Tempo Di Ricordi
Note dell'autrice: questo capitolo è palloso.
Si si lo sò che non dovrei essere io stessa a parlar male della mia opera ma è la verità, è un capitolo lungo, palloso e tedioso ( che poi sono praticamente sinonimi) ma non ho potuto fare a meno di scriverlo, ho dovuto. Rileggendo i vecchi capitoli e quelli futuri che avevi già scritto, mi sono accorta che c'erano comportamenti che andavano spiegati, personaggi che andavano meglio caratterizzati e tutto ciò è questo capitolo, una vita passata, anzi due vite passate, che andavano raccontante, per loro, per voi.
Un bacio e grazie ancora tantisssimo per tutte le recensioni!!!!
[ Il tempo non è poi questo gran male, dopotutto. Basta usarlo bene, e si può tirare qualsiasi cosa, come un elastico, finché da una parte o dall'altra si spacca, e eccoti lì, con tutta la tragedia e la disperazione ridotta a due nodini fra pollice e indice delle due mani. (William Faulkner)
Il tempo raffredda, il tempo chiarifica; nessuno stato d'animo si può mantenere del tutto inalterato nello scorrere delle ore. (Thomas Mann)
Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annichila. (Giordano Bruno)
Il tempo umano non ruota in cerchio ma avanza veloce in linea retta. È per questo che l'uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di ripetizione. (Milan Kundera) ]
Serena, Angela
< 120, Round Street, LittleChapel, Nevada
??>
< 120, Round Street, LittleChapel, Nevada> mi confemò la vocina decisamente troppo
allegra e acuta per essere ben accetta dal mio mal di
testa.
< Mmh… non per mettere in discussione il tuo innato senso dell’orientamento
ma, non so se ti sei accorta che intorno a noi regna il nulla. > pronunciai a
fatica le mie parole, strascicandole. Cercai di alzarmi ma quando mi accorsi che
tutto intorno a me vorticava e che il mio tentativo di scendere da quello che mi
sembrava il giro della morte era inutile, finii per riaccasciarmi sul sedile
posteriore del minivan.
< Devi sooooooooooooooooooolo aver un po fiduuuuucia. > mi disse scoppiando nuovamente a ridere
senza un motivo preciso, ma la domanda è: come potevo fidarmi di una bugiarda (
no, non avevo ancora dimenticato la questione “Mr. D.”) ubriaca che aveva
trascorso i precedenti 30 minuti cercando di capire per quale motivo il volante
non fosse dove lei credeva dovesse essere?
Semplice: non potevo, ma era da escludere l’ipotesi di tentare di guidare
a mia volta la vettura perché, nelle condizioni in cui mi trovavo, non sarei
riuscita a muovere un dito. Se da una parte il mio fisico aveva deciso di non
collaborare, dall’altra il mio cervello aveva collocato al suo ingresso
un’insegna con scritto “ Work In Progress” costringendo le mie povere celluline
grigie a lavorare in nero. Il soggetto del mio investigare, completamente
all’oscuro dei miei pensieri, continuava la sua guida a zig-zag, cambiando
corsia alla stessa rapidità con cui mia sorella cambiava
ragazzo.
Dopo aver mangiato da Mc aveva avuto la brillante idea di andare a “bere
qualcosina”, inutile dire che quel
“quacosina” nella sua lingua voleva dire: 2 birre grandi, 2 vodka-lemon, 2 sex
on the beach e un Jack Daniels, ovviamente a testa. I miei ripetuti tentativi di concincerla
a prendere un taxi o di dormire in un albergo nelle vicinanze almeno per quella
notte erano stati vani ed eccomi qui stravaccata in un minivan viola lottando
con tutta me stessa per sopravvivere all’istinto di vomitare in qualche anfratto
del veicolo.
