che non riusciate mai ad agire con moderazione!”.
I
due ragazzi sollevarono
l'abete e lo infilarono in un grande vaso pieno di terra che era stato
posizionato
in soggiorno. Emmett alzò le braccia al cielo per
protestare. “Dai, Rose! Non
dirmi che non ti piace”.
“Non
ho detto questo. Dico
solamente che è troppo grande”.
“Gli
alberi di Natale non
sono mai abbastanza grandi” affermò Jasper
togliendosi via di dosso un po' di
terra.
“Sono
d'accordo. Anche se
questo in particolare sembra essere enorme e noi non abbiamo abbastanza
decorazioni
per abbellirlo” fece notare la madre.
Emmett
era incredulo:
avevano diverse scatole con palline dorate, verdi, blu, bianche,
nastrini
stretti, larghi, festoni, punte dorate, luci … cos'altro ci
voleva?
In
quel momento entrarono
Edward e Alice. Il primo a parlare fu Edward che aveva sentito il
pensiero di
Emmett. “Abbiamo tanti addobbi ma niente di coordinato per un
albero così
grande”.
Alice
cominciò a saltare da
una parte all'altra. “Lo sapevo, avevo avuto una visione di
noi quattro che
facevamo compere per l'albero ma non riuscivo a capirne il motivo.
Quest'albero
è semplicemente meraviglioso!” e, gettandosi tra
le braccia di Jasper, aggiunse
“Sei stato tu a sceglierlo?”.
“Sì”
rispose velocemente
lui.
“Non
è vero! L'ho scelto
io!” lo contradisse Emmett spingendolo appena con un sorriso
largo sulle
labbra.
Esme
si avvicinò all'albero
e gli diede un'occhiata: era proprio bello, la distanza fra i rami era
regolare
e perciò non ci sarebbero stati agglomerati di palline
seguiti da imbarazzanti
vuoti. Lei voleva che tutto fosse semplice ma elegante. Si
voltò e guardò
Edward per capire se avesse sentito i suoi pensieri.
Il
figlio fece un sorriso
sbilenco. “Non guardarmi, io non andrò a fare
compere. Sarà meglio che te la
sbrighi con loro quattro”.
“Io
non vado da nessuna
parte” brontolò Emmett.
In
un batter di ciglia
Rosalie gli fu accanto. “Tu hai fatto il danno” gli
disse indicando l'enorme
albero “e tu aiuterai a risolvere il problema”.
“Ben
detto, Rose! Andiamo a
prepararci, si parte!” strillettò Alice.
In
breve i quattro furono
pronti e sentite le richieste della madre partirono con il fuoristrada,
incrociando Carlisle che rientrava da lavoro.
Il
suono dei clacson
raggiunse i due ancora in casa. Esme, pensierosa, diede un'altra
occhiata
all'abete. “Non preccuparti” le sussurrò
Edward mettendole una mano sulla
spalla “vedrai che gli piacerà”.
Lei
allungò il braccio e
posò la sua mano su quella del figlio “Sai anche
tu che non è vero”.
Edward
non replicò.
Sentirono i passi di Carlisle sui gradini dell'ingresso, la porta
chiudersi con
gentilezza e poi altri passi che si interruppero sulla porta del
soggiorno.
Carlisle
restò immobile
sulla soglia con gli occhi puntati sull'albero. Edward lo
guardò in viso e
cercò di sentirne i pensieri, ma la testa di Carlisle era
vuota o forse i suoi
pensieri si erano persi. Come un automa guardò di rimando il
figlio, poi la
moglie, che gli si avvicinò per lasciarli una carezza sulla
guancia fredda,
aprì la bocca e le uniche parole che riuscì a
dire furono: “E' davvero grande,
ci vorranno un sacco di addobbi”.
Poi
si voltò e andò nel suo
ufficio dove il giovane vampiro Carlisle, alle spalle di Aro, Caius e
Marcus,
lo fissava con occhi compassionevoli dall'antico quadro.
Carlisle
posò la borsa di
pelle sul pavimento, accanto alla scrivania di mogano e si
lasciò cadere sulla
poltrona. Il suo sguardo si fece cupo, le labbra gli si arricciarono in
una
smorfia di dolore. Fisicamente stava bene, e non sarebbe potuto essere
diversamente, era un vampiro, niente avrebbe potuto scalfirlo.
