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Autore: Kimmy_90    06/01/2013    0 recensioni
Rotolano sotto il cemento i rumori dei Branchi. Ringhiano, graffiano, mordono. Lottano.
Per Gioco.
Fra di loro si chiamano Demoni e Bestie. Sono ragazzi, sono uomini – a volte sono bambini, anche se è raro che un Branco ne accetti uno. Sopra il cemento non ne sa niente nessuno. O quasi.
Fintanto che rimane un gioco, il sangue che cola è semplice divertimento.
Ma ogni gioco viene scoperto, in un modo o nell'altro. E ogni gioco ha le sue regole.
La ragazza levò lo sguardo, continuando, passivamente, ad eseguire gli ordini.
Ma sì, in fondo gli ordini di Riva si eseguivano volentieri.
Credeva.
"Hai due possibilità, Sara. Se vuoi, puoi benissimo far finta che non sia successo niente. Cancella questa giornata dalla tua testa e vai avanti. Sul serio."
L’idea l’attraeva.
"Ma se pensi, anche solo lontanamente, che tu non sia in grado di ignorare completamente questa cosa, è un altro paio di maniche."

// Fantasy contemporaneo cambientato in Italia tra gli anni '70 ed oggi. //
Genere: Azione, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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9


9. Serratura




Mise giù.

L’utente da lui chiamato non era raggiungibile.

Per la sedicesima volta.



***


Nel corridoio regnava il silenzio.

Alle due meno un quarto, poche classi erano ancora intente a seguire l’ultima, estenuante, ora di lezione. L’angolo del terzo piano dedicato ai laboratori scientifici era muto, disabitato – se non per loro quattro.

Alessandro, poggiato al muro leggermente scalcinato, prendeva lente boccate d’aria, gli occhi chiusi, intento ad ascoltare l’eco dei suoi respiri. Le spalle salivano e scendevano contro la vernice biancastra, mentre sentiva la testa sul punto di aprirsi in due. Ogni tanto, a fatica, portava la mandritta al capo – tastandosi i capelli alla ricerca delle orecchie da lupo.

No, non erano ancora comparse.

Forse non sarebbero ricomparse più, cercò di convincersi.

Forse.

Amanda lo guardava preoccupata, il braccio praticamente teso verso l’alto al fine di potergli poggiare una mano sulla spalla. Aspettava che gli dicesse qualcosa, qualsiasi cosa.

Anche se aveva perfettamente intuito cosa potesse essere successo.


Siamo così vecchi?, si domandava la donna.


Dentro il laboratorio, alla meno peggio, il professor Rondi cercava di essere cordiale e paterno. La prima gli riusciva, la seconda meno: improvvisava delle leggere pacchette sulla schiena di Sara, ancora intenta a singhiozzare senza aver proferito parola sensata, corredate da dei "su, su" a dir poco scoordinati. Per quanto fosse l’impegno che l’uomo ci metteva nel tentare di tranquillizzare la ragazza, era più evidente che la cosa gli era difficile: impacciato, doveva ammettere di sentirsi a disagio.

Per non parlare del fatto che, vista la reazione di Ale, non aveva idea di quale fosse la strategia da applicare – cosa dire e non dire, cosa nascondere e cosa invece palesare.

Era ovvio che il vecchio capobranco intendeva, con la sua mossa di prima, risolvere il problema coercendo la memoria della ragazza: impacchettarne i ricordi, nasconderli in un angolo della sua mente, fare finta che niente fosse successo pregando che non succedesse mai più.

Il che era ciò che aveva fatto con il resto della sua classe e qualche altro testimone.

Ma con lei non ci era riuscito, questo era evidente. A coercere le memorie degli esseri umani ‘normali’ aveva speso molta energia, tanto da perdere il controllo sul suo corpo e scivolare in una parziale forma animale. Ora, che si era messo ad entrare nella mente di un demone – quale palesemente era la ragazza – sembrava la cosa gli fosse sfuggita di mano.

Meditabondo, si lasciava quasi cullare dai singhiozzi di Sara.

