Ciao a
tutti!
Volevo scrivere una
one-shot da un po’ di tempo, ma mi mancava la fantasia per farlo… E poi ho avuto
l’idea di Merope. Non so a quanti possa piacere l’idea di una storia su questo
personaggio, e infatti non ne ho trovata nessuna su di lei, però spero che
qualcuno la legga lo stesso e mi dica che cosa ne pensa…
^.-
Come ho scritto nell’introduzione, la fan fiction è
dedicata a Herm90 e a
JiuJiu91, e vi consiglio di leggere le loro
storie.
Disclaimer, come al
solito: purtroppo, i personaggi non sono miei, ma di JK Rowling. Mi sono
limitata a prenderli per giocarci un po’, ma la mia storia non è stata scritta a
scopo di lucro.
Attenzione:
per chi non avesse letto “Il principe Mezzosangue”, questa fic contiene
un po’ di spoiler. Non in maniera eccessiva, ma
leggerissima, e riguardano solamente due capitoli (“La Casa di Gaunt” e “Il
Riddle Segreto”).
Baci, e buona lettura! Enjoy ^^ J
My Life
Is In Your Eyes
-
di Calliope -
Merope.
Questo
era il suo nome.
Una
ragazza, sporca e vestita con abiti strappati, si affaccendava debolmente per
spolverare uno scaffale. I suoi capelli erano color topo, probabilmente, ma il
colore era difficile da capire perché avevano un aspetto sbiadito… Aveva una
pelle pallidissima, quasi cadaverica, e un viso molto largo che la faceva
assomigliare a una rana. Il naso era schiacciato, come se avesse sbattuto contro
qualcosa di molto duro e si fosse rotto, e la bocca era ridotta a un taglio
sottile. Gli occhi, di uno slavato verde, presentavano una forma abbastanza
accennata di strabismo.
Non
c’erano dubbi che non fosse una bella ragazza, e la sua espressione era fredda e
vuota, assente.
“Merope!”
chiamò una voce gutturale dalla stanza vicina. “Figlia! Vieni subito
qui!”
La ragazza si morse il labbro con espressione afflitta, poi abbandonò lo straccio sullo scaffale e raggiunse il padre nel piccolo salotto cadente.
“Quanto
ci metti ad arrivare, eh? Schifosa Maganò…” la apostrofò lui appena la vide
entrare, anche se erano passati sono una trentina di secondi da quando l’aveva
chiamata.
Merope
abbassò lo sguardo sul pavimento. “Mi dispiace, Padre. La prossima volta sarò
più veloce…” rispose dispiaciuta.
“Solo
il Cielo sa quanto avrei voluto una figlia normale!” continuò ad inveire
Orvoloson Gaunt. “E invece mi è toccata la feccia della feccia, una schifosa
creatura senza poteri magici, alla stregua di una Babbana
qualsiasi…”
Tutte
le volte che il padre la vedeva, da quando lei aveva undici anni e aveva avuto
la conferma di non avere uno straccio di magia nelle vene, le riservava questa
odiosa ramanzina.
“Mi
dispiace, Padre” ripeté come una cantilena Merope.
“E lo
credo che ti dispiace, inutile sacco di fango!” concluse lui con un’espressione
arrabbiata. Si alzò e afferrò, senza alcun preavviso, la catena che la ragazza
portava al collo da almeno dieci anni, che terminava con un medaglione rotondo
piuttosto grande e pesante. “Sai che cos’è questo, no? È la nostra eredità. La
prova che non possiamo confonderci con i
Mezzosangue, perché tu, Orfin e io siamo i discendenti di una famiglia magica di
indiscusso prestigio. E tu, tu hai rovinato
tutto!”
Questa
volta, una lacrima solitaria scivolò sulla guancia di
Merope.
Perché,
perché, perché lei non era normale?
Perché non poteva essere anche lei una strega? Era l’interrogativo che si ripeteva incessantemente da mesi, da anni, da quando le era arrivata quella stramaledetta lettera da quella stramaledetta scuola.