Sennonché,
forse a
dimostrazione del fatto che anche loro potevano avere un'anima, un
forte
malessere lo colpì in pieno petto laddove solo un cuore puro
avrebbe sentito
dolore anche una volta smesso di battere.
La
sua testa era ancora
vuota, eppure pesava. Aveva quasi l'impressione che il mondo intero gli
stesse
accovacciato sulle spalle impedendogli di sollevare persino le braccia.
Era lì,
immobile nel tentativo di pietrificare la sua sofferenza per poi
poterla
frantumare e spargerne le polveri nell'aria, quando qualcuno
bussò alla porta
facendolo sobbalzare sulla poltrona e inducendolo a inspirare quel
tanto di
aria che rilasciò con controllata lentezza.
Lui
era Carlisle Cullen,
aveva fondato una famiglia e ne era responsabile e talvolta, spesso,
questo
significava tenere per sé le preoccupazioni, le proprie
debolezze, i propri
demoni e i ricordi dolorosi. Poco importava se accumulava tensioni e
disagi,
bisognava tenere i fili tesi abbastanza da non far slabbrare le maglie
della
famiglia e sufficientemente larghi perché nessuno si
sentisse in gabbia.
Non
c'erano recriminazioni
nella sua vita e di sicuro non si sentiva intrappolato, aveva fatto il
meglio
con ciò che aveva avuto a disposizione e considerava i
risultati come i
migliori che avrebbe potuto ottenere, ma qualche volta si sentiva come
… come
un essere umano travolto da una valanga.
Ancora
una volta qualcuno
bussò alla porta. Costava fatica rispondere a quel tocco,
Carlisle se ne rese
subito conto; rispondere significava aprire, togliere quel blocco
fisico, e
spesso circa dieci centimetri, che lo separava dalla sua famiglia, ma
significava anche far crollare le sue difese, esporsi nudo a sua moglie
e a suo
figlio, mostrar loro una parte di sé che era riuscito a
tenere ben nascosto, o
almeno così pensava.
Aveva
paura di raccontare
ciò che era stato, ciò che non avrebbe voluto
essere ma che gli eventi della
vita lo avevano costretto a diventare. Era possibile costringere
qualcuno a
essere ciò che non voleva? E il pentimento poteva davvero
ripulire un'anima
sporca? La sua famiglia lo avrebbe perdonato? Probabilmente
sì. Lo avrebbe
capito? Sicuramente lo avrebbe anche difeso. Ma la realtà
qual era? Qual era il
confine tra ciò che era sbagliato, e ciò che era
inevitabile? Ed esistevano
situazioni per le quali non era importante capire se fossero sbagliate
o meno?
Era
dura, non aveva risposte
e quelle che era riuscito a darsi non lo consolavano per niente. Si
alzò dalla
poltrona, indossò una maschera di tranquillità e
si diresse verso la porta, ma
nel brevissimo tragitto fece un unico grande errore: guardò
i quadri appesi e
si ritrovò ad affogare negli occhi rossi di Aro.
Contemporaneamente un forte
odore di abete proveniente da dietro la porta invase le sue narici e
senza
rendersene pienamente conto, dopo aver lanciato un urlo straziante,
cadde sulle
ginocchia boccheggiando per dell'aria di cui non aveva assolutamente
bisogno.
Nel
quadro appeso poteva
vedere un giovane se stesso che lo guardava con compassione, ma che non
muoveva
un solo dito per aiutarlo. La porta si spalancò e in un
secondo appena Esme ed
Edward si trovarono accanto a Carlisle.
Esme
si rivolse al figlio:
“Edward, per favore … cosa c'è che non
va?”.
Il
ragazzo non seppe dare
una risposta. “Non vedo niente, è chiuso in se
stesso e sta lottando con tutte
le sue forze per non mostrarmi niente”.
Carlisle
si portò una mano
al naso e con l'altra si tenne lo stomaco come a voler trattenere un
conato di
vomito. Esme aveva addosso un forte odore di abete che gli impediva di
respirare, ma non voleva allontanarla in modo brusco, la amava troppo,
era la
sua compagna, la donna con la quale manteneva unita la famiglia e mai,
in
nessun modo le avrebbe manifestato un qualsivoglia rifiuto.
Esme,
ignara della
situazione, strinse a sé il marito con parole di conforto.
