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Autore: Klavdiya Erzsebet    06/01/2013    1 recensioni
Parte della serie Until Death Do Us Part
(Tornano Greg e Sophia Lestrade protagonisti. È dichiaratamente romantico, anche se l’amore non è il genere principale. E pensare che non credevo di essere capace di trattarlo anche solo minimamente.)
Una strana malattia colpisce Sophia Lestrade, e un caso particolarmente inspiegabile approda nell’ufficio di Greg. Due misteri, collegamenti inaspettati, una corsa contro il tempo e una modesta ipotesi di come l’amore per la vita abbia potuto portare alla morte: tutto è contorto. Talvolta è difficile determinare l’impossibile.
{Attenzione: fanfiction Greg–centrica a livelli vergognosi}
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lestrade , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Until Death Do Us Part'
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Cap.XVII

Proprio Come Lei

 

Nei giorni successivi un piccolo miracolo parve consumarsi tra le pareti delle stanze lontane e separate in cui i Lestrade miglioravano a vista d’occhio; il colore tornò sul viso e sul volto di Sophia, anche se non troppo e non troppo in fretta, mentre il marito lentamente riprendeva le forze.

L’ospedale si trasformò una fonte di interesse ineguagliabile per Sherlock; quelle guarigioni divennero un nuovo argomento di studi, e Greg e Sophia furono presto ridotti a pezzi di cadavere in decomposizione, cervelli casualmente fuori dal frigo, bulbi oculari evasi dal microonde; l’attenzione che gli rivolgeva era la stessa che riservava solo ai suoi esperimenti, e John sapeva con certezza che questo non era un bene.

Per esempio, Sherlock era stranamente gentile con loro.

Non aveva (ancora?) detto cose poco lusinghiere a Greg. Nemmeno gli aveva rivelato tutta la verità, ma come si ostinava a ripetere era ‘solo una questione di tempo’.

No, non era Greg quello che gli interessava. Era Sophia che voleva – lei e la sua straordinaria consapevolezza. Non riusciva a stimarla; e allora era sempre accanto a lei: la seguiva quando lei andava a chiacchierare con gli infermieri o coi dottori, e a volte addirittura si fermava vicino al suo letto mentre lei dormiva. John aveva rinunciato a dirgli di smetterla, di non farlo; era una cosa troppo delicata, troppo difficile da dire. Poteva sembrare – e all’inizio c’era cascato anche il dottore – che gli interessasse solo Greg, e la sua guarigione. Ma poi era diventato chiaro che non era affatto così.

Lui voleva solo andare a fondo della cosa; sapere ogni dettaglio, anche il più insignificante. E per quello era ormai diventato l’ombra di Sophia.

Lei era annoiata, quel giorno. Terribilmente. Era sdraiata a pancia in giù sul letto e dondolava ritmicamente le gambe; sospirava a intervalli regolari, con ogni probabilità senza accorgersene. Sherlock sapeva che quell’ustione sulla spalla che apparentemente si era inflitta da sola le era costata visite stressanti con uno psichiatra dell’ospedale; ma lei non se n’era mai lamentata. Era solo una clausola implicita nel patto che si erano fatti nel momento in cui lei aveva scostato la vestaglia dal tatuaggio ora sfregiato.

Non sapeva cosa proporle. Avrebbe potuto farla parlare. Avrebbe cominciato con qualche domanda casuale e lei avrebbe tirato fuori la risposta ai suoi dubbi.

È una brava attrice. Sapeva del piano di Annabel?

“Ti va di giocare a scacchi?”

Entrambe le domande lo colsero impreparato. Sophia aveva alzato gli occhi e ora lo fissava con un’espressione decisa. Sherlock tacque per qualche secondo prima di rispondere.

“Okay” confermò alzandosi lentamente dalla sedia. “Dove…?”

“C’è una scacchiera nella sala d’attesa” rispose lei, ancora prima di lasciarlo finire di parlare. C’era qualcosa, nella sua voce, che lasciava sottinteso che avrebbe davvero dovuto prenderla lui.

