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Autore: CleaCassandra    23/07/2007    3 recensioni
Frances, una vita fuori dall'ordinario, e una persona speciale, reincontrata dopo anni.
Diciamo pure che non sono brava a fare riassunti, spero solo vi piaccia.
attention please: Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere delle persone di cui parlo (ma magari li conoscessi di persona ;O;), nè offenderle in alcun modo...beh, insomma, era una precisazione necessaria u_ù
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Frank Iero, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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@Martunza: eeeeeeeh... :°D

Cap. 5 – Burn, Baby, Burn

Mi sto divertendo. Come una pazza.
La cosa che più mi galvanizza non è fare tatuaggi, e nemmeno starmene a guardare il cielo finché non diventa nero.
No. Sono cose banali. Felicità surrogate, che avevo sempre usato come sostitutivi per non pensare a suonare, a imbracciare di nuovo la mia piccola.
Ma io vivo per godere appieno di lei. E delle parole che sgorgano dal mio cuore e vengono veicolate sui fogli dalla penna che impugno.
Non deve esserci spazio per la tristezza e i ricordi nel mio cuore.
È il 28 luglio. Siamo a Chicago.
Il Warped è estenuante, stancante, faticoso, soprattutto sapendo di dover sostenere ogni giorno un live e dover poi ripartire, alla volta della tappa seguente.
Ti fiacca nel corpo, ma ti esalta nello spirito. Non sei mai stufo di suonare, ogni volta il pubblico è diverso, ti accoglie sempre in modo differente, positivo o negativo che sia. E devi fare appello a tutta la tua volontà per non scontentarlo, né scontentare te stesso.
Tocca a noi, tra poco. È pomeriggio pieno, il sole picchia forte sulle teste di tutti.
È un mese che suoniamo a giro, eppure mi sento profondamente inquieta.
Sarà che da oggi ci sono anche loro…anche lui, a guardarmi suonare dal backstage.
No, non può essere solo per questo. Ma adesso devo suonare, non c’è spazio per le riflessioni. Non ci deve essere.
Meglio non pensarci.
Il primo a salire sul palco è Keith, che si sistema dietro alla sua amata batteria e inizia a imprimere ritmi nella sua mente, nelle sue mani, trasmettendoli poi su piatti e tamburi.
Poi Dave, che imbraccia il suo basso e scalda le dita su e giù per la tastiera.
Trova anche il tempo di fare un po’ il cretino, e si mette a suonare il motivetto del Tetris, poi Super Mario, infine Zelda.
È abbastanza patito di videogiochi, effettivamente.
E infine, io.
Afferro la mia Jaguar nera e mi avvicino al centro del palco, ostentando un passo sicuro e assolutamente tranquillo.
Non sono mai stata brava a fingere, ma oggi riesco a dare il meglio di me.
Non sarà la mia agitazione a rovinare tutto.
Sistemo il microfono all’altezza giusta, dopodichè faccio un respiro profondo.
Ebbene sì.
Canto io.
C’hanno messo del tempo a convincermi, ma alla fine quei due terremoti alle mie spalle ce l’hanno fatta.
Ho dovuto mettere da parte tanti “se” e tanti “ma”, e mi è costato piuttosto caro.
Ma adesso…adesso sento di essere una persona migliore. I fantasmi del passato stanno dormendo in soffitta.
Sarà meglio che non si sveglino.
Almeno fino a che non ho finito qua sopra. E vorrei non finire mai.
Un potente riff di chitarra dà inizio al primo pezzo che suoniamo, che è anche uno degli inediti.
Mio fratello mi segue quasi subito e, per ultimo, si unisce anche il basso.
La voce esce con naturalezza dalla mia gola. È una rabbia genuina, ma più pacata, rispetto a qualche anno fa.
Non è stanca, no. È solo più consapevole dei propri limiti.
E pronta ad infrangerli ancora una volta, se necessario.
La gente sotto di noi è fomentata. Salta, urla e poga con furia selvaggia, e io, che sto a guardare mentre li nutro di energia, non posso fare altro che sorridere, inebriandomi di un assolo da paura.
Non mi era mai riuscito così bene, nemmeno in studio. Nemmeno negli altri concerti.
Abbiamo suonato quaranta minuti abbondanti, tirati al massimo e senza il minimo segno di cedimento.
Stiamo tornando grandi, e quando lasciamo il palco al gruppo che ci segue nella scaletta, leggo la stessa ferrea convinzione anche negli occhi di Keith e Dave.
Sorridiamo in sincro, tirando un sospiro di sollievo.
Anche stavolta ce l’abbiamo fatta.
Tornati nel backstage, sento una mano toccarmi la spalla e fermarmi.
“Ehi, ma siete veramente grandi!”
Mi giro.
Quei capelli neri davanti al viso, che si scosta, pronto, di lato.
Che celavano, fino a due istanti fa, quegli occhi, così luminosi e particolari.
Quel sorriso radioso, inconfondibile.
E poi…quei tatuaggi.
Tra cui spiccava il mio.