“Carlisle, andrà
tutto bene. Vedrai che adesso passa”.
Carlisle
provò a non
respirare ma non riusciva a concentrarsi, tutta la sua energia era
indirizzata
a tener nascosto il suo passato. Edward si sentiva stravolto, voleva
aiutare ma
non sapeva come e non sapeva neanche come comunicare con il padre.
“Per favore,
Carlisle, fammi capire di cosa hai bisogno”.
-E'
l'odore dell'abete,
non mi fa respirare-
pensò tra sé il medico -Edward,
non ferirla-.
Edward
capì subito che non
si trattava solo di quello, anche perché i vampiri non
avevano bisogno di
respirare, ma era sicuro che un piccolo passo in avanti fosse meglio di
niente,
così disse:“Esme, lascialo andare. Il profumo di
abete che hai addosso è troppo
pungente”.
“Scusami,
tesoro” disse lei
rivolgendosi a Carlisle. “Non sapevo ti desse
fastidio”. Poi si scambiò
un'occhiata con il figlio “Vado a cambiarmi in
fretta”.
“Ci
troverai qui, non
preoccuparti, non lo lascio da solo”.
Come
Esme uscì dalla stanza,
Carlisle riprese a respirare con più facilità ma,
come poteva vedere lo stesso
Edward, c'era ancora qualcosa che non andava, che impediva al padre di
sollevarsi in piedi, qualcosa che da dentro sembrava volerlo trascinare
verso
il basso.
Non
riusciva a trovare una
spiegazione intelligente, degna di suo padre. Tutto sembrava essere
collegato a
quell'albero. Ogni Natale Carlisle diventava un po' cupo, perdeva un
po' di
smalto, ma i suoi figli si erano sempre detti che dopo trecento anni
probabilmente anche il Natale perdeva il suo fascino.
In
realtà gli ultimi cento
anni erano andati veloci come un razzo. Lui, Esme, Rose e Emmett erano
nati,
morti e rinati come vampiri, e tutti da neonati avevano dato qualche
problemino. Alice era giunta con Jasper e la vita nella nuova famiglia
aveva
messo in crisi anche loro. Accanto a tutto ciò c'era stato
Carlisle: forte,
paziente, comprensivo, costante, determinato, amorevole e
compassionevole.
Un
uomo la cui vita era
cambiata non un poco alla volta ma colpo dopo colpo ad una
velocità
impressionante.
Sembrava
una vita così
monotona vista da fuori: Carlisle era nato umano, rinato vampiro,
qualche
decennio viaggiando per l'Europa, l'arrivo in America e poi la
professione di
medico, e dopo tanti decenni era ancora medico, e sempre vivendo da
vegetariano.
Dietro
quella sua scelta
così singolare c'era una tale audacia, un tale avvilimento
della propria
natura, un innalzamento del proprio spirito, una continua autocritica,
uno
scoprirsi e riscoprirsi per rinascere ogni giorno migliore e degno di
se
stesso, di suo padre forse, della propria famiglia e in prima e anche
ultima
analisi degno di un Dio che forse, nonostante tutto, un giorno lo
avrebbe
amato, ecco dietro quella sua scelta c'era un uomo in costante
mutamento,
solido sulle proprie radici e convinzioni, ma aperto senza pregiudizio
verso
tutto ciò che lo circondava.
Un
uomo che aveva desiderato
avere un po' di compagnia, ma che come guida si era ritrovato comunque
a stare
da solo sulla cima della montagna dove sembra che il sole riscaldi di
meno e la
neve abbia fretta di coprire la cima.
E
alla base della montagna
c'erano loro, la sua famiglia, al sicuro, in un luogo in cui in
primavera la
neve si scioglie e i prati ritornano verdi. Una famiglia che si era
dimenticata, senza cattiveria, di volgere gli occhi in alto e che ora
stropicciandosi gli occhi con stupore osservava una valanga di
sofferenza
scendere a valle.
Edward
cinse le braccia
attorno alla vita del padre e tentò di sollevarlo. Volendo
avrebbe potuto
tranquillamente prenderlo di peso, ma desiderava la collaborazione di
Carlisle,
non voleva vederlo passivo. Tuttavia Carlisle non assecondò
Edward e rimase
giù, con il capo chino verso il pavimento.
“Carlisle,
cosa c'è che non
va? Noi vogliamo aiutarti, ma tu devi parlarci. Si tratta dell'albero?