… Siamo spiacenti, signorina Gaunt, ma la sua domanda di essere ammessa alla Scuola di Magia e di Stregoneria di Hogwarts non può essere accolta, poiché lei non possiede i requisiti magici adatti per proseguire gli studi …
Aveva atteso per anni quel momento, il momento in cui avrebbe potuto andarsene e fuggire da quella casa, da quella famiglia che odiava e che non la poteva soffrire. Ma tutto era peggiorato.
*
Clop. Clop. Clop.
Merope
stava cucinando il pranzo. Orvoloson, suo padre, e Orfin, suo fratello, erano
rinchiusi ad Azkaban da un paio di mesi.
Dapprima
avevano ignorato i numerosissimi gufi che erano arrivati a frotte dal Ministero
della Magia, e che, tra l’altro, avevano sporcato ancora di più la casa in
condizioni già pessime; poi avevano accolto di malo modo, ed era già un termine
riduttivo, il rappresentante dell’Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia
che era andato a consegnare di persona il mandato di comparizione in tribunale
per Orfin, che aveva aggredito un Babbano; e infine padre e figlio avevano
attaccato anche Ogden (così si chiamava il mago del Ministero), che era dovuto
tornare con i rinforzi e intentare una causa contro i due.
Quando
Orvoloson e Orfin avevano capito che non ci sarebbe stato nulla da fare, e che
avrebbero dovuto comparire davanti al Wizengamot per essere giudicati, se
l’erano presa con lei…
“Non
hai ancora preparato la cena, inutile sacco di fango?” le aveva urlato il padre
per una mezz’ora buona, a una distanza di due minuti scarsi tra un urlo e
l’altro.
E
naturalmente Orfin era ricorso ai suoi scherzi di pessimo gusto, nascondendole
sotto le lenzuola un paio di serpenti che aveva catturato in
giardino.
Merope
era rimasta traumatizzata per giorni e giorni, e aveva dormito sul divano
sfondato del salotto per una settimana.
Ma
ora, per la prima volta da moltissimo tempo, erano tutti e due assenti, e la
ragazza avrebbe potuto portare a termine il piano che studiava da mesi. Quando
il padre e il fratello erano stati condannati, il primo a sei mesi e il secondo
a tre anni, Merope aveva tirato un sospiro di sollievo.
Finalmente
era libera, e lo sarebbe stata per tutta la vita. Sarebbe scappata da
quell’esistenza misera e orribile in cui era cresciuta, avrebbe cambiato tutto.
E per questo aveva elaborato il piano…
Per
capire meglio, però, dobbiamo tornare al rumore di zoccoli sul
selciato…
Clop. Clop. Clop.
Merope lasciò cadere la pentola sul ripiano incrostato della cucina, e corse nella sua camera. Quel giorno era arrivato prima del previsto, ma non aveva importanza. La ragazza entrò rapidissima nel buco di tre metri per tre che rappresentava la sua stanza, schivò il letto e si buttò letteralmente sul cassettone. Dopo aver aperto il secondo cassetto dall’alto, spostò febbrilmente varie federe ingiallite e un paio di camicie da notte sfilacciate, ed estrasse una bottiglia di vetro piena fino all’orlo di un liquido trasparente dall’aspetto innocuo.
Se la
strinse per un secondo al petto.
Quasi
non poteva credere che il suo sogno stesse per diventare realtà. Sospirò, poi
corse di nuovo in cucina e prese un bicchiere di vetro un po’
sbeccato.
Clop. Clop. Clop.
I passi del cavallo si avvicinavano di più, probabilmente erano davanti alla casa.
Merope
sorrise, per la prima volta da anni, e si slanciò fuori dalla cucina, diretta in
strada.
Un
giovane stava passando su un nobile cavallo nero, e per la ragazza incarnava il
perfetto principe azzurro: era alto, dai capelli nerissimi e dagli occhi verde
smeraldo. Ed era molto bello.
