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Autore: Lupz    06/01/2013    4 recensioni
Il mondo è ridotto a fuoco e fiamme, costretto sotto il dominio di un Impero che annienta e distrugge: non sembra esserci più niente da fare, se non obbedire. Ma una scintilla di rivolta scoppia in una notte fredda ed insanguinata, quando una giovane spia, tornata da una missione di urgenza, vede davanti ai suoi occhi il proprio regno completamente devastato, ricoperto da fumo e cenere. Da quel momento in lei qualcosa si spezza, qualcosa che le farà intraprendere, guidata dalla vendetta e dalla voglia di respirare libertà, un viaggio verso un'impresa impossibile: sconfiggere l'Impero, reclutando un esercito di ribelli. Andrà così ad incrociare la propria vita con quella di individui ambigui, sfuggenti, non sempre affidabili, stringendo patti e legami irrevocabili, e si troverà ad affrontare pericoli mortali, camminando in bilico sul filo del proprio destino, fin quando non arriverà a dover effettuare una scelta, la più importante della sua vita.
Genere: Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Altissime lingue di fuoco si innalzavano al cielo, aggredendo con spietata ferocia qualunque cosa trovassero sul proprio cammino, incenerendo tutto, senza lasciare scampo, annientando anche le ultime, vane speranze. E allora addio sogni, infranti da un muro di crudeltà, addio certezze, abbattute dalla paura dell’ignoto, addio illusioni, svelate per quello che in realtà rappresentavano, distorte e utopistiche. Ogni singola sicurezza caduta, in preda alle fiamme. Che te ne fai dei sogni, se poi non puoi vederli realizzati? Che te ne fai delle certezze, se quando crollano non sai più dove aggrapparti? Caos, disastro. Tutto crollava mentre le fiamme divoravano il mondo. Tutto crollava. La devastazione regnava come unica sovrana di quel regno surreale, in cui niente, niente sembrava più poter esistere. La città in fiamme si sgretolava e si lasciava vincere. La città invincibile cadeva in preda alla sete di sangue e di vendetta e si lasciava sopraffare, cedendo alla potenza dell’incendio, una potenza indomabile. Una forza che al suo passaggio non lasciava più niente. Niente, solo polvere e fuoco, in un abbraccio mortale. Nessuno aveva trovato scampo: la vendetta non poteva che compiersi. E così il fuoco aveva lavato via tutto quel sangue riversato sui campi di battaglia, aveva sostituito il dolore con altro dolore, aveva distrutto, inarrestabile e indomabile. Tutte quelle urla, tutto quel rumore, le esplosioni, i botti, il fumo e poi solo rosso, un oceano rosso di fuoco. Quello spettacolo tetro e agghiacciante si stagliò all’orizzonte dall’alba fino al tramonto, in una riconciliazione tra le fiamme ardenti e il cielo rosso sangue, come un presagio. Se qualcuno avesse potuto assistere ad una strage simile, adesso avrebbe, fissate negli occhi e nella mente, le immagini di quel fuoco ingordo che, insaziabile, divorava la vita. Ma nessuno si era salvato.
Poi le fiamme si estinsero, morirono insieme al giorno, e fu una notte buia, senza stelle, e silenziosa, di un silenzio che incuteva timore. Nemmeno un soffio di vento, silenzio spettrale. E nel pieno della notte, si udì una risata, poi niente più.