Lo possiamo
portar via”.
Carlisle
sollevò lo sguardo
verso Edward; suo figlio, il suo primo figlio, che soffriva per lui.
Non voleva
questo, non lo aveva mai voluto.
-Dannazione!
Devo
riprendere il controllo, non è giusto-.
“Carlisle,
non farlo. Ti
prego, non escluderci dalla tua vita”.
“Non
posso, Edward. Tu non
ti rendi conto di ciò che ho fatto. Se voi conosceste le mie
azioni passate …
non puoi capire … la verità potrebbe distruggere
la nostra famiglia”.
“Amore,
no” affermò con decisione
Esme rientrando nella stanza e inginocchiandosi accanto al marito
“Niente ci
potrà mai separare, io starò sempre al tuo fianco
e i nostri figli ti ameranno
sempre”.
“Non
dovete preoccuparvi per
me, io so reggere il peso dei miei errori”.
“Nessuno
lo mette in dubbio,
ma noi vorremo portare questo carico assieme a te, per alleggerirlo
così come
tu hai alleggerito i nostri quando erano troppo pesanti”
rispose Esme.
Carlisle
era sicuro di non
meritare tutta questa comprensione, ma era anche consapevole che a quel
punto
né la moglie, né il figlio avrebbero lasciato
correre. Per un attimo pensò al
resto della famiglia uscita a far compere, li visualizzò
nella sua mente mentre
sceglievano i festoni e le palline.
E
a quel pensiero ebbe un
fremito che gli percorse tutto il corpo facendolo tremare vistosamente.
Edward
lo tenne stretto.
Esme gli rivolse uno sguardo interrogatorio. “A cosa
pensa?”.
“Solamente
ad un albero
decorato con palline”.
“No!”
urlò Carlisle
guardandosi le mani alla ricerca di qualcosa che non c'era.
“Cosa
c'è? Cosa c'è?”
continuavano a chiedere Esme ed Edward.
Carlisle
sembrava essere
assente. Continuava a fissarsi le mani e a ripetere:“Basta,
basta. Me ne voglio
andare, me ne devo andare”.
Esme
ebbe un attimo di
stordimento ma ci mise poco a riprendersi e a capire che il marito non
si
riferiva al presente ma che la sua mente era confinata in qualche parte
del suo
passato. E difatti Carlisle era tornato indietro nel tempo e ora la sua
mente
sembrava un nastro al rallentatore che, inconsapevolmente, proiettava
un film
per uno spettatore d'eccezione: Edward.
La
stanza era buia, senza
finestre, c'era solo un filo di luce proveniente da una candela che
illuminava
le pagine di un antico libro, accanto Carlisle riposava a occhi chiusi
apparentemente sopraffatto dalla stanchezza. Aro entrò senza
bussare. “Mio
giovane amico, forse la tua alimentazione non ti offre abbastanza
sostanza per
lo stile di vita che vuoi condurre. Suvvia, bere una sola persona non
ti
renderebbe un mostro”.
Carlisle
si alzò in
piedi. “Studiare non mi stanca, stavo solo riflettendo. E
comunque mi sono
dissetato appena ieri, mi basterà per tutta la
settimana”.
Aro
sorrise. “E mi è
permesso sapere su cosa riflettevi?” domandò
allungando la mano.
Il
suo gesto,
inequivocabile, non fu corrisposto e Carlisle rispose a voce:
“Non capisco
davvero perché lo si debba fare ...”.
“Ti
fai troppi problemi;
non erano obbligati a unirsi a noi, li abbiamo accolti e loro hanno
infranto la
legge e per questo moriranno”.
“Ma
perché in questo modo?”.
La
risposta che ricevette
lo gelò: “E' un modo per unire l'utile al
dilettevole”.
“Io
non ne capisco né
l'utilità, né tanto meno il diletto. Inoltre non
esiste nessuna legge che parli
di una punizione così
disumana!”continuò indicando il libri aperto sul
tavolo.
“Disumana
…” disse
ridendo Aro “disumana! Carlisle, noi non siamo umani! E loro
farebbero carte
false per non esserlo più”.
“Ma
...”.
“Ma
niente!” urlò il capo
dei Volturi stringendo i pugni. “Puoi anche decidere di non
bere sangue umano
se è quello che vuoi, ma non puoi negare che noi non siamo
umani” concluse con
voce melliflua, sforzandosi di riprendere la calma che lo
contraddistingueva.