Mi addormentai sbatacchiata sul sedile posteriore abbandonandomi ai miei
pensieri: per la prima volta mi accorsi veramente di quanto fossi sola. L’unica
mia certezza era sempre e solo stata l’amicizia con Angy. Prima di conoscerla ho
sempre creduto di non essere niente, solo un raggruppamento di cellule in
movimento, nulla di degno, nulla
che potesse meritarsi la stima e l’affetto degli altri. Mi ricordo ancora il
giorno in cui la incontrai per la prima volta. Ero in quinta elementare, primo
banco da destra in terza fila, sotto la finestra, la porta per mio mondo
immaginario. Accanto a me un bambino grassottelo ed occhialuto giocherellava con
una gomma da masticare raggrinzita, facendosela passare tra le dita imbrattate
di pittura. Gli cadde per terra. Non mi stupii neanche quando con la cosa
dell’occhio lo vidi raccoglierla e infilarsela nuovamente in bocca con uno
schiocco di lingua. Giovanni-mangia-tutto Lo Spazzino lo chiamavano, Er Fogna
per i più burini e se questa era la sua nomina vi assicuro che c’era più di un
buon motivo. La maestra richiamò la nostra attenzione agitando una mano, facendo
tintinnare i sonaglini che pendevano dal suo braccialetto d’ argento legato al
polso. La ignorai più per abitudine che per maledicazione: una volta che mi
immergevo nelle mie fantasie navigando in esse, non sarebbero certamente state
delle piccole campanelle a riportarmi in superficie. Un mormorio a stento
soffocato al quale seguirono vari urletti d’eccitazione, mi spinsero a voltarmi
stimolando la mia curiosità. Nascosta dalla maestra Umbrelli, una piccola
bambina magrolina accennava un sorriso spaventato. AL collo era appesa una
collanina d’oro. Strinsi gli occhi per cercare di focalizzarla meglio: Angela B.
Era inciso.
“Angela, un nome banale” pensai. All’epoca ero nel periodo battezzato da
mia madre “Dei Nomi Strani” e avevo già pensato una ventina di volte di cambiare
all’anagrafe il nome: RosaSpina, Estefa, Rosmerita, Juditta, Iris, Brittany,
Alexixis ecc.. In quei giorni mi ero decisa per Neon Andrea, nome che potevo
utilizzare sia al maschile che al femminile, nel caso avessi deciso in un futuro
di cambiare sesso.
La Signora Umbrelli le fece segno di accomodarsi in prima fila, davanti
alla cattedra, non che la bambina potesse avere altre scelta considerando che
quello era l’unico banco libero. Da quella posizione potei studiarla meglia,
indisturbata. Aveva lunghi e lisci capelli neri che le ricadevano sulle gracili
spalle incorniciandole il viso magro. Il piccolo naso lentigginoso le divideva
il viso simmetrico esattamente a metà e gli occhi grandi si muovevano frenetici
come se volessero catturare ogni più piccolo dettaglio cercando allo stesso
tempo però, di non essere troppo invadenti. Nel complesso era bella, nonostante
avesse un’aria malaticcia, come se si potesse rompere da un momento all’altro,
impressione che veniva sottolineata dalla sciarpa che le circondava il collo, la
sciarpa di lana che portava in
primavera inoltrata che, come scorpii in seguito, serviva solo a coprire certi
lividi che nessuno al di fuori della sua famiglia, neanche io, avrebbero mai
dovuto vedere.
Improvvsamente quegli occhi così espressivi indirizzarono la loro
attenzione su di me che, senza rendermene conto, mi ero imbambolata ad
osservarla. Distolsi lo sguardo imbarazzata ma stranamente non mi sentii a
disagio neanche quando, rialzando il viso, scoprii che mi stava ancora fissando.
Tentai invano di ricacciare un ciuffo ribelle dietro l’orecchio sinistro ma dopo
svariati tentativi non ci riuscii. Angela mia stava ancora guardando. “ Crederà
che sono un’idiota” pensai vergognandomi per la prima volta di me stessa e della
mia diversità. Ritrassi subito dalla sua vista le mie mani laccate di nero. Mi
sorrise e fu il sorriso più sincero e vero che ricevetti in tutta la mia vita.