 
Procedeva spedita, con la dovuta circospezione ma pur sempre tranquilla. Sapeva di trovarsi in ritardo, ma era consapevole che non avrebbe potuto agire altrimenti: il compito che le era stato affidato era troppo importante per rischiare di metterlo a repentaglio. Sicura ormai da tempo di non essere seguita da nessuno, aveva smesso di nascondersi e di mimetizzarsi, e aveva cominciato a camminare più velocemente. Era abituata a situazioni del genere, sapeva come comportarsi, ma nonostante ciò la paura continuava ad essere perennemente la sua unica compagna nei giorni di solitudine in cui era inviata a portare a termine alcune missioni. Le notizie che aveva appreso mentre era stata via non si erano rivelate positive, ma lei contava di poter arrivare in tempo e di avere la possibilità di organizzarsi. Con calma, senza fretta e tutto diventava possibile. Camminava ormai dall’alba, ininterrottamente da un bel po’ di tempo, e sapeva che non si sarebbe potuta fermare, che il resto veniva prima della sua stanchezza. Ormai mancava poco, se non sbagliava con i suoi calcoli non avrebbe dovuto impiegare più di un’ora per arrivare a casa. Casa, finalmente casa. Da un mese non faceva altro che viaggiare, da un luogo all’altro del mondo, senza mai un’interruzione, senza mai una pausa, senza potersi fermare, in apnea, senza respirare. Era quello il suo lavoro, era quello il suo compito, sempre sul filo di un rasoio, sempre in bilico tra sicurezza e pericolo, sempre in corsa. Come una spia, si muoveva di nascosto per rubare informazioni preziose, era costretta a trascorrere giorni interi nascosta, con altissimo rischio di essere scoperta, senza poter muovere un muscolo. Viveva in allerta costante, sempre vigile, mai distrarsi, ma quello era il suo impiego, e non avrebbe saputo rinunciarci: amava la sensazione dell’adrenalina, del battito accelerato, della paura che bruciava nelle vene, si trattava delle uniche cose che la facevano sentire viva, davvero, ed utile al suo popolo. Era nata per quel compito, lei era la Messaggera e tutte le notizie più importanti, in un modo o nell’altro, passavano per le sue mani. Sfuggente e veloce come il vento, non poteva mai sbagliare, e lo sapeva: sarebbe costato troppo per tutti. E allora non sbagliava, mai. Quando era ormai quasi giunta a destinazione, intraprese una tortuosa strada in salita: doveva controllare dall’alto che nessun pericolo avesse invaso la sua città durante la sua lunga assenza, così si recò in cima alla collina che utilizzava quando era di vedetta. Appena si ritrovò in cima, guardò giù, e quello che vide le congelò il sangue nelle vene. Incredula cadde per terra, mentre le lacrime cominciarono a rigarle il volto. Tutto distrutto, tutto ridotto in polvere, raso al suolo, dove prima si trovava il suo regno, adesso lei riusciva a scorgere solo cenere, tutto nero, tutto spento. Niente, perché niente era rimasto per tutto lo spazio immenso che davanti ai suoi occhi si estendeva fino all’orizzonte, fino al limite estremo che riusciva a scorgere. Ed il suo popolo? Annientati, uccisi, devastati, distrutti, tutti. Non sapeva crederci. Aveva fallito alla grande. Nascose tra le mani gli occhi rossi per il pianto e per la stanchezza, poi volse il viso verso il cielo ed urlò di dolore. Ma il grido le si strozzò in gola pochi secondi dopo. Potevano non sapere che lei era in missione e che si trovava ancora in vita, ma potevano anche saperlo. E se l’avessero saputo, sicuramente in quel momento la stavano aspettando. Imprecò a bassa voce e con tutte le forze che aveva in corpo, scese da quella collina correndo. Inciampò una volta, ma fu pronta a rialzarsi. Non sapeva dove andare a nascondersi, allora correva e aspettava di trovare una qualsiasi soluzione che le mettesse in salvo la pelle. Il suo sesto senso gridava aiuto e la sua mente allarmata lavorava più velocemente e più lucidamente del solito. Era abituata. Quello a cui non era abituata, era quel dolore sordo che sentiva dappertutto, pulsarle nella testa. Non poteva essere vero. Corse fin quando i polmoni non le esplosero, e si accasciò per terra, cercando di prendere un po’ d’aria, cercando di respirare. Piangeva in silenzio, piangeva perché avevano perso, e lei si trovava lì, da sola, e per la prima volta sentiva davvero la paura che cresceva da dentro e non si arrestava mai, per la prima volta si guardava intorno perché non aveva idea di cosa potesse fare, come potesse agire. Dopo un paio di minuti si alzò, instabile, e ricominciò a correre, fin quando non cadde di nuovo a terra, senza più le forze nemmeno per pensare. Non si spostò di lì, non le importava di non sentirsi abbastanza sicura. Non le importava di nascondersi, di salvarsi, di mettersi al sicuro. Non aveva più un motivo per combattere, non aveva più nessuno per cui farsi valere. Sola, totalmente sola, nel buio, nel freddo, nel dolore. Sola a dover affrontare tutto quel male che le era piombato addosso all’improvviso e di cui sapeva di non potersi più liberare. E allora, che la trovassero, che ne facessero ciò che volevano, a lei non importava più. Si addormentò, mentre le lacrime cadevano ancora, senza un riparo, nel mezzo di una pianura che nemmeno conosceva, mentre una luna spenta, pallida, slavata, dava il benvenuto ad una nuova notte scura, e le illuminava la schiena, quasi a voler indicare che adesso tutto gravava solo su di lei.