Carlisle
non ribatté, non
poteva. Aro era paziente con lui, ma rimaneva un vampiro potente e
senza
scrupoli. Lui non era costretto a vivere a Volterra e sarebbe potuto
andar via
in ogni momento. E poi Aro aveva ragione: loro non erano umani e questo
nessuno
lo avrebbe potuto negare.
“Ti
aspettiamo in sala”
disse l'anziano vampiro “manchi solo tu, non farci aspettare
oltre”.
La
porta si chiuse e
Carlisle crollò a terra. Non voleva raggiungere gli altri,
non serviva a
niente. Se ne sarebbe stato in disparte mentre lo scempio si compieva
davanti a
lui. Non avrebbe potuto coprirsi le orecchie, né chiudere
gli occhi. Avrebbe
potuto solo guardare senza muovere un dito.
A
cosa serviva tutto ciò?
A divertire Aro e poi? Poi ad avvilire se stesso, a fargli rendere
conto di
quanto deprecabile fosse l'uomo o il vampiro che parlava bene e
razzolava male.
Carlisle, il vampiro che dava sempre tanti consigli e poi …
poi restava a
guardare.
Con
un peso sul cuore si
alzò in piedi, quella sarebbe stata l'ultima sera a
Volterra, comunque
andassero le cose la sua decisione era già presa.
Il
salone era affollato,
c'erano Aro, Marcus e Caius, le consorti e tutta la guardia. Alcuni
umani,
circa una decina, erano inginocchiati davanti ai troni, sul lato destro
della
sala era stato posizionato un grandissimo abete.
Carlisle
lo guardò con
curiosità come Aro aveva previsto. “E' in tuo
onore, Carlisle. Dici sempre che
dovremo essere più umani. Bene, tra pochi giorni
è Natale, perciò un
bell'albero è quello che ci vuole” lo
sbeffeggiò Aro indicandogli di mettersi,
come da abitudine, dietro i troni.
La
scena era sempre la
stessa: gli umani inginocchiati venivano riconosciuti colpevoli, poi
mentre
alcuni membri della guardia li tenevano fermi, altri gli strappavano
gli occhi.
Carlisle li guardava con compassione senza poter far niente mentre le
risate
dei Volturi e le urla delle vittime si confondevano nella sala.
Al
termine Aro si volse
verso l'amico e senza dire una parola allungò una mano. Era
più forte di lui,
voleva conoscere i pensieri degli altri e voleva sapere cosa c'era
nella loro
mente, non era tanto il desiderio di comprendere quanto l'ebbrezza di
poter
dire: “Voglio la tua mente e la voglio ora”.
Carlisle
allungò la mano,
non poteva tirarsi indietro, non più. Nella sua mente, ben
definita, c'era la
forte volontà di andarsene.
Aro
inclinò la testa di
lato, quasi gli dispiacesse di perdere il suo strano amico curioso e
diverso.
Ma Carlisle avrebbe potuto vivere ancora cento anni a Volterra e mai e
poi mai
sarebbe cambiato. Forse era questa la sua vera natura, pensò
il Volturo. Forse
Carlisle non si stava opponendo a se stesso ma si stava solo
nascondendo a se
stesso.
L'anziano
vampiro
sospirò, lasciò libera la mano che fino a poco
prima gli aveva raccontato una
verità che prima o poi sapeva si sarebbe avverata e con un
perverso senso della
vittoria fece entrare un vampiro.
Gli
uomini della guardia
lo costrinsero a inginocchiarsi, Aro gli si avvicinò e gli
diede una diabolica
carezza, mentre l'altro chiedeva essere perdonato. “Non ti
devi preoccupare, la
tua vita è nelle mani di uno zelante
vampiro vegetariano” gli disse indicando Carlisle.
Quest'ultimo
si mise
sull'attenti come un soldato in battaglia. Era così che si
sentiva, come un
combattente che non avrebbe perso, avrebbe lottato per quella persona,
non era
importante se fosse umano o vampiro, era una vita; avrebbe dimostrato a
tutti
quanto era disposto a fare per essere migliore di quanto era stato fino
ad
allora.
“Dimmi
cosa devo fare e
lo farò”.
“Non
ne avevo dubbi.