Con poche mosse impacciate Sophia riuscì a trasformare il tavolino su cui a volte mangiava in una superficie abbastanza stabile da reggere gli scacchi; Sherlock uscì e a passo svelto raggiunse la sala d’attesa. I suoi movimenti erano diversi da quelli di lei, registrò mentre afferrava la scacchiera. Svelti, efficienti, come quelli di un ladro: nessuno scorse quel breve guizzo delle maniche del suo cappotto, quasi stesse rubando un quadro dal Louvre, mentre in realtà stava solo prendendo un innocente gioco da tavolo, per giocarci innocentemente con una sorta di amica, mentre altrettanto innocentemente cercava di estorcerle informazioni a proposito di alcuni attentati dovuti a un fanatismo nei confronti di qualcosa di indefinito.

Sherlock scacciò il pensiero. Sophia, in realtà, poteva davvero sapere. Era pazza abbastanza da scarificare la propria stessa vita per eliminare la morte dal pianeta in una maniera così folle? Certo, avrebbe pienamente giustificato le visite dallo psichiatra.

A conti fatti, quel caso quanto a difficoltà era un dieci. Eppure qualcosa nella sua mente si oppose all’idea di scrivere con la penna rossa quel numero su un’ipotetica pagella mentale delle sue ultime imprese; come un insegnante che si rifiuta di dare il massimo al compito impeccabile di uno studente distratto, il suo inconscio semplicemente si ribellava all’idea di essere così lusinghiero nei confronti di qualcosa che l’aveva – ripetutamente – mandato in confusione, e fatto sbagliare come mai gli era accaduto prima.

E ora, nemmeno ora, era finita. Normalmente avrebbe desiderato di andare a fondo, con tutte le sue energie del suo essere; ora, invece, preferì non interrogarsi su cosa glielo facesse fare.

Tornò quasi furtivamente nella stanza di Sophia. Posò la scacchiera su quella specie di tavolo e lei gli sorrise. Non era sicuro che lo facesse per felicità; forse era solo imbarazzo, o una qualche incapacità di capire come comportarsi. Non il suo campo, in ogni caso.

Sistemarono i pezzi e la mano di lei era apparentemente sicura – torre, cavallo, alfiere rigorosamente bianchi; ma poi gli occhi verdi e spenti, tendenti al marrone guardavano di sfuggita Sherlock e ne copiavano le mosse. “La regina dall’altra parte” le suggerì lui sommessamente quando, finalmente, nessuna pedina rimase fuori dalla scacchiera. Come una bambina giudiziosa, Sophia ubbidì.

Fece la prima mossa in maniera casuale ed era ovvio che non ricordava molto, degli scacchi. Per puro miracolo ricordò come muovere un cavallo, e questo confermò a Sherlock che doveva avere assolutamente qualcosa di più rispetto a un normale essere umano (come John, per esempio).

Non aveva una vera e propria strategia e chiaramente il suo intento, se ne aveva uno, non era quello di giocare a scacchi, bensì di giocare a scacchi con Sherlock.

“Cavallo in C1” annunciò lui ad alta voce solo per destabilizzarla. Poi però rinunciò a un comodo scacco matto in quattro mosse, e rimase invece a tramare con una sola parte alquanto superficiale della sua mente, mentre quello che restava rifletteva.

Istintivamente gli occhi di Sophia studiarono i due lati della scacchiera, come per confermare il fatto che esistevano numeri e lettere ben precisi per indicare delle coordinate. Sherlock si chiese quando avesse giocato a scacchi per l’ultima volta, e con chi. Al liceo, probabilmente Doveva essere stata molto brava e bella e allegra prima di sposare Greg. Avrebbe spiegato molte cose.

Senza accorgersene Sophia fece una mossa decisamente stupida, ma Sherlock si sentì vagamente a disagio all’idea di mangiarle quell’ennesimo pezzo.

Mossa innocua, mossa ingenua, mossa innocua, mossa ingenua. Probabilmente andando avanti così lei sarebbe giunta allo scacco matto senza nemmeno accorgersene, e Sherlock sarebbe incappato in un’altra crisi simile a quella di Baskerville. Merda. Sicuramente non poteva permetterselo, e decise di passare all’azione. Indossò una maschera di curiosità, dispiacere, attenzione.