Lei ne
era innamorata da anni, ormai, e tutte le volte che passava a cavallo per andare
alla sua casa dall’altra parte della collina, qualunque cosa stesse facendo, si
interrompeva per guardarlo. Era pazza di Tom Riddle, avrebbe fatto qualunque
cosa per conquistare il suo cuore…
“Buongiorno”
lo salutò con un sorriso stentato sul volto. La sua voce era serena, anche se un
po’ roca.
Riddle
fermò il cavallo e si girò nella sua direzione. “Buongiorno” ricambiò, un po’
disorientato. Non aveva mai parlato con la
figlia del vagabondo, come la chiamavano in paese. Non sapeva il suo nome,
niente. L’aveva vista solo cinque o sei volte, e non capiva come mai
all’improvviso fosse così cordiale, visto che aveva sempre evitato tutti come la
peste.
Faceva
molto caldo, e il sole batteva perpendicolarmente sul
terreno.
Merope
sapeva che Tom Riddle doveva essere a cavallo da molto, e vedeva le gocce di
sudore imperlargli il viso. Era tutto perfetto.
“Mi
chiamo Merope Gaunt, non ci siamo mai parlati prima d’ora” ammise con un
sorriso.
“Ehm…
penso di no” le rispose, sempre più sbalordito, il bel figlio del signorotto di
Little Hangleton.
“Fa
caldo, oggi” aggiunse la ragazza. “Davvero troppo caldo per andarsene in giro da
soli su questo sentiero assolato. Vuole qualcosa da bere?” Dicendo queste parole
mosse istintivamente di un millimetro la bottiglietta che teneva nascosta con
noncuranza dietro la schiena.
“Io…
veramente…” cominciò Riddle, ma Merope non lo fece
parlare.
“Su,
coraggio, è soltanto un po’ d’acqua. Ha paura che la avveleni, forse?” disse, e
scoppiò in una risata leggermente stridula.
Dall’espressione
di Tom Riddle si capiva subito che non vedeva l’ora di andarsene, e che voleva
liberarsi di quella pazza al più presto possibile.
“Bè,
perché no?” rispose, dopo averci pensato su qualche istante. In fondo, cosa mai
poteva fargli dell’acqua?
Merope
era semplicemente raggiante. Tenendo ben saldo il bicchiere con una mano, tolse
il tappo alla bottiglietta e ne versò parte del contenuto all’interno. Per un
istante, il liquido trasparente prese un bagliore dorato, ma fortunatamente
Riddle non lo notò. La ragazza si avvicinò al cavallo e porse il bicchiere
all’uomo che amava, squadrandolo adorante.
Tom la
guardò senza capire, poi portò il bicchiere alle labbra.
“Buffo”
pensò, interrompendosi un istante prima di bere. “Mi sembra che quest’acqua
abbia l’odore della menta…” Poi bevve tutto il bicchiere in un
sorso.
Ci fu
un attimo di silenzio.
Merope
non osava muovere nemmeno un muscolo. Quella non era semplice acqua… era
Amortentia, il filtro d’amore più potente che si conoscesse. E lei l’aveva
appena somministrato a Tom Riddle, in piena coscienza delle sue
azioni.
Lui
chiuse gli occhi per qualche istante, e Merope temette che non avesse
funzionato.
Era
sul punto di scoppiare in lacrime, quando vide Tom riaprire gli occhi.
Sorrideva.
“Merope…”
disse con voce dolcissima, come se si fosse appena svegliato dal più bel sogno
della sua vita. “Come ho fatto a non capirlo prima?”
“Cosa?”
ebbe appena la forza di chiedere lei, con un filo di voce.
“Ti
amo, Merope. Ti ho sempre amata…”
Lacrime
di gioia cominciarono a scorrere sulle guance della ragazza, e un sorriso le
illuminò il volto. La pozione era soltanto un ricordo, ormai. Tom l’amava, ed
era questa l’unica cosa importante…
*
Erano passati quasi due anni da quel caldo giorno di luglio in cui Merope aveva dato l’Amortentia a Tom per la prima volta. Prima di sera, lei aveva radunato le sue poche cose ed era scappata con lui. Erano andati a vivere a Londra, dove Tom aveva affittato un appartamentino delizioso, e si erano sposati neanche un mese dopo.