Seguimi” ordinò con calma.
Carlisle
gli stette
dietro di due passi, Aro lo portò davanti all'albero e dal
pavimento raccolse
una ciotola piena di occhi ... occhi degli umani che nei giorni
precedenti
erano stati condannati, ai quali erano stati aggiunti quelli ancora
pieni di
sangue vivo delle vittime uccise poco prima.
Si
voltò da Carlisle e
gli porse la ciotola. “Tieni, decora l'albero con queste
bellissime palline”.
Carlisle
guardò gli occhi
con orrore, poi osservò il vampiro a cui avrebbe potuto
salvare la vita,
tremava, le guardie lo tenevano fermo con difficoltà.
“Non
sei obbligato.
Guarda quel vampiro, sai perché sta tremando?”.
“Ha
paura”.
Aro
batté le mani in una
sorta di applauso e rise dell'ingenuità dell'altro.
“Non trema per la paura,
freme dal desiderio di succhiare via il sangue che ancora rimane in
quegli
occhi”.
Carlisle
era incredulo,
non poteva assolutamente essere così, quel vampiro stava per
morire e ancora
una volta il suo unico pensiero era il sangue.
“Vuoi
ancora sporcarti le
mani per uno come lui?”.
La
sua risposta fu
immediata: “Vale sempre la pena salvare una vita, anche la
vita di un disgraziato
ha un valore”. Con un groppo alla gola, senza che nessuno gli
impartisse alcun
ordine, prese la ciotola dalle mani di Aro e occhio dopo occhio
decorò
l'albero. Il sangue scendeva sulle sue dita e i volti delle persone a
cui
quegli occhi erano appartenuti gli comparvero una alla volta. Se avesse
potuto,
avrebbe pianto.
Terminate
le decorazioni
si avvicinò al vampiro graziato che immediatamente si
lanciò verso le mani
insanguinate di Carlisle per leccarle avidamente.
“Oh,
Signore. Lasciami,
te ne prego” gli disse sconvolto dalla bestialità
del gesto.
Aro
fece un gesto, le
guardie allontanarono il vampiro e in un attimo gli strapparono gli
occhi.
“No!
Aro, perchè?” gridò
Carlisle sentendosi tradito mentre la vittima portava le mani al viso.
“Hai
decorato l'albero e
gli hai salvato la vita. Questo ti ho offerto e questo ti do, niente di
più e
niente di meno. E poi, Carlisle … l'albero è
grande, servono più decorazioni”.
E detto ciò prese le nuove palline e le appese allegramente
all'abete.
Edward,
che aveva descritto
tutto per filo e per segno a Esme, era sconvolto tanto quanto lo era
stato il
padre quel terribile giorno. Esme prese le mani del marito e se le
strinse al
petto.
Edward
cercò di confortarlo
avvicinando il suo viso alla fronte del padre.
Carlisle
poco alla volta
ritornò presente a se stesso. “Vi prego, non
fatelo”.
Esme
si fece forte e
chiese:“Che cosa non dovremo fare? Non dovremo
consolarti?”.
“Io
non lo merito. Sono
stato a guardare senza fare niente … sono un mostro quanto
loro”.
“Non
dirlo neanche per
scherzo, Carlisle. Tu non sei come loro”.
“Avrei
dovuto oppormi”.
“Non
potevi, papà. Ti
avrebbero ucciso, lo sai anche tu”.
“E
allora? Mi stai dicendo
che dobbiamo farci guidare dalla paura? Che giustifichi la mia
passività?”.
“Sì,
papà. Io ti
giustifico”.
“No,
non farlo. Non lo
merito. Quei poveretti gridavano, imploravano per la loro vita,
chiedevano
aiuto e io non ho fatto niente”.
“Come
potrei accusarti
quando tu hai perdonato ogni mio errore, ogni vita umana che ho portato
via,
ogni mia parola di disprezzo ...”.
“Tu
eri giovane, avevi
bisogno di una guida. Se solo fossi stato più ...”.
Edward
non riusciva a
credere che Carlisle si stesse dando la colpa per gli errori che lui
aveva
compiuto. “Ascoltami bene, Carlisle. Io ho sbagliato, non tu.
Io avevo una
scelta, tu non ne hai avuto. E quando l'hai avuta, hai preferito
umiliarti
davanti a tutti piuttosto che fare del male a qualcuno”.