Beh, lo ammetto. Sono andata a cercarlo subito, in preda a una sorta di autocompiacimento per l’ottimo lavoro che avevo fatto.
“Toh, il mio cliente preferito!” esclamo, senza pensarci, e senza sapere perché.
Ma lui ride e annuisce. E mi abbraccia.
Vedo mio fratello, davanti a me, che lo fissa un po’ torvo.
Tranquillo, Keith.
“Ci siete piaciuti tantissimo, veramente!” prosegue, distaccandosi e continuando a guardarmi dritta in viso, che manco a dirlo s’infiamma.
Mi chiedo di chi stia parlando oltre a lui, e mi accorgo solo dopo che dietro Frank ci sono anche gli altri.
Bob, Ray, Gerard, Mikey.
Ray è letteralmente entusiasta.
“Ma allora siete tornati veramente a suonare! E siete ancora meglio di prima!” esclama, al colmo della contentezza.
Ringrazio, sorridendo.
Anche gli altri si complimentano con noi, è tutto uno stringersi le mani e abbracciarsi, e mi stupisco di come un gruppo come loro, ormai famosissimo, possa ancora conservare questa semplicità di modi, questa affabilità.
Spero di rimanere sempre così, penso dentro di me.
“Vogliate scusarmi, soprattutto tu, fratello di Frankie, ma ve la rubo per qualche minuto!” sento dire all’improvviso, e, altrettanto repentinamente, sento prendermi il polso e tirare verso una direzione sconosciuta.
Ancora! Ma allora è un vizio, questo di trascinarmi con sé!
Però…beh, non che mi dispiaccia.
Percorro il breve tratto di strada dietro a lui, mano nella mano, docile come una bambina che viene portata a passeggio dal padre, finché non ci fermiamo.
“Oggi non c’è niente di meglio del parcheggio dei tour-bus…spero vada bene lo stesso” si giustifica imbarazzato.
Ebbene sì. Il sole sta calando. E i My Chemical Romance suoneranno stasera. Abbiamo tutto il tempo del mondo.
“Tranquillo, va benissimo!” rispondo, al colmo dell’entusiasmo.
Siamo in piedi, entrambi con una lattina di birra in mano, e osserviamo in religioso silenzio il cielo che si dipinge di rosso.
È il nostro piccolo rito, ormai.
Non ci vediamo praticamente mai, ma immaginare che anche lui, come me, guarda il tramonto ogni giorno, lo fa sentire meno distante dai miei pensieri.
Dal mio cuore.
Dopo qualche istante, lo sento rivolgermi una domanda.
“E il negozio?”
“L’ho lasciato ad Alice” rispondo semplicemente.
Però…cavolo, io dovrei cercare di essere fredda, distante, ma non ci riesco.
Tutto in lui mi dice di lasciarmi andare, di smetterla con questa recita, di per sé piuttosto ridicola.
Anche lui ha chiuso con le farse. Glielo leggo nello sguardo.
Non sono più gli occhi di una fiera ingabbiata. C'è una luce diversa, più luminosa.
Quasi accecante.
Ma mi farò del male, sapendo che non potrò rivederlo.
Ti farà più male il rimpianto di non averci nemmeno provato, mi rispondo, come in un’ipotetica partita di ping-pong tra coscienza e istinto.
Così il mio braccio si muove da solo, e va a cercare il suo corpo. Cerca un abbraccio.
Lui…fa lo stesso movimento, insieme a me.
Questa intesa silenziosa, che non ha il bisogno perenne di emergere. Che resiste alla distanza, perchè ci siamo visti solo per tre volte.
Che ci riscalda l'anima.
É un piccolo miracolo. E in sua virtù ci troviamo legati in una stretta indissolubile, quasi una fusione dei nostri corpi.
“Ho aspettato per troppo questo momento” sussurra al mio orecchio.
“Anche io…”
Avrei dovuto evitarlo. Ma la felicità va acchiappata al volo, sennò chissà quando torna.
In questo momento non ci importa di nulla, a parte noi. Nemmeno del tramonto, nemmeno di Jamia.
Oddio, a me un po’ importerebbe. Mi sento un po’, come dire…la terza incomoda. Anche se lei è a chilometri da qui.
Lui sembra non curarsene. Le nostre labbra sono sempre più vicine ormai.
Stanno per sfiorarsi. Sento il suo respiro.
Quando una voce ci fa separare con violenza.
Perché, sì, è un atto di pura crudeltà farci staccare proprio ora.
“Ah, però, Frankie…ti lascio per qualche tempo e ti ritrovo ad appiccicarti agli estranei!”
Quella voce.
No. Ditemi che non è così.
Che ho solo delle allucinazioni spaventose.
Frank mi osserva preoccupato, mi vede tremare come una foglia, bianca come uno straccio, il sorriso che si spegne in un patetico tentativo di trattenere le lacrime, che però iniziano a sgorgare dai miei occhi e rigare le mie guance.
Mi volto.
E non era un’allucinazione.
Ecco cos’era quell’inquietudine che ho provato sul palco.
Era per colpa sua.
La sentivo entrarmi dentro, come aria impura nei polmoni, mentre suonavo.
Mentre cantavo.
Parole scritte per una sola persona.
Che sapeva essere dolce come miele e amara come il più schifoso dei veleni.
Lei.
Lucretia.
  
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