Inutile fare niente fintanto che quella non avesse riacquistato calma e lucidità.


Alessandro scuoteva la testa, iniziando a riaprire gli occhi: vedeva male, e le orecchie gli fischiavano. Lentamente, il tutto stava svanendo.

Ma riconosceva di essersela vista brutta.

La prima cosa che riuscì a mettere a fuoco fu lo sguardo preoccupato ed interrogativo di Amanda. Sospirò, staccandosi dal muro: si tolse gli occhiali, massaggiandosi le tempie pulsanti con le dita.

"Ma ti ha preso?" domandò la donna, incapace di trattenere oltre la domanda.

Quello non disse niente per qualche altro secondo, intento a radunare le idee e aspettando che il dolore diventasse più gestibile. Alla fine, con un minuscolo cenno d’assenso, si rimise gli occhiali – per poi incollare le iridi nere sugli occhi dell’altra.

"Non solo non mi ha lasciato entrare, ma mi ha proprio preso. Saranno venti – macché – trent’anni che non mi succede." ne parlava in un modo quasi allucinato.

Amanda non aveva mai fatto una cosa del genere – era al di fuori della sua portata in quanto ‘semplice’ bestia.

Ma i demoni potevano gestire i volui sì bene da portarli dentro la mente altrui – a patto che questa fosse ben disposta, o che loro riuscissero a non farsi scoprire.

Alessandro era sempre stato piuttosto bravo nel fare queste cose, anche se si era sempre trattenuto.

La mente è una delle cose più intime delle persone.

Spesso, dentro, c’erano cose che lui per primo non voleva né vedere, né sapere.

Ma se si doveva...

"Ho rischiato di perdermi." ammise infine.

Amanda sgranò gli occhi, sconvolta.

"Oh mio dio..."

"Sono vecchio." concluse, rassegnato.

Strinse le labbra, poggiandosi nuovamente al muro.

La donna continuò a scrutarlo, attenta.


Sara intravide, tra la coltre di lacrime, il professor Rondi rizzare la schiena: dalla porta comparvero altre due ombre, di cui una distinguibile solo per l’altezza.

Una mente sana si sarebbe fiondata a domandare cosa diavolo fosse successo, cosa diavolo ci facesse lei in quel posto, legata, ed una qualsiasi ragazza si sarebbe messa ad urlare con l’ultrasuono più acuto che potesse produrre. Avrebbe anche approfittato della porta aperta per tentare una rocambolesca e vana fuga.

La mente di Sara, al contrario, era chiusa. Una saracinesca. Dentro, la razionalità attendeva che la tempesta d’assurdità cessasse, per rivedere il sole.

Si limitò a fissare i tre, senza mai mettere bene a fuoco nessuno di loro.



***


"Dove va?"

"A cercare un cretino."


***



"Che cos’è l’ultima cosa che ti ricordi?"

Ma la ragazza non schiudeva le labbra. Non un movimento se non quello delle palpebre, sguardo perso, come sorda.

Li guardava e Basta.

"Sara..."

Ema a destra, Ale a sinstra, Amanda, con la sua oramai consolidata aria materna, in mezzo. La ragazza seduta sul tavolo, un manichino.

"Va tutto bene. Adesso stai bene?"

Silenzio.

"Solo il tuo ultimo ricordo, Sara. Non serve un tema. Ti giuro che non ti sto interrogando, che va tutto bene e che tu non centri nulla in tutto questo. Nessuna ripercussione di alcun tipo. Succede."

Era difficile non fidarsi di Riva, nonostante la situazione.

La Razionalità bussò alla porta.

"Credo di aver avuto un attacco epilettico." Concluse, atona, la ragazza.

I due professori si guardarono.

"Dici?" chiese invece Amanda, emulando una vaga sorpresa.

"Dico." mormorò quella. Aspettò un po’, poi continuò, sempre più sottovoce: "Credo."

Ema e Amanda lanciarono un’occhiata ad Ale.

Sì, lo aveva capito che stava a lui decidere. Non c’era verso di smarcarsi da questa cosa.

Va bene.

"Credi?" chiese alla ragazza.

Silenzio. Sguardo vacuo.

"Mh."

"Sara, mi elenchi, per cortesia, i sintomi di un attacco epilettico?"

Voce professorale, riflesso da interrogazione. La ragazza attese, radunando quel poco di idee che le rimanevano, e mormorando come il bambino che ammette di aver rubato la marmellata iniziò ad elencare: "ronzio... convulsioni... svenimento... lingua in gola e quindi rischio di soffocamento... credo."

"Credi?"

"... qualcosa del genere. Mi pare."

"E quindi?"

Sara lo guardò con la disperazione del 3/4.

"Per questo ti abbiamo chiesto qual era l’ultima cosa che ti ricordi. Se è epilessia, è un disastro. Ma non ci sembravano sintomi di epilessia - quindi, ci aiuti a ricostruire?"

"Non mi avete legata per le convulsioni? Io avevo delle convulsioni."

Bene, sembrava stare iniziando a far funzionare il cervello. In qualche modo si era sbloccata.

"Non era per le convulsioni. Avevi qualche spasmo al risveglio, ma poco di più."

"E quindi...?"

"Dimmelo tu, Sara."

Silenzio.

Ma questa volta la ragazza aveva abbassato lo sguardo, e pareva in un qualche modo concentrata.



***


L’utente da lui chiamato ora era raggiungibile.

Ma rifiutò la chiamata dopo neanche due squilli.



***


"Male dappertutto. E vedevo rosso. Credo."

"Avanti, meno credere e più dire, Sara."

"Non lo so, prof. Sul serio. Poi mi sono ritrovata legata sul tavolo del laboratorio, e fine."

"Fine?"

Sara socchiuse gli occhi, increspando le labbra. Amanda osservava - cercando di non esserene divertita - quell’interrogazione improvvisata, fatta con l’intento di spremere il ‘povero alunno’ come un limone pur di non dovergli tirare un due sui denti. Che, come lei ben sapeva, faceva parecchio male.

Specie in latino.

La ragazza doveva anzi tutto ammettere che quello che aveva provato era realtà, e non allucinazione. Poi, fatto questo, avrebbe dovuto credere alla loro versione.

Bene.

Divertente.

Lungo e Divertente.

Ma anche no.

"Avevo la bocca impastata di sangue. E anche gli occhi, credo."

"Il volto brucia, e ti trovi scottature dove non dovrebbero essercene."

Sara levò il capo verso Riva, senza riuscire, sul momento, a seguire il filo del discorso. Lo guardò interrogativa ed inquietata, la testa insaccata tra le spalle.

"Esce sangue da qualsiasi lembo di pelle un po’ più fragile: bocca, occhi, naso, orecchie." continuò l’uomo. "Se si va avanti, anche dalle dita. E fa male tutto, ogni singola fibra di ogni singolo muscolo."

Quella aggrottò minimamente le sopracciglia.

"E’ vero o non è vero?" le chiese, retorico.

Sara si sorprese ad annuire lentamente.

"Quel sangue esce perché il corpo lo rifiuta. C’è qualcosa dentro il tuo organismo che cambia, di colpo, e all’inizio l’organismo stesso lo rigetta, vedendolo come nocivo. Questo è successo, Sara."

La ragazza tornò a sprofondare nel mutismo, gli occhi vacui.



***


Dopo mezz’ora ammise che continuare a girare in macchina per zone completamente casuali di Roma non lo avrebbe portato a nessun risultato concreto. A ben pensarci, aveva preso le chiavi e la giacca sì per salire in auto, ma forse non con la chiara e diretta intenzione di cercare Xander.

Dove lo vai a trovare un adolescente semi disadattato a Roma?

Perdi più tempo a cercare in ogni posto papabile, che ad attendere che sia lui a tornare da te.

No, piuttosto era uscito per stendere i nervi e sgasare a caso sul strade dove sarebbe stato meglio non superare i 40 all’ora.

Cercò un posto dove accostare - una terza fila sarebbe stata più che sufficiente, in fondo