La
voce di Esme era un
sussurro nell'aria: “Guarda le tue mani, amore. Sono pulite,
e quando si sono
sporcate di sangue è stato sempre nel tentativo di aiutare
qualcuno”.
Carlisle
singhiozzava.
“Come
puoi solo pensare che
il tuo passato possa distruggere la nostra famiglia? Noi tutti ti
amiamo, tu
non hai compiuto nessun gesto di cui ti debba vergognare”.
“Vi
ho fatto credere di non
aver mai sbagliato ...”.
Edward
lo interruppe. “Tutti
noi sappiamo che hai vissuto con i Volturi, e conosciamo il loro stile
di vita.
Possiamo immaginare che sia stato costretto ad assistere a tanto orrore
ma mai
e poi mai riusciremo a vederti complice di un gesto tanto
brutale”.
“Amore
mio, è per questo che
ogni anno soffri tanto a Natale. Perchè non ti sei confidato
prima?”.
Carlisle
cercò di
ricomporsi, ma ogni volta che sollevava il viso l'odore dell'abete al
piano di
sotto irrompeva violentemente nelle sue narici sensibili facendogli
ingoiare
aria inutile. Facendo molta attenzione a non respirare, rispose:
“Ai ragazzi
piace decorare l'albero, sono così felici a
Natale”.
Edward
tentò nuovamente di
sollevare il padre e questa volta Carlisle lo assecondò, poi
lo lasciò tra le
braccia dolci ma sicure di Esme e raggiunse il soggiorno dove, senza
chiedere
il consenso di nessuno, tolse l'abete dal vaso e lo portò
via.
Non
c'era bisogno di andare
lontano, sarebbe bastato lasciarlo abbandonato a qualche centinaio di
metri da
casa, nel bel mezzo del bosco. Con la sua velocità in un
minuto appena rientrò
a casa, si fece una doccia e raggiunse i genitori che nel frattempo si
erano
spostati in soggiorno.
Esme
aveva lasciato aperte
le finestre per cambiare aria e allo stesso tempo aveva acceso un
bastoncino di
incenso, Carlisle era seduto nel divano e fissava lo spazio vuoto che
poco
prima era stato riempito dall'albero. Edward gli si sedette accanto:
“E' giusto
così. Non ti devi sacrificare per noi, non in questo
modo”.
Esme
ascoltava in silenzio,
sapeva che Edward e Carlisle avevano bisogno di poche parole, ma che di
quelle
ne avevano tanto bisogno.
“Vi
amo così tanto. Ho paura
di perdervi perchè mi sembra di aver costruito la mia
famiglia su una bugia,
sulla mia finta perfezione”.
“Ah,
ah!”. Una risata si
diffuse nell'aria. “Papà, non starai esagerando?
Nessuno di noi ti ha mai
creduto davvero perfetto!” affermò ridendo Emmett.
Edward
sorrise in direzione
del padre, Emmett non sarebbe mai cambiato.
“Dai,
alzati vecchietto. Ci
serve aiuto” lo provocò Jasper. “Non
sarai mai stato un soldato, ma qualche
compitino lo puoi svolgere. Tutti pronti! La truppa è
rientrata”.
Esme
era radiosa. “Cosa vi è
successo, se foste umani penserei a un bicchierino di troppo”.
“Alice
ha avuto una visione”
spiegò Rosalie posando gli occhi sul padre “E
abbiamo capito come risolvere la
questione del rinomato broncio natalizio di Carlisle”.
Il
folletto della famiglia
Cullen sfilò un albero sintetico di tre metri da una lunga
scatola, i fratelli
l'aiutarono ad aprirlo e allargarne i rami. Poi presero delle buste e
le
passarono alla madre che, dopo averne controllato il contenuto, si
avvicinò al
marito dicendogli: “Vieni, caro. Questo è compito
nostro”.
Carlisle
aveva paura di ciò
che avrebbe trovato, non voleva confrontarsi con delle palline, non
voleva
crollare davanti ai figli, voleva che fossero felici e inoltre non gli
erano
sfuggite le ultime parole di Rosalie.
“Dai,
papà, sbrigatevi. Tu e
la mamma siete troppo lenti” li apostrofò Edward.
Carlisle
guardò dentro e ci
trovò le luci e tantissimi festoni, delle palline neanche
l'ombra.
Alice
gli saltò al collo.