“Deve essere stato… terribile” cominciò piano, raccogliendo un po’ di coraggio e facendo un piccolo passo verso la vittoria.

“Ero così preoccupata. Prima che mi dicessero che stava bene, mi sono figurata delle cose orribili” recitò lei con disinvoltura, muovendo l’ennesimo pezzo in maniera puramente casuale. Evidentemente aveva deciso che lui, Sherlock, non era un pericolo. Non stava recitando così bene come l’aveva vista fare davanti al padre di Greg. Nelle dita che mossero l’alfiere non c’era traccia dell’apparente preoccupazione che le offuscava gli occhi. Indossava una maschera anche lei, ora, mentre inclinava la testa di lato e si rendeva vulnerabile come a ogni quasi–vedova conviene.

“Non parlavo solo di Greg” le fece presente Sherlock. “Sono contento che stia meglio, in ogni caso”.

Sophia sorrise. “Non mi sono resa conto di quello che succedeva. È stato come cadere in una depressione orribile e nel frattempo ammalarmi, esattamente come ammalarmi”.

“Ne sei sicura?”. Erano passati dal ‘lei’ al ‘tu’ in quel periodo, ma Sherlock esitò prima di rivolgerle quella domanda in tono così informale. Ne aveva diritto, ora?

Sophia lo fissò, e non ebbe bisogno di guardare la scacchiera mentre con una mossa solenne si consegnava a lui, offrendogli la vittoria su un piatto d’argento. Voleva finire quella partita, ora, perché aveva capito il suo secondo fine, dove voleva arrivare.

“Sì” affermò decisa, in un moto d’orgoglio. Poi la sua espressione si addolcì, e le labbra si schiusero in un sorriso indeciso. “Non sapevo niente, davvero” aggiunse con tono suadente e incredibilmente stanco.

“Quindi sei rimasta… delusa da Annabel” ipotizzò Sherlock, sondando il terreno. A volte anche John era rimasto deluso da lui. Immaginò che però fosse diverso. Sherlock non lo avrebbe mai sacrificato per ottenere qualcosa di insensato come l’immortalità.

“Sì” confermò Sophia, guardandolo con aria strana, e quelle iridi singolari furono in grado di farlo sentire come un bambino confuso di fronte alla maestra, che fatica a credere a quelle cose complicate che lei gli sta spiegando. Lui non era mai stato quel tipo di bambino, comunque.

“E tu non hai saputo niente fino a che non te lo abbiamo detto” disse ancora lui, per confermare la più innocente delle ipotesi che era arrivato a formulare.

“No!” rispose Sophia quasi divertita, prima di scoppiare in una risata forzata. “Sai, sei proprio come lei” aggiunse apparentemente divertita, ma fu il significato di quelle parole a smuovere qualcosa in Sherlock.

“Lei chi?” chiese, fingendo di non capire.

“Annabel”.

Annabel era una fanatica, pensò Sherlock, che avrebbe devastato il mondo in nome di una certa ‘immortalità’; e mi dispiace, ma il nesso non lo vedeva, tra lui e un individuo del genere. “In che senso?” rispose con un’aria irritata che parve divertire la donna all’inverosimile.

“A te non interessa quanto terribile possa essere stato l’ultimo mese per me” affermò cominciando a sistemare gli scacchi nell’apposito sacchetto. Si muoveva freneticamente, forse per non mostrarsi vulnerabile? “Tu mi parli, e l’unica cosa che pensi è leggere tra le righe. Ma sai cosa?” gli chiese, infilando la regina bianca nel cellophane con studiata eleganza; “Con me non ce n’è bisogno. Non so perché ti dovrei mentire, e non riesco a capire cosa tu voglia dedurre che io non so”.

Sherlock non seppe cosa rispondere, e nemmeno toccò i pezzi – in gran parte neri, gli stessi che lui aveva appena finito di muovere – che Sophia aveva mosso nel tentativo di riordinare la scacchiera e che ora giacevano riversi sulla superficie del tavolo.