Da quel giorno niente ci separò, fu la prima persona che capì la vera me, quella
che avevo rinchiuso in qualche mia profondità e riuscì a tirarla fuori con una
naturalezza e semplicità che mi sbalordinono. Mi insegnò anche come mostrarmi
agli altri, senza paure e senza remore e pian piano diventai quella che sono ora
alllungando sempre di più la lista delle mie amicizie, ma lei, in quell’elenco,
aveva un posto privilegiato perché era stata la prima, l’unica quando nessuno mi
voleva.
Tutto ciò mi influenzò più di quando credessi, arrivai a pensare che
senza di lei non sarei mai stata nessuno, solo un’essere vivente in più senza
uno scopo o un obiettivo. Le mostrai la mia gratitudine illimitata creando così
un rapporto unilaterale. Si lei mi voleva bene più di qualsiasi altra persona ma
non aveva la possibilità di conoscermi perché io non glielo permettevo poiché
cercavo costantemente di focalizzare la mia attenzione su di lei privilegiandola
nel nostro rapporto di amicizia, facendo credere a me stessa e di conseguenza
anche a lei, di essere più importante di me. Conoscere i suoi film, attori e
libri preferiti, imparare le canzoni per lei più importanti, riconoscere ogni
suo modo di fare per catalogarlo,
in questo modo riuscii in poco tempo a dedurre sempre di cosa aveva
bisogno quando, dove e come, viziandola in un certo senso. Comportandomi così
però non avevo trovato lo spazio per me poiché avevo anteposto lei ai miei
bisogni e adesso erano bastati pochi mesi che per far creare una barriera tra di
noi. Non ero riuscita neanche in quello e per giunta mi trovavo dall’altra parte
del mondo per sottostare a quello che mi sembrava un altro suo capriccio con
quella che per me stava diventando una
sconosciuta.
In questi mesi ero riuscita ad impegnarmi veramente in quello che più mi
piaceva e che avevo cercato di reprimere: ballare, disegnare e scrivere. Angela
era sempre stata, almeno apparentemente, quella più intelligente tra noi due e
il mio ruolo era quello della stupida simpaticona, quella che faceva ridere e
così era rimasto. Lei la riflessiva e io la buffona: così la pensavano gli altri
e così finii per pensarla anche io finchè un giorno, complice un compito in
classe, mi resi conto di quanto mi piacesse scrivere, trarre spunto dalla mia
fantasia per imprimerla su carta. Custodii quella scoperta per me perché anche
solo pronunciare ad alta voce quell’idea mi sembrava un peccato, un infrangere
le regole che noi stesse avevamo creato, forse, senza neanche accorgerci e al di
fuori di esse, io non ero nessuno e allo stesso tempo tutto perché potevo ancora
decidere chi diventare, costruirmi un’identità. Ma i cambiamenti mi spaventano,
perdere dei punti fissi, una variabile indipendente, mi terrorizza e quindi
preferiii coltivare questa mia passione di nascosto, nell’ illegalità della mia
mente. Quando finalmente decisi di uscire allo scoperto accadde tutto troppo in
fretta: Angela decise di partire e Alessandro morì. Ero distrutta poiché lui era
uno dei miei migliori amici e non potevo neanche sfgarmi con la mia amica,
poiché era troppo occupata a riuscire dal suo di dolore così trovai conforto
nella stesura di nuove storie e cominciai a postare i miei lavori su alcuni siti
web dedicati a fan fiction o racconti di nuovi autori in generale. Ero turbata
dall’idea che qualcuno al di fuori di me potesse leggere i miei lavori,
preoccupata dal pensiero che potessero non piacere, spaventata dal giudizio
degli altri, ma ben presto riscossi molto successo e giunsi ad avere anche dei
“lettori fissi”, molti dei quali erano a loro volta scrittori: Lady, Step,
Giusy, WriterLover, Whathername20, ecc..
Una di loro mi incuriosì maggiormente: era l’unica senza un profilo e, a
parte piccole eccezioni, commentava solo le mie storie. Le sue recensioni erano
le migliori, un vero tocca sana per la mia poca autostima; “Lost&Broken” era
il suo nick name. Dai commenti che mi lasciava sembra quasi come se mi
conoscesse, come se mi volesse veramente bene e fosse orgogliosa di me. Più
volte avevo riso di fronte a questo pensiero dandomi dell’ingenua e credendo
che, prima o poi, avrei avuto il coraggio di mostrare i miei lavori anche ai
miei genitori, amici e ad Angy; sperando che anche loro sarebbero stati così
orgogliosi di me.
Proprio riguardo ad Angela, informarla allora, nel momento più cupo di
tutta la sua vita, del nuovo mondo che mi si era aperto davanti, della mia gioia
davanti al suo dolore così profondo mi sembrava un’eresia ma ora, con sei mesi
di distanza, mi accorgo che forse non le dissi niente per il semplice fatto che
ogni cosa che ho mai avuto diventava automaticamente di tutte e due e infine
solo sua, perché è sempre stata la migliore tra le due, quella degna di nota e
il solo pensare che lei potesse “rubarmi” anche le mie storie, quest’ultima
parte di me, mi uccideva.
Io stavo solo cercando di
preservarmi.
Con questa consapevolezza mi addormentai, abbandonandomi in un sonno
pieno di incubi.
Angela, In Macchina, Sedile Anteriore
Nonostante quello che la mia migliore amica poteva pensare, non ero
ancora ubriaca, un po brilla, questo è vero, ma non avevo ancora sorpassato il
limite, quella sottile linea che, una volta attraversata, avrebbe cancellato
almeno per una notte, tutto il male che avevo subito e, che a volte, mi ero autoinflitta. Istintivamente
lanciai un’occhiata fugace al mio polso che avevo tormentato così tanto in
questi ultimi mesi ma tutti i segni che non si erano ancora rimarginati, erano
nascosti da un enorme bracciale nero che, col suo peso, non faceva altro che
ricordarmi la consistenza delle mie azioni, il dolore dei miei ricordi e il
senso di impotenza che molto spesso mi pervadeva.
Probabilmente se un poliziotto mi avesse intimato di scendere dalla
macchina e di eseguire il test del palloncino, non lo avrei superato, ma in
questi sei mesi ero riuscita, a discapito del mio fisico, a spostare sempre di
più in là la soglia di alcool
giornaliera che il mio corpo poteva sopportare e ci ero riuscita perdendo il
senso della realtà quasi ogni notte. Dormivo vivendo nell’illusione che, una
volta svegliata, avrei cancellato tutto il mio dolore, dimenticato la sua
perdita. Ma ogni volta che aprivo gli occhi, così come la pallida luce solare
brillava con sempre maggiore intensità nel cielo, così quel vuoto, quella
voragine si inculcava sempre di più in me e l’immagine del suo viso, del suo
sorriso, mi accecava lasciando un altro segno indelebile sul mio cuore,
marchiandomi nuovamente. Ogni nuovo giorno non era altro che il ricordo del
precedente e di quello prima ancora. Nulla dentro di me mutava, cresceva solo il
numero di alcolici vari che stanziavano ormai permanentemente nella mia cucina,
nel mio frigo. Quando le lacrime poi erano esaurite sopraggiungeva la voglia di
sparire e dormire… per sempre, la necessità di far scivolare via tutti i miei
pensieri su di lui. Così andavo in bagno e chiudevo la porta, non che avessi
bisogno di privacy infondo quel piccolo appartamentino era solo mio, no,
accostavo la porta perché mi vergognavo di quello che di lì a poco avrei fatto,
sapevo che se lui mi avesse visto avrebbe sofferto ancora di più sapendo che la
causa di tutto questo era lui, la sua morte, ma soprattutto, lo avrei deluso e
questo, mi faceva più male di tutto, ma ormai non potevo più fermarmi, ci
sarebbe voluta troppa forza di volontà.
Mi fermai ad un semaforo, non che ce ne fosse stato bisogno: la
straducola sterrata era solitaria e solo il rumore dell’arrancare del mio
minivan dava al paesaggio un minimo senso di vita a tutta quella staticità.
Scoccia un’occhiata fugace verso il sedile posteriore, soffermandomi ad
osservare per pochi secondi il corpo addormentato della mia amica. La fronte era
imperlata dal sudore e si contorceva tutta, probabilmente in balia di un incubo.
Provai l’irrefrenabile istinto di abbracciarla.
Verde. Inserii la prima e lo stridio delle ruote rieccheggiò. Con la
mente ripercosi il giorno del nostro primo incontro.
Ci eravamo nuovamente trasferiti propinando agli amici la solita scusa:
avevamo voglia di viaggiare, di cambiare aria. Nessuno aveva mai fatto domande:
mio padre possiede case in tutto il mondo e può gestire le sue imprese via
telematica; mia madre invece, vive passando le sue giornata scorrazzando da una
boutique all’altra e mio fratello… beh fa il mantenuto dai miei di conseguenza
per noi vivere, agli occhi degli altri, era un po come essere perennemente in
villeggiatura; cambiare città però, per noi non era una scelta ma un obbligo.
Mio padre aveva vari vizi, tra cui il bere e le donne. Organizzava grandi feste
alle quali partecipavano solo i suoi amici più stretti e si chiudevano tutti
della vicinanze della piscina della villa di turno. C’era un via vai di giovani
ragazze dagli strani accenti e mio padre sembrava conoscerle tutte. A noi
bambini non era permesso partecipare: mamma ci portava a letto, ci raccontava
una favola e usciva anche lei. Non tornava fino al mattino successivo così
toccava a noi portare papà in camera da letto quando era troppo ubriaco per
reggersi in piedi.
Passando dei pomeriggi a casa di amiche vedevo i loro genitori uscire
insieme, passare la serata in qualche ristorantino famoso, coccolarsi sul divano
e trascorrere qualche serata al cinema. I miei, invece, l’unica cosa che facevano insieme era
fare sesso, e a volte nemmeno quello ( insieme intendo ): avevano due bagni separati, mangiavano
ad orari diversi ed erano troppo presi dalla loro vita per trascorrere qualche
ora fuori, se non per lavoro. Ogni tanto parlavano anche, il loro argomento
preferito, o meglio quello di mia madre, erano i soldi di conseguenza troppo
spesso litigavano. In quei casi mamma se ne andava via per qualche giorno,
lasciandoci lì da soli dicendoci che prima o poi sarebbe tornata. Papà, allora,
scaricava la rabbia su di noi, specialmente su di me che ero il suo brsaglio
preferito perché ero passiva. Non trovavo la forza di reagire. Ma i segni sul
mio corpo per quando cercassimo di nasconderli, venivano sempre fuori in qualche
modo e non appena qualcuno cominciava ad interessarsi un po troppo ecco che
tiravano fuori la solita scusa del voler visitare qualche posto nuovo, conoscere
persone diverse.
Quando avrei dovuto iscrivermi alla quinta elementare a Milano,
traslocammo a Roma. Non ero dispiaciuta più di tanto: ormai vivevo nella
costante consapevolezza che prima o poi ci saremmo di nuovo trasferiti perciò
non sentivo più il bisogno o la voglia di stringere nuove e profonde amicizie
nella città in cui andavamo ad abitare. Ero arrivata a Roma con questo
presupposto in testa ma, a quanto pare, il destino aveva qualcos altro in mente
per me.
La scuola era situata a sud di Roma, nelle vicinanze delle Fosse
Ardeatine, immersa nel verde. Fui presentata alla maestra Umbrella, una donna
sulla quarantina dal naso adunco, prima di entrare in classe. L’aula non era
grande quanto quella della scuola di Milano ma era comunque spaziosa. Ciò che mi
colpì particolarmente fu l’ ampia finestra situata sul lato destro dalla quale
si potevano scorgere prati, alberi e, in lontananza, anche delle pecore. Cercai
di spostare l’attenzione su ogni singolo particolare di quell’aula così da non
dover gestire le 24 teste che si erano voltate a guardarmi, imbarazzandomi ma
non stupendomi. Ero abituata ad essere la “novità”: per le prima due settimane
venivi trattata come una principessa, tutti volevano saperne di più di te ed
essere tuoi amici ma poi, dopo un mese circa, succedeva qualcosa di più
interessante che ti surclassava, mettendoti in secondo piano. Quel giorno però
c’era qualcosa di diverso. Non me ne accorsi subito ma poi capii: una bambina
piccolina aveva lo sguardo perso al di là della finestra e non sambrava
minimamente interessata me.
Mi incuriosì.
La maestra mi fece accomodare davanti alla cattedra, unico banco libero,
posizione strategica per tutti visto che, da voltata, potevano guardarmi senza
dare nell’ occhio.
Mi sembravano tutti così insignificanti, così uguali finchè non mi girai
e la vidi: la bambina sognatrice mi stava osservando. Distolse immediatamente lo
sguardo, imbarazzata per essere stata colpita in flagrante, torturandsi le mani.
Le unghie erano smaltate di nero e delle orecchie facevano capolino come
orecchini due spille da balia, per collana aveva un plettro. Portava i capelli,
ricci ed arruffati, sciolti e cercava invano di portare un ciuffo dietro
l’orecchio sinistro ma quello, ribelle, risaltava fuori immancabilmente. Si
spazientì.
Provai un’immediata simpatia per lei come non mi era mai capitato per
nessuno e dissi a me stessa che forse avrei potuto fare uno strappo alle regole
questa volta, forse avrei anche potuto affezionarmi a qualcuno per una volta.
Rialzò timidamente il viso
verso di me poi con un gesto repentino allontanò dalla mia vista le mani smaltate di nero forse credendo che le
avrei trovate strane. Mi piaquero subito. Mi stava ancora guardando con la
tipica aria incerta come se si aspettasse qualcosa e allora le sorrisi, sperano
di racchiudere in quel sorriso tutti i miei precedenti pensieri.
Da allora diventammo inseparabili, io e lei, SereeangY , tutto attaccato,
sempre insieme. Le raccontai tutto, della mia famiglia, di mio padre, dei nostri
trasferimenti. Tutto!! e non mi sentii mai così felice come quel giorno in cui
abbattei ogni barriera, ero finalmente libera. Serena era sempre così solare,
felice, gentile e dolce con me e bella. Volevo a tutti i costi essere come lei,
diventare così fantastica ma lei non si accorgeva della fortuna che aveva, era
così priva di autostima in se stessa e mi sentii in dovere di aiutarla, di
aprirle gli occhi, di dimostrarle la mia gratitudine per avermi permesso di
essere sua amica. Col tempo però qualcosa cambiò, fu come se la persi di vista:
eravamo sempre insieme ma non riuscivo a capire dove iniziava lei ma non me ne
proccupai perché Serena era sempre
rimasta la ragazza di sempre, allegra e dolce e sempre pronta a starmi vicino in
qualunque situazione. Neanche quando incontrai Alessandro il nostro rapporto
cambiò forse anche grazie al fatto che loro erano molto amici.
Quando morì però qualcosa si spezzò irreparabilmente tra di noi: mi
sentivo inutile perché sapevo quanto anche lei stava soffrendo ma non riuscivo
ad aiutarla troppo presa dal mio di dolore.
Un giorno andai a casa sua
perché la solitudine del mio appartamento mi stava uccidendo. Mi disse che
potevo restare e di aspettarmi in camera sua mentre si faceva la doccia. Accanto
al comodino trovai un suo diario: quando eravamo piccola ne avevamo uno dove
scrivevamo tutte e due, lo tenevamo un giorno a testa e poi ce lo scambiavamo e
leggevamo quello che aveva scritto l’altra aggiungendo pagine a nostra volta.
Lo aprii e cominciai a leggerlo credendo che fosse uno dei nostri vecchi
ma molto presto mi accorsi che mi sbagliavo: la data annotata in alto a destra
nella prima pagina recitava “ 10 gennaio 2007”. Mi chiesi per quale motivo la mia amica mi
avesse taciuto tutto ciò , insomma Serena mi informava anche di quando andava in
bagno e si dimenticava di dirmi che aveva ricominciato un diario???
Immediatamente potei rispondermi: parlava di me, del nostro rapporto di amicizia
e di come si sentisse schiacciata da me e dal mio egoismo. In quel modo scoprii
anche della sua passione per lo scrivere: a fine pagine aveva segnato infatti, e
successivamente evidenziato con un pennarello fuxia, una lista di link presso i
quali avrei potuto leggere le sue storie. Sentii lo scrociare dell’acqua e la
mia amica canticchiare spensierata. Mi fermai a riflettere cercando di ricordare
l’ultima volta che avevo visto Serena così senza pensieri e allegra ma non mi
venne in mente nulla. Scorsi un blocco di post it scarabbocchiato giacere sul
lato destro della scrivania e proprio quando udii lo schiudersi della porta del
bagno finii di appuntarmi i link su uno di essi. Lo nascosi velocementi in una
tasca del mio jeans e, inventando mille diverse scuse, salutai la mia amica con
la promessa di tornare la sera stessa.
Passai tutto il pomeriggio a leggere i suoi racconti, inorgogliandomi
ogni rigo di più davanti a tanta poesia, si perché per definire quelle parole,
quelle frasi non esisteva un termine migliore, erano pura poesia, perfezione; le
sensazioni che suscitavano mi lambivano come una leggera brezza d’estate e non
facevo che desiderare di sentire ancora quell’aria avvolgermi ancora e
rinfrescarmi. Ma se da una parte
ero così felice, dall’altra il pensiero che Serena mi aveva taciuto tutto questo
faceva costantemente capolino tra i miei pensieri e le frasi scritte sul suo
diario mi ronzavano continuamente in testa.
Piansi perché sapevo cos’avrei dovuto fare quella sera, piansi perché
capii qual’era la cosa giusta da fare.
Alle 21 di quel giorno mi presentai a casa della mia amica e, dopo aver
gustato i piatti che aveva preparato per me, le dissi che avevo bisogno di stare
da sola con i miei pensieri per un po e forse… si forse alla fine sarei partita davvero nonostante tutto.
Fu un discorso lungo e doloroso e non riuscii a guardarla negli occhi neanche
per un secondo, sollevando lo sguardo solo alla fine. Cercai di sembrare fredda
e distaccata, come se della nostra amicizia non me ne importasse nulla perché
sapevo che era giusto così, che forse io con i miei problemi la opprimevo e non
le permettevo di avere una vita tutta sua, così presa dalla mia che le davo
l’idea di fregarmene di lei e delle sue passioni.
Da quella sera lessi ogni suo scritto e commentai sempre con lunghe
recensioni firmandomi “Lost&Broken”.
Riemersi dai miei ricordi quando mi accorsi di essere arrivata a
destinazione. Serena dormiva ancora sul sedile posteriore e decisi di non
svegliarla per il momento. 120
Round Street, little Chapel Nevada, non sembrava per niente un Hotel a cinque
stelle, anzi per la verità non assomigliava neanche ad un normale palazzo con le
sue finestre mezze rotte e la vernice scrostata. Perplessa aprii la portiera,
cminciando a vagare per quella che doveva essere una piccola cittadina, incamminandomi verso il bar. Lo trovai
chiuso. Percorsi tutta quella che mi sembrava la via principale ma non incontrai
anima viva, tranne un ubriacone che a stento riusciva a reggersi in piedi, e
qualche gattino randagio. Stavo per ritornare delusa alla macchina quando un
“Fuckkkkkkkk” mi spinse a voltarmi. Un ragazzo sui ventanni circa ( beh
effettivamente avrei dovuto dire “ un BEL ragazzo sui ventanni circa con un
sedere da favolaaaaaaaa) stava prendendo a calci la sua macchina che, per ironia
del destino, era anch’essa un minivan viola. Senza volerlo mi avvicinai attratta
da una forza misteriosa verso di lei fino a che non lo sfiorai. Si
girò.
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