“Ho avuto una visione e così ho comprato solo
queste cose, senza palline”.
“E
cosa hai visto?” chiese
piano lui con timore.
“Ho
visto che finalmente
quest'anno sarà un Natale felice per tutti”.
Carlisle
l'abbraccio con
delicatezza.
Poi
fu un turbine di
emozioni per tutti. Le luci, tutte azzurre, furono sistemate per prime,
poi fu
il turno dei festoni argentati: il contrasto tra i due colori era
bellissimo.
Esme era al settimo cielo:“Semplice ma molto
elegante”.
Carlisle
le sorrise, le
buste erano ancora piene di vari addobbi per tutto il soggiorno.
“Starete
scherzando?”
esclamò Emmett “Queste buste non c'erano quando
siamo saliti in macchina!”.
“Mi
sa che Alice aveva già
fatto un po' di shopping, vero?” domandò Edward
ridendo.
Il
folletto sbuffò: “Non
vale, a Natale non si leggono i pensieri degli altri”.
“Perciò
esistono vincoli
natalizi nella nostra famiglia...” disse Jasper in direzione
della sua amata.
Esme
intervenne: “Non dite
schiocchezze, a Natale si può fare ciò che si
vuole. Io ho un vago ricordo di
una collana di pop-corn su un albero” sorprendendo tutti e
anche se stessa.
Gli
altri non avevano
ricordi della loro vita umana, era un po' triste, l'aria si faceva
pesante. Fu
allora che Carlisle prese la parola: “Anche io ricordo di un
Natale”.
Tutti
stettero zitti, sicuri
di dover ascoltare il doloroso passato del padre.
Ma
la neve che violenta cadde
sulla cima della montagna non trovò nessuno
lassù, e la valanga che poche ore
prima era scivolata ai lati del monte non aveva fatto vittime. Tutta la
famiglia era a valle, anche Carlisle, là dove la neve non ha
fretta di cadere e
leggera si deposita sui cuori di coloro che vi abitano.
“Era
il Natale del 1911,
quell'anno avevo curato la gamba a una ragazza che era caduta da un
albero e mi
ritrovai a pregare con tutto me stesso che ricevesse i regali
desiderati”.
Emmett
cercò di trattenersi,
tutti sapevano che Carlisle stava parlando di Esme, Edward lesse i
pensieri di
Alice che stava avendo una visione e cominciò a ridere in
anticipo con la
sorella che scuoteva la testa, Jasper
sentì nell'aria che qualcosa stava per accadere.
Emmett
non ce la fece e
sputò fuori d'un botto: “Ma come sei
sdolcinato!”. La gomitata che ricevette
nello stomaco da parte di Rose lo fece tossire e fece ridere tutti gli
altri.
“Sei
sempre il solito!”
rilanciò Alice.
“Dai,
non mi difende
nessuno?” chiese Emmett in direzione dei fratelli che
continuavano a ridere.
Esme
si accostò a Carlisle,
che finalmente sorrideva, e abbracciandolo gli disse: “Ho
ricevuto tutto ciò
che ho desiderato, ma solo diversi anni dopo”.
Carlisle
ricambiò
l'abbraccio e guardò l'albero decorato con luci, festoni,
amore e gioia e per
la prima volta dopo tanto tempo sentì che il Natale era
bello anche per lui.
LA’, DOVE LA NEVE NON HA FRETTA DI CADERE (Alida) 58, 10 punti
• Lessico e grammatica 9,75
• Stile 9,25
• Originalità 9,85
• Caratterizzazione dei personaggi 10
• Sviluppo della trama 10
• Gradimento personale 9,25
Il personaggio di Carlisle è sempre stato paradossalmente ai margini della storia, pur essendo il capostipite dei vampiri “vegetariani”. Questo episodio, in cui al suo personaggio viene data giusta luce, è un esempio di quanta sofferenza possa esserci stata in un animo così gentile in mezzo alla crudeltà inaudita della corte dei Volturi. La trama è stata ben sviluppata, evidenziando l’aspetto di festa, gioioso e luminoso, che dovrebbe avere il Natale, e l’altra sua faccia, l’ombra, l’angoscia che in questo racconto porta a Carlisle. Lo stile è fluido, la struttura è corretta e il personaggio caratterizzato in modo quasi impeccabile. Personalmente mi è piaciuto davvero tanto.