 
Un soldato procedeva a passo lento tra il fumo e la nebbia, con lo sguardo fisso a terra, si trascinava stanco verso una destinazione per lui ignota. Ancora sporco di sangue, spossato, con la pelle che gli continuava a bruciare per le ferite che si era procurato durante la missione, con tutte quelle esplosioni che ancora gli rimbombavano nella testa, andava avanti senza una meta, guardandosi intorno per cercare qualcosa che lo riconducesse alla realtà: le vicende che aveva affrontato fino a quel momento gli erano parse surreali, come se le avesse vissute soltanto attraverso un sogno lontano, sfocato. Si sentiva in delirio, con la fronte che bruciava e i brividi di freddo e di terrore che gli correvano lungo la schiena. Non sapeva dove andare, non sapeva dove si trovava, la testa gli esplodeva e, nonostante fosse notte, una notte buia e scura, un colore continuava a perseguitarlo, vorticandogli davanti agli occhi, senza tregua: rosso, fiamme, sangue, dolore, urla. Era un soldato semplice, non gli sembrava giusto che dovesse patire tutte quelle sofferenze per portare a termine un incarico così agghiacciante e delicato, che non sarebbe neanche dovuto spettare a lui: in fondo si era arruolato nell’esercito più che altro per obbligo, per trovare un modo per sopravvivere, non aveva altre ambizioni, non aveva altre pretese, non era abituato a queste imprese, lui, e non avrebbe mai voluto compierle. Gli sarebbe bastato combattere in modo anonimo tra le fila di un esercito, cercando di non farsi ammazzare, piuttosto che rendersi carnefice di un tale massacro; al solo pensiero si sentiva ardere vivo, come tutte quelle persone che aveva ammazzato, contro la sua stessa volontà. Ma come avrebbe potuto agire altrimenti? Non avrebbe potuto, era comandato dall’alto, senza più autonomia, senza più libertà, senza più poter pensare, e doveva fare ciò che gli veniva imposto, come un automa, totalmente a servizio del regime. E ormai senza dignità. Gli avevano detto spara e lui aveva sparato, senza rendersene conto, e le fiamme avevano divorato tutto, e le urla si erano estese dappertutto. Cadde in ginocchio, tenendosi la testa. Cosa aveva fatto? Perché l’aveva fatto? Se non avesse obbedito agli ordini, sarebbe stato ucciso, era questo che l’aveva spinto a rivoltarsi a se stesso. La paura di morire l’aveva atterrito e l’aveva reso un oggetto nelle mani dei più forti. Un oggetto, ecco in cosa volevano trasformarlo, per asservirsi di lui, per usarlo, e lui non era capace di opporsi a questa manipolazione, attraverso cui stavano trasformando gli uomini in fantocci. E adesso si trovava a vivere il proprio inferno personale, il senso di colpa lo dilaniava, lo svuotava. Aveva ancora negli occhi le immagini di quei poveri innocenti che morivano, tra atroci agonie, senza poter trovare scampo, senza potersi più salvare. E pensò che aveva contribuito a quella strage, lui, proprio lui. Già, ma anche lui non aveva trovato scampo, non aveva trovato nessuna possibilità di scelta, era stato costretto in un vicolo cieco senza via d’uscita, e aveva dovuto obbedire. Aveva dovuto farlo, ma questa consapevolezza non faceva che accrescere il suo stato di angoscia, perché era in gabbia, e non aveva alternative, se non agire come gli veniva ordinato, senza se e senza ma, senza un attimo di esitazione.