“Beh, anche Annabel faceva così” ricominciò lei dopo una breve pausa. “Anche lei mi parlava, mi chiedeva come stavo, domandava del mio tatuaggio ma era chiaro che non ero io, a interessarle. All’inizio avevo pensato che le interessasse Greg. L’hai vista – è giovane, e bella, e con lei sarebbe stato felice…”. La voce le si affievolì, e tacque. Sherlock provò il bisogno di dirle qualcosa di sbrigativo e poi di fuggire da quel paragone scomodo che aveva messo in piedi.

“Perché me lo hai raccontato?” le chiese per cortesia – ma era la domanda sbagliata. Lei alzò le spalle, e chiaramente non sapeva cosa rispondere. Era così sola da abbassarsi a fare confidenze a lui. Vedersi improvvisamente nei panni di un comprensivo essere umano gli apparve terribilmente strano.

Prese la giacca, però. Doveva andare da qualche parte, parlare con Annabel. “Te ne vai?” chiese Sophia; di già?, chiedevano i suoi occhi. Non si lamentò quando lui corse fuori dalla stanza e per un momento Sherlock si chiese se non pensasse di meritarsela, quella solitudine, come se per un motivo o per l’altro nessuno potesse mai farle compagnia davvero; perché c’era una ragione, se con lui si era lamentato e con Annabel no, e quella ragione era che con ogni probabilità in lui cercava quella stessa cosa che voleva dai suoi tanti amanti. Probabilmente l’avrebbe sedotto, se solo gliene avesse lasciato il tempo. La sola idea gli diede un brivido di orrore.

Ma non si concesse di pensarci e salì su un taxi senza quasi lasciare il tempo al povero guidatore di fermarsi; destinazione, il carcere dove aveva fatto rinchiudere Annabel Reimy prima del processo, che si prospettava probabilmente come il più strano dell’ultimo decennio nel Regno Unito.

 

***

 

La guardia carceraria lo guardava con un misto di pena e diffidenza, probabilmente a causa del suo aspetto trascurato. Sherlock se ne rendeva perfettamente conto, ma ovviamente i vestiti scarmigliati erano dovuti al maltempo, così come il fiatone alla corsa folle per evitare la neve.

“Remy?” domandò l’agente.

“R–E–I–M–Y” scandì Sherlock con impazienza. Le avrebbe parlato e avrebbe dimostrato una volta per tutte al mondo che lui non era come lei, affatto.

“È qui” gli annunciò il secondino e, lanciandogli un’occhiata eloquente che significava mille raccomandazioni circa la distanza minima dalle sbarre, lo abbandonò lì in piedi, davanti alla cella.

La voce di Annabel risuonava nel corridoio della prigione mentre si aggrappava a un telefono. Appena vide Sherlock, salutò a malincuore il Luke dall’altra parte del filo; mise giù e non lo fece come avrebbe fatto lui, ma con un’inutile violenza. No che non si assomigliavano, disse una voce nella testa di Sherlock. Poi quel nome, quel ‘Luke’ detto a voce alta, gli ricordò che là fuori ce n’erano altri, pazzi come lei. Ma non avrebbero fatto molto con il processo in corso; chiunque li avrebbe riconosciuti.

“Cosa ti ha detto il tuo amico, Annabel?” le chiese cercando di apparire annoiato.

“Io non ho amici” disse lei sistemandosi esattamente di fronte a lui.

Fu l’ultima volta che aprì bocca; le domande di Sherlock non servirono a niente. Per due ore rimase a fissarlo ostinata.

 

 

A/N: ci siamo: è l'ultimo. Questa storia mi ha impegnata per così tanto tempo che non credevo che questo momento sarebbe mai arrivato, eppure...

Grazie a tutti quelli che hanno recensito, aggiunto questa storia alle seguite/preferite/ricordate o anche solo dato uno sguardo a In Sickness and in Health.

Un grazie soprattutto alla mia consigliera FiNNiE e a Thiliol, che ha dimostrato una costanza ammirevole ;)

Grazie ancora a tutti,

Kla

  
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