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Autore: Microchipemozionale    04/01/2013    1 recensioni
'Quando una storia finisce, però, non è così semplice chiuderla. Chiudere non è come aprire. Aprire è dire ciao, chiudere è un addio.'
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Le storie sono come le finestre di una casa; se la casa è abitata, queste saranno spesso aperte. Se per troppo tempo restano sigillate, comincia a mancare l’ossigeno. Se rimangono chiuse per sempre, vuol dire che nessuno, all’interno della casa, ha intenzione di viverci a lungo.
Quando una finestra si apre, accoglie ciò che è all’esterno, che sia un bene o un male. Non può scegliere; viene investita, travolta. Chi apre una finestra, sa che c’è il rischio che qualcosa entri dentro la casa, e la sconvolga. Deve prendersi ogni responsabilità, sia che sia stato lui in prima persona ad aprirla, sia che qualcun altro l’abbia fatto per lui; se non è riuscito a fermarlo in tempo, probabilmente era quello che anche lui desiderava- senza magari trovarne Il coraggio.
Quando una storia finisce, però, non è così semplice chiuderla. Chiudere non è come aprire. Aprire è dire ciao, chiudere è un addio.
Tutto questo passava per la mia testa, aspettando le dieci di mattina. Le dieci di mattina, orario strano. So che è quello che ha pensato anche lui, leggendo l’orario. Eppure, è la prima cosa che mi è venuta in mente.
Non ci ho neanche pensato; è stato così e basta, sapevo che era il momento giusto.
E’ strano il tempo, quando aspetti. Non direi cattivo, non mi azzarderei a chiamarlo tiranno. Solo, è strano. Segue una sua logica, che non è possibile contraddire, e ti trascina con sé. Semplicemente. Non per ferirti, non per lasciarti godere dei momenti, non per darti o toglierti opportunità. Il tempo, inesorabile, è sordo, cieco e muto. Scorre, senza argini a contenerlo, senza binari a dirottarlo, senza punti d’arrivo. Lui scorre, e noi passiamo.
Quando alla fine le dieci arrivano, è come se fossero state sempre lì. Come se fossero loro ad aver aspettato te, le braccia incrociate al petto, lo sguardo all’orologio. Così arriva anche lui, lo sguardo leggermente assente, perso nei suoi pensieri, al solito. Cammina con la solita cadenza che conosco a memoria, che ormai è la mia. Sorride con quel sorriso che è stato il mio per tanto tempo. Mi prende la mano, e me la bacia. La sua bocca si sposta sulla guancia, poi sulle labbra, ed il suo sapore è inconfondibile, è ormai nella mia bocca come nella sua, nella mia testa come in quella di lui.
‘Ci apparteniamo’, penso automaticamente, come ogni volta che mi abbraccia. Come se quell’abbraccio non fosse una congiunzione di due corpi che si amano, ma un prolungamento delle mie gambe, delle mie braccia, una fusione di cuori ed anime. Ricongiunzione, completamento, ritrovamento.
Quando si stacca, ha gli occhi lucidi. I suoi magnifici, ipnotici occhi nocciola. Li vedo ovunque, quegli occhi, e attraverso loro ho vissuto tante volte. Esperienze magiche, terribili, spaventose, banali; esperienze non mie, che però lo erano tanto quanto appartenevano a lui.
“Piangi.” Dice.
Ed io, stupita, mi guardo alla vetrina di un negozio. Sto piangendo. Le lacrime, come gemme sulle foglie, risplendono sulla pelle, colpite dalle carezze del sole, che tenta di consolarle. Solo allora, solo dopo averle guardate, scivolano giù sparendo definitivamente sotto il collo del maglione.
Sospira. Sospiro. I nostri respiri che si conoscono così bene, che si sono rincorsi, amati, si sono sfidati, hanno fatto rumore insieme ed insieme si sono lasciati zittire, adesso viaggiano in due direzioni diverse.
Si sporge per abbracciarmi, istintivamente faccio un salto all’indietro.
“Non puoi.”, gli dico, con voce innaturale, come se neanche lei volesse ammetterei essersi lasciata andare al pianto, ai singhiozzi. Come se volesse farsi ricordare forte e decisa come è sempre stata.
Lui capisce. Ha sempre capito, ha sempre accettato. Mi allunga una mano; gliela prendo, la stringo tra le mie.
Non ti lascio, gli ho detto. Con te credo nel ‘per sempre’, ho giurato. Adesso la stretta è scivolosa, debole. So che, se non stringo più forte, presto la sua mano sguscerà via dalle mie, senza far rumore, come una bambino che scende dal letto di nascosto il giorno di Natale, per controllare cosa c’è sotto l’albero. E quando torna a letto, lo trova freddo ed inadatto; preferirebbe stare altrove, terminare l’attesa, scartare i regali e sorriderne, esserne felice. Invece, è costretto a letto.