Lo sapeva, che non poteva continuare in questo modo, che sarebbe impazzito. Nel delirio, tentò di trovare una soluzione. In un attimo gli venne in mente un’idea perversa e corrotta, gli si presentò un piano da seguire alla lettera, passo per passo, un piano disperato e folle che gli avrebbe permesso di non sentire più la paura; intanto la sua testa si costruiva un alibi, per nascondere per sempre la sua parte fragile, per fare in modo che sparisse e fosse sostituita dalle false certezze con cui l’avevano contaminato, e che, come virus letali, avevano attecchito tra le sue convinzioni, modificandole in modo irreversibile. Quel giovane soldato, ventun anni ed un cuore puro, corrotto dal terrore e dal dolore smisurato, durante quella notte si trasformò in una copia distorta di sé, diventando una macchina perfetta tra le mani di quel sistema che li voleva tutti uguali, impavidi e spietati, assoggettati al proprio potere, mai più liberi. Nella testa gli risuonò una sola parola: guerra. Già, perché quella che l’Impero a cui egli apparteneva stava combattendo da anni contro quel popolo di ribelli e rivoluzionari, era una guerra violenta, sanguinosa, spietata, senza esclusione di colpi. Vinceva chi era più furbo e più cattivo, non chi provava più pietà, vinceva chi sterminava il nemico prima di essere sterminato, non chi tentava di trovare un trattato di pace migliore. I più deboli, gli innocenti, gli indifesi: nella guerra non valevano nulla; in guerra poteva avere un futuro solo chi era tanto scaltro da sopravvivere, in guerra vinceva solo chi non moriva. Sul suo volto si dipinse un sorriso amaro: lui non sarebbe morto. Lui aveva sete di potere e di vittoria, non gli importava a quale prezzo ottenerli. Aveva deciso di combattere per quell’esercito che l’aveva creato, ignaro di rappresentare il ruolo di una semplice pedina sulla scacchiera ben organizzata del potere. Egli non poteva saperlo, ma aveva appena superato un bivio tra vita e morte, attraverso il quale venivano separati i soldati appena arruolati, per scartare subito quelli inutili e per sfruttare fin da principio chi aveva da offrire qualcosa. Selezione naturale: i deboli, morivano da soli, morivano di dolore, perché non sopportavano il peso di dover compiere qualcosa che andasse contro la propria coscienza; i più forti venivano trasformati in macchine del potere, infallibili, programmate per un solo obiettivo, uccidere e devastare. E così lui aveva scelto la vita.
Si rialzò in piedi, barcollando, fin quando non riuscì a trovare stabilità, poi prese da terra la spada che per sbaglio aveva fatto cadere e la pose nuovamente nel fodero. Aveva preso la sua strada e non l’avrebbe abbandonata. Marciò per chissà quanto tempo ancora senza meta, cercando qualcuno dei suoi compagni di reparto a cui unirsi. Ad un certo punto, riversa sull’erba, gli parve di vedere un’ombra scomposta, che doveva rappresentare la sagoma di un uomo. Pensando si trattasse di uno dei suoi commilitoni, si avvicinò per svegliarlo, ma quando si trovò abbastanza vicino alla figura, si accorse che si trattava di una donna. Ritenne che quella ragazza lì distesa avrebbe dovuto rappresentare la sua prima vittima sacrificale, il simbolo del suo cambiamento, e, dopo aver sguainato la spada, si preparò ad abbatterla sulla sua testa. La sollevò con due mani e subito dopo calò un fendente dritto e potente. Un rumore. Un rumore lo fece fermare a pochi centimetri dalla testa della vittima. Si guardò intorno e scorse, poco lontano da lì, la sagoma di un suo compagno di reparto, che lo stava cercando. Gli fece cenno con la mano, poi si voltò un istante ad osservare la sua vittima, che giaceva sana e salva, ignara del destino che l’aveva salvata per un soffio dalla sua fine. Dannazione. Era stato interrotto al momento sbagliato, non poteva continuare il suo rituale in quel momento. Allora per quella volta la lasciava libera, ma l’avrebbe ritrovata, ne era certo, e avrebbe concluso la sua missione. Mise a posto la spada, ed estrasse il pugnale. Con un gesto fulmineo, lo passò appena dietro il gomito destro della ragazza, da cui cominciarono a scivolare piccole gocce di sangue. Poi si alzò in piedi e si diresse dal suo compagno di reparto. Nessuno doveva sapere di quel patto che aveva stipulato con se stesso, e quel segno di riconoscimento stava a significare ‘ovunque tu vada, un giorno ti troverò e terminerò la mia opera’. Una condanna ed una promessa, scritta indelebile con parole di sangue.
 
Durante il suo sonno tormentato da incubi e fantasmi più che mai reali, mentre il suo inconscio scatenava e metteva in luce tutte le paure che invano aveva tentato di seppellire e sguinzagliava tutti i mostri che aveva cercato di tenere a bada, le parve di sentire un lieve dolore dietro il gomito, a contatto con qualcosa di metallico ed affilato; tuttavia nel dormiveglia delirante in principio non ci fece caso, pensando che quella sensazione fosse simulata dai suoi sogni distorti. Eppure le sembrava così reale… Si svegliò di scatto nella notte gelida, con il cuore che batteva in modo ossessivo e pareva voler scappare da quella prigione. Il gomito destro continuava a bruciarle, e sentiva il sangue caldo scivolarle per il braccio. Si guardò allora intorno, e scorse in lontananza, con l’ausilio dei flebili raggi della luna che si facevano strada tra il nero pesante della notte, una figura che velocemente si allontanava nella nebbia, fin quando scomparve alla sua vista. Non fece in tempo ad alzarsi in piedi e seguirla, perché si era già dileguata nel buio. Si voltò, ancora confusa e assonnata, poggiò il palmo della mano per terra e si graffiò le dita. Cercando di non ferirsi ancora una volta, controllò cosa si trovasse lì per terra, tastando il terreno fino a trovare un oggetto freddo, probabilmente lo stesso che quella ombra misteriosa aveva utilizzato per procurarle la ferita sul gomito e che probabilmente aveva lasciato cadere, senza accorgersene, a causa della fretta. Prese l’arma dall’elsa, ma non riuscì a riconoscerla a causa dell’eccessiva oscurità che regnava in quella notte. Solo in quel momento le tornò alla mente ciò che era accaduto durante il giorno precedente: doveva essere un sicario quello che l’aveva colpita, ma perché fermarsi solo ad un graffio di poco conto, e non finirla una volta per tutte? O forse non l’avevano riconosciuta? Non poteva saperlo, ma non provava paura. Non voleva pensarci, ormai non si sentiva più padrona del suo destino; non c’era niente da fare, c’era solo quella solitudine forzata e quella voce nella testa che le diceva di fuggire, andare via e mollare tutto, mentre il suo cuore urlava vendetta. Si stese nuovamente per terra e lasciò che il suo sonno tormentato tornasse a invaderle la testa con quei continui incubi che sapeva di non poter più ignorare. Doveva effettuare una scelta definitiva, ma continuava a rimandare, e continuava a ripetersi che avrebbe scelto il giorno dopo. Perciò, senza muoversi, cercando di non pensare al freddo glaciale che le era entrato tra le ossa, si addormentò di nuovo.
 
Rosso abbagliante le accecava gli occhi. Cercava di capire in che posto si trovasse, ma vedeva solo rosso, dappertutto. E si sentiva bruciare, da una fiamma gelida che le ustionava la pelle fino a costringerla ad urlare. Lo stesso fuoco che divorava lei stava divorando anche tutti gli altri. Ma gli altri chi? Chi erano quelli? Fece uno sforzo immane per fissare lo sguardo su quelle figure che attorno a lei soffrivano del suo stesso dolore, ma che le apparivano così sfocate e lontane… Nonostante il rosso le facesse lacrimare gli occhi, continuò a tenerli aperti. Non voleva cedere, non poteva farlo. Lanciò un altro urlo, straziante, acuto e prolungato. E poi tutto le apparve chiaro. Si trovava al centro, nella piazza principale del regno, in preda alle fiamme che si mangiavano qualsiasi cosa incontrassero sulla loro strada, senza avere pietà. E intorno a lei, tutto il suo popolo, che affrontava il suo stesso triste destino, di distruzione, morte, desolazione. Era arrivata la fine. Urlò ancora una volta dibattendosi e dimenandosi per cercare di liberarsi da quelle catene invisibili e troppo strette che la tenevano legata ad una sorte che non doveva compiersi in quel modo. Allora cercava di scappare, ma quel rosso la perseguitava, e non era solo da fuori che la straziava, le si era incastrato nell’anima e faceva bruciare anche quella. Infine, in un solo attimo, le fiamme si alzarono e fu solo rosso; lei urlò con le uniche forze rimaste, e il mondo si fece improvvisamente buio.
 
Si mise a sedere di scatto, respirando con difficoltà. Per fortuna solo un sogno. E così aveva vissuto quella strage anche sulla propria pelle. Doveva essere l’alba, i deboli raggi del sole sbucavano tra le nubi e rischiaravano il paesaggio. Spalancò gli occhi e provò a calmarsi, ma la paura che aveva provato era stata così forte, che non riusciva più a dimenticare quello che aveva visto e il terrore che l’aveva attanagliata. Non poteva restare ferma davanti a tutto quel dolore, non poteva trovarsi ogni notte di fronte ad incubi del genere, sapendo di non aver trovato la forza per reagire. Vendetta, ogni parte di lei gridava vendetta. Giurò a se stessa che non si sarebbe data per vinta. Poi lo sguardo le cadde su quella piccola arma che poche ore prima, durante la notte, l’aveva ferita. Si trattava di un piccolo pugnale, ancora sporco del suo sangue. Lo prese in mano e lo osservò con attenzione: sull’elsa vi era rappresentato uno stemma nero, che non seppe riconoscere. In ogni caso lo raccolse e lo prese con sé. Non sapeva che farne, di armi già ne aveva, tuttavia decise di tenerlo: sentiva che dovesse appartenerle, come se tra lei e quell’oggetto all’apparenza anonimo, si fosse instaurato un legame, un legame indissolubile che era stato sancito dalle sue gocce di sangue che ne avevano macchiato la lama. E si fece una promessa quel giorno: giurò a se stessa che avrebbe trovato la persona che l’aveva ferita, ad ogni costo, l’avrebbe cercata ovunque, in ogni angolo della Terra, e avrebbe bagnato quel pugnale anche del suo sangue. Si, se lo promise. Da quel momento in poi la parola vendetta sarebbe rimasta impressa nella sua testa, marchiata a lettere di fuoco, scritta indelebile che non se ne sarebbe andata più via. Sarebbe stata il suo unico comandamento, la sua sola ragione di vita, l’unico motivo per cui riusciva ancora a non perdere il senno e a mantenersi lucida. Vendetta, ogni poro della sua pelle stanca, ogni brandello della sua anima straziata gridava vendetta, i suoi occhi neri e ardenti parlavano di vendetta, ogni ricordo che le era stato distrutto, avvelenato davanti ai suoi stessi occhi, ogni lacrima che aveva versato le diceva soltanto una cosa, vendetta. Era assetata, e la sua sete non si sarebbe placata presto. Tutto il dolore che aveva subito, tutta la vita che in un attimo aveva perduto, lo sconforto che l’aveva assalita e la paura, il terrore, quella solitudine nel sapere che era l’unica, l’unica ad essersi salvata dalla strage, ad essere sopravvissuta, così per caso, incrementavano il suo odio e la sua ira, mentre il suo bisogno di vendetta cresceva, cresceva smisuratamente, come un mostro dentro di lei, che non avrebbe smesso di dibattersi fino a quando non sarebbe stato placato.