Merope
non credeva di poter essere più felice. Il giorno del suo matrimonio aveva
creduto che quella felicità sarebbe durata per sempre…
La
piccola chiesetta di campagna dove si erano detti il fatidico: “Sì” era stata
addobbata apposta con fiori bianchi, e avevano comprato i vestiti, la torta e
gli addobbi nel miglior negozio specializzato della capitale. Era stata una
cerimonia molto semplice, e non era presente nessuno se non loro due e il prete
che li aveva sposati.
Da
quel giorno, la felicità era cresciuta sempre di più. Ogni sera Merope mischiava
all’acqua del marito un po’ di Amortentia, per sicurezza, ma ormai si illudeva
che lui l’amasse indipendentemente dalla pozione.
Mesi
prima aveva cominciato a sentirsi male. Aveva forti capogiri, nausea, e non se
la sentiva di andare a lavorare nella piccola boutique Babbana in cui era
commessa. Non aveva più usato i suoi già pochi poteri se non per preparare
l’Amortentia ogni mese, e non avrebbe voluto cominciare. Così aveva deciso di
andare all’ospedale Babbano, dove le avevano fatto un prelievo e l’avevano messa
in attesa per i risultati.
Qualche
giorno dopo, era arrivata la telefonata più sconvolgente della sua vita… Era
stata lei a rispondere.
“Buongiorno.
Lei è la signora Riddle?” aveva chiesto una voce maschile all’altro capo del
telefono.
“Sì,
sono io. Con chi sto parlando?”
“Sono
il dottor Rolands, dell’ospedale St Joseph” l’aveva rassicurata la voce. “Ho
chiamato per comunicarle che abbiamo i risultati delle sue analisi del
sangue”.
Merope
aveva cominciato a preoccuparsi. “La prego, dottore, me lo dica subito. Non ho
niente di grave, vero?”
“Oh,
no, signora. Lei non ha davvero niente di grave…” Il dottor Rolands si era
interrotto un attimo, e poi aveva aggiunto: “Non so come lei possa prendere la
notizia, ma… lei aspetta un bambino, signora Riddle”.
A quel
punto Merope era svenuta.
Quella
sera stessa, per festeggiare, Tom l’aveva portata nel miglior ristorante di
pesce di tutta Londra.
Passati
otto mesi, quando ormai il bambino stava per nascere, aveva deciso che non gli
avrebbe più dato la pozione.
Tom
l’amava, continuava a pensare, e sarebbe rimasto per amore del
bambino.
Due
giorni dopo l’effetto era cessato.
Era
stato terribile.
Tom
aveva urlato che lei lo aveva ricattato, e che ora che era incinta si aspettava
che lui continuasse a perdere il suo tempo con una donna che non lo meritava e
che lo aveva ingannato per un anno. Poi aveva fatto le valigie ed era tornato a
Little Hangleton dai suoi genitori.
*
Merope era uno spettro.
Più
morta che viva, corrosa dalla disperazione dell’abbandono, aveva perso il lavoro
alla boutique e la casa, e ora girava disperata alla ricerca di aiuto. Nessuno
aveva voluto offrire un lavoro a una donna che, ufficialmente, non aveva mai
studiato e che vagava per Londra all’ultimo mese di gravidanza senza un
soldo.
Disperata,
cercò qualcosa da vendere, ma l’unica cosa che trovò fu il medaglione di
Serpeverde della sua famiglia. Sentendosi terribilmente ingrata, andò a Notturn
Alley e lo vendette per una miseria. Se avesse saputo quanto in realtà valeva,
forse la sua storia sarebbe andata in modo diverso, ma i soldi che ne ricavò
erano appena sufficienti per arrivare alla fine del mese.
Ogni
momento pensava al suo Tom, pensava a quanto era stata stupida a credere nel suo
amore. Pensava a Cecilia, la fidanzata che lui aveva abbandonato e che forse,
ora, aveva ritrovato a Little Hangleton. E pensava alla piccola creatura che
stava per vedere la luce, e al fatto che non avrebbe avuto nulla da offrirgli se
non tutto l’amore di cui era capace.