“Parlami.” Mi dice solo questo.
Scuoto la testa, e controllo, nel vetro lucido dello stesso negozio ancora chiuso, un’altra lacrima, che così può andarsene tranquillamente, e nascondersi come vorrei fare io.
“Allora parlo io.” Non capisco cosa stia pensando, ma non riesco a fare altro che sedermi ed aspettare.
“Riconoscerei il tuo sguardo ovunque, sai? I tuoi occhi non sono come gli occhi di nessun altro. La tua bocca è unica al mondo, e le tue mani sentono cose che gli altri neanche immaginano. Quando ti ho vista per la prima volta, piangevi, proprio come adesso. Avrei voluto stringerti, ma tu mi ha detto che non potevo. Non ti conoscevo, ma avrei voluto poterlo fare. Però tu soffrivi, ed io non ero la persona giusta per asciugare le tue lacrime. Ti ho lasciato piangere, ho sofferto ma ho dovuto farlo.
E adesso, sono impotente allo stesso modo, nello stesso identico, banale, struggente modo. I tuoi occhi, le tue mani, la tua bocca, è come se non mi appartenessero più. E’ come se questa sofferenza fosse solo tua, non più nostra. Come se la sacca dei nostri ricordi si fosse rotta, e dalle lacerazioni ciò che siamo stati stesse scivolando via, lentamente ma inesorabilmente, e ciò ti facesse scordare che, fino ad adesso, la tua sofferenza è stata anche la mia. Adesso me ne  privi, non posso soffrire. E se non posso soffrire, non so cosa provare. Sono vuoto, un foglio bianco.”
Non so se sto ancora piangendo. Qualcosa nelle sue parole ha attivato un meccanismo complicato e terribile; la memoria.
Davanti agli occhi passa il nostro primo bacio, le mani nelle mani, il primo appuntamento, la prima cena, le prime confessioni, la prima volta che abbiamo fatto l’amore, il suo primo regalo, la prima lettera, il primo ‘ti amo’ che sembrava ridicolo, sussurrato, desiderato, impaurito; il nostro primo amore. Era tutto ancora lì, attaccato alla mia pelle, condensato in una piccola, minuscola gemma salata, sulla mia guancia destra. Sapevo che c’era, che era in bilico, che stava solo aspettando che io la guardassi per sparire, e con lei i ricordi. Con lei, anche ‘noi’.
Così lo guardo. Lui guarda me.
Leggero come il tocco di un fiocco di neve, altrettanto silenzioso, mi dice per l’ultima volta che mi ama.
Ti amo, mi dice. Io lo ascolto, lo metto sulla bilancia, lo espongo al microscopio, lo coloro per renderlo più visibile. Ti amo, mi dice, ed io so cosa dovrei fare. Chiudere gli occhi, riaprirli, e capire che quel mondo è il mio, e che non voglio davvero lasciarlo andare così, senza neanche un sospiro. Chiudere gli occhi, riaprirli, e capire che è quello che provo anche io, che è quello che ho sempre provato, che è quello che mi fa svegliare ancora la mattina, che è ciò che mi fa battere il cuore, che è l’uragano che mi sconvolge, la scena commovente che mi fa piangere, che è ogni respiro che faccio, ogni sorriso, ogni lacrima, ogni paura, ogni speranza, ogni desiderio. Chiudere gli occhi, riaprirli, e dirgli che lo amo.
Aspetta, lui. Con gli occhi semichiusi, fiducioso, speranzoso, fedele, innamorato. Il naso arricciato, la bocca protesa, il corpo desideroso di ricongiungersi al mio, di completarsi di nuovo ed ancora, ad oltranza, per sempre. Aspetta senza il minimo dubbio, rancore o paura, aspetta e si fida, aspetta ed ha fede, aspetta ed è vuoto, bianco, ha bisogno di essere riempito, di essere colorato, di essere di nuovo parte di me, naturalmente, come è sempre stato.
Quindi io chiudo gli occhi, e sento ogni piccola parte di me prendere consapevolezza. Chiudo gli occhi, li riapro.
“Addio”, gli dico. Mi guardo allo specchio, ed anche quell’ultima lacrima, gli ultimi ed i primi ricordi, ogni cosa, svanisce, risucchiata da una strana forza.
Mentre una parte di me si allontana camminando decisa, qualcosa al mio interno muore. La finestra si chiude. Adesso sono sola, io, me stessa, ed il fantasma di una storia.
 
  
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