Cercò di calmarsi, cercò di restare lucida e di non lasciarsi dilaniare tra il dolore e la vendetta. Non sapeva ancora come avrebbe agito, ma era certa che per il momento ci fosse solo una cosa che lei potesse fare: doveva rifugiarsi da qualche parte e poi doveva cercare aiuto. Era rimasta un’unica strada da intraprendere, lo sapeva bene, e non provava più paura: doveva combattere contro l’Impero, e avrebbe usato ogni singola arma a sua disposizione, in una lotta senza esclusione di colpi. Ormai a cosa sarebbe servito nascondersi? Si era nascosta per una vita intera, piegata dal terrore di chi era troppo più potente di lei, sperando di potersi salvare con il suo popolo solo aspettando che una simile tragedia andasse incontro alla propria fine, che, come tutte le altre cose, terminasse il proprio corso, un giorno o l’altro, prima o poi. Ma gli autunni passavano, sempre uguali tra loro, e con gli autunni passavano anche le speranze, cadevano giù come le foglie secche che non ce la fanno più a mantenersi sui rami; e così anche gli inverni gelidi, si scioglievano tra fuoco, sangue e violenze, mentre nessuno trovava il coraggio di opporsi a questi massacri, ognuno sperava di sopravvivere un altro inverno senza che venisse il proprio turno di morire; e dopo ogni inverno, arrivavano le primavere, fiori grigi, appassiti prima ancora di nascere, chiusi in sé, nascosti tra pallottole e cemento, primavere che erano sinonimo di nuova devastazione, non di nuove speranze; ma l’estate, l’estate era anche peggio, l’estate non finiva mai, tra quel caldo torrido, siccità ripetute, quel sole che non se ne andava più e bruciava tutto, come fosse un alleato di quel maledetto Impero, senza lasciare un attimo di tregua; e la notte era anche peggio, la notte si tremava, la notte non passava, con quei continui bombardamenti che cadevano sulle teste al posto della pioggia, non si trovava un secondo di pace, mai. Ecco a cosa era servito nascondersi, era servito soltanto ad accrescere il terrore e la pressione dell’Impero sulle persone, erano stati tutti plasmati, tutti trasformati in marionette che non sapevano più pensare con la propria testa, che sapevano solo piegarsi e subire, che tentavano di ribellarsi, ma erano capaci soltanto di assoggettarsi sotto il dominio di chi si era preso la licenza di poter decidere e di poter comandare su ogni singola vita. Le persone erano state ridotte ad una folla anonima e spaurita, che per una salvezza precaria aveva buttato via la salvezza della propria libertà. E allora che fare? Per prima cosa, avrebbe dovuto organizzarsi. Non poteva agire come una sprovveduta, doveva compiere qualche impresa importante e capace di attirare l’attenzione. Doveva risvegliare quegli animi impauriti, oppressi, annichiliti, devastati, annientati che l’Impero aveva fabbricato sotto di sé, per poterli meglio controllare, pilotare, dirottare. Doveva ridestare l’ardore di libertà, ormai spento ed andato perduto tra minacce e violenze, e la dignità, calpestata e lasciata agonizzante nel fango. Doveva offrire una nuova possibilità a chi si era dato per vinto, a chi aveva buttato via le proprie armi, senza più volerne sapere di combattere per una causa persa già in partenza, a chi si guardava ogni giorno e non si riconosceva più, perché nello specchio vedeva di sé solo un’immagine sbiadita, svuotata, slavata, un fantasma stanco e privo di ogni speranza. Doveva restituire i sogni a chi li aveva visti infranti in schegge taglienti ed inutili, con la dura consapevolezza di non poterli più ricostruire.
Non aveva progetti, era poco informata e sapeva che doveva stare ben attenta ad ogni passo che muoveva. La sua unica possibilità in quel momento sarebbe stata quella di rifugiarsi in un regno particolarmente sicuro e da lì organizzare le sue mosse, ma doveva stare attenta: gli inganni, i tranelli, le apparenze avrebbero potuto impedirle di portare a termine quanto si era prefissa. Non dovevano prenderla, non dovevano prenderla in alcun modo, ed era certa che non l’avrebbero presa, non ci sarebbero riusciti. Nessuno sarebbe stato capace di fermarla. Nessuno le aveva mai insegnato cosa significasse arrendersi, e non aveva intenzione di imparare in quel momento; perciò, nonostante quella mattina si sentisse stanca e confusa, sapeva di doversi mettere in cammino fin da subito, senza indugio, perché non poteva rischiare di essere scoperta. In molti la conoscevano, spesso era sfuggita alla morte, alla cattura o alla tortura per pura fortuna, sfidando la propria sorte e scavalcando ogni ostacolo che le veniva posto davanti, intrepida, senza paura, guardava la morte in faccia senza provare nemmeno un brivido. Non temeva il rischio, si avventurava ovunque senza tremare neanche un po’, rideva, sprezzante, in faccia ai nemici che la minacciavano e sfuggiva continuamente al proprio destino. No, di paura non si trattava, più che altro doveva essere cauta, non avrebbe dovuto compiere gesti troppo avventati, pericolosi o che attirassero l’attenzione, doveva agire nell’ombra, in silenzio, senza scoprire i propri assi nella manica. Si, procedere un passo alla volta, nascosta, anche perché era ricercata in tutto l’Impero, e non ci avrebbero messo molto a riconoscere il suo viso, stampato dappertutto, con una taglia cospicua offerta in premio a chi l’avesse catturata. In fondo rappresentava un pericolo, in quanto faceva parte dell’alleanza segreta del Neway, unica ed esigua opposizione a quel regime dittatoriale che stava divorando il mondo, senza mai riuscire a saziarsi. Pensò che potesse rivelarsi troppo pericoloso recarsi al ritrovo dell’alleanza, anche perché da un bel po’ di tempo non si tenevano più riunioni: i controlli erano stati incrementati e sul paese vigeva la legge del sospetto: chiunque venisse sospettato, era subito giustiziato a sangue freddo da un colpo di fucile, che si andava a infilare dritto nel cuore. Mentre rifletteva si guardava intorno, in modo circospetto, osservando attentamente il territorio: non si trovava molto lontana dal centro esatto dell’Impero e dalla sua agghiacciante capitale, imponente ammasso di metallo e cemento, costantemente ricoperta da fumi grigi e tossici che per troppi chilometri si spandevano nel cielo, invadendo ogni singolo angolo di blu ancora visibile e aleggiando sulle teste dei cittadini, come un cattivo presagio. Doveva allontanarsi da quel posto, assolutamente: si trattava infatti di uno dei crocevia maggiormente pattugliati dai soldati di ronda, in quanto si diramava in quattro diverse direzioni e conduceva al tetro Picco dei lamenti, territorio sconosciuto, ma ostile e nocivo, specialmente per lo stesso Impero, da cui a volte provenivano urla sinistre e da cui fuggivano creature orribili e particolarmente dannose. Si trattava dell’unico territorio rimasto libero dall’opprimente pressione dell’Impero, l’unico su cui l’Impero non era stato capace di ottenere la meglio, e su di esso si narravano storie insolite. Gli unici soldati che erano usciti vivi dalla guerra folle e straziante contro il territorio del Picco, erano impazziti, e avevano raccontato, delirando, fatti strani e avvenimenti orrendi. Nessuno si spiegava perché il Picco non intervenisse per fermare l’avanzata prepotente dell’Impero, ma restasse chiuso in se stesso, senza che nessuno potesse entrarne o uscire mai più. Si allontanò presto dalla strada che conduceva al Picco, era l’unica cosa che le incuteva timore. Perciò, verso est si ergeva la capitale con tutti i suoi territori vassalli; verso nord si intraprendeva la strada verso il Picco; ad Ovest, dalla direzione da cui lei stessa proveniva, si trovavano soltanto devastazione e disperazione, territori razziati, saccheggiati e lasciati marcire tra morte, sangue e silenzio. Le restava soltanto un’opzione, che le parve l’unica per il momento sicura, l’unica scelta saggia che si potesse compiere: raggiungere i territori dell’estremo sud e rifugiarsi lì. Doveva tuttavia tener conto di due fattori non poco rilevanti: tutte le strade che conducevano al sud erano tenute di guardia da numerose pattuglie, in quanto l’Impero temeva i territori rivoluzionari dell’estremo sud; per di più quelle stesse strade erano la patria preferita per quei predoni che aggredivano, derubavano, uccidevano senza pietà chiunque si trovasse a passare di lì, senza scrupoli. Strinse forte l’elsa della spada al sol pensiero; non possedeva alcuna arma da fuoco, perché era permesso portarle soltanto alle reclute dei soldati appartenenti all’esercito dell’Impero, e non era mai riuscita a rubarne una; era consapevole che, in caso di scontro diretto, le possibilità di fuga erano scarse, ma sapeva di dover rischiare. Fece un respiro profondo e chiuse gli occhi per un paio di secondi: quando li riaprì, era ormai pronta ad affrontare il suo destino.
  
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