Un
giorno arrivò alle porte di un orfanotrofio di cui non lesse nemmeno il
nome.
Era
più stanca e sciupata che mai, aveva finito tutti i soldi, e i suoi movimenti
erano dettati dalla disperazione. Si attaccò al campanello piangendo, e attese
che qualcuno le andasse ad aprire.
Una
giovane donna bionda vestita con un tailleur celeste aprì il cancelletto, e le
lanciò uno sguardo impietosito.
“La
prego…” supplicò Merope vedendola. “Ho bisogno di aiuto…”
La
donna si chiamava Emily Cole, ed era una giovane praticante in
quell’orfanotrofio. Non aveva mai visto una persona in quelle condizioni, e così
annuì debolmente e le permise di entrare.
“Mi
chiamo Merope Riddle” annunciò lei pochi minuti dopo nel salone d’ingresso, dove
venivano registrate tutte le entrate e le uscite. “Sono al nono mese di
gravidanza, il mio bambino nascerà tra pochi giorni. Non ho soldi, e mio
marito…” si morse penosamente un labbro e non continuò.
Le
venne affidata una stanzetta al primo piano, che dava su una strada piuttosto
centrale. La giovane donna passava il suo tempo affacciata alla piccola
finestra, a fissare le nuvole nel cielo e a tentare di ricordarsi il breve
periodo della sua vita in cui era stata felice…
*
Il gran giorno era arrivato. Il giorno della nascita di suo figlio.
“Spinga,
signora Riddle. Ancora uno sforzo” continuava a ripeterle l’ostetrica
dell’orfanotrofio, tentando di infonderle coraggio nonostante la situazione
disastrosa. Nell’ultima fase del parto si era verificata una grave emorragia, e
c’erano poche speranze che Merope Riddle fosse ancora in vita all’arrivo dei
medici specializzati.
“Qualunque
cosa succeda…” mormorò la povera donna, il viso pallido e contratto. “Salvate il
mio bambino. Non mi interessa la mia vita, ma prendetevi cura del mio
bambino…”
Nessuno
aveva avuto la forza di risponderle.
Merope
non capiva più nulla. Sentiva soltanto il dolore che la circondava, sapeva che
stava per morire, ma non le importava. La sua mente tornava solamente
all’immagine di Tom, il suo Tom, che l’aveva lasciata e forse dimenticata.
L’unica ragione della sua vita.
“La
mia vita era solo nei suoi occhi…” sussurrò tra i
singhiozzi.
Sentì
un breve vagito, e vide l’ostetrica che aveva in braccio un bambino. Un
bellissimo maschietto.
Sorridendo
tristemente, lo prese tra le braccia. Era tale e quale a suo padre, e rivide
subito gli occhi che l’avevano incantata fin dal primo
istante.
“Voglio
che si chiami Tom” disse con voce debole all’ostetrica. “Come suo padre. E
Orvoloson, come suo nonno. E il suo cognome deve essere
Riddle”.
La
vita di Merope era arrivata al suo ultimo, malinconico
capitolo.
Guardò
per un’ultima volta il suo bambino, l’immagine precisa del padre, poi chiuse gli
occhi.
Nella
sua mente intravedeva appena un sorriso, e quegli occhi smeraldini in cui aveva
riposto tutta la sua esistenza.
“Tom,
ti amerò per sempre…” mormorò appena, prima che tutto diventasse scuro e lei
fosse finalmente serena.
Ecco, e così è finita… Ora che ci penso, non sono molto sicura che all’epoca della vita di Merope i telefoni fossero così tanto usati, ma si può fare un’eccezione, no?
Spero che la storia vi sia piaciuta, e ringrazio in
anticipo tutti quelli che leggeranno questa storia, anche senza
commentarla…
Ovviamente
una recensione è sempre gradita, e anzi mi farebbe davvero molto piacere
sapere cosa ne pensate ^.-
Grazie ancora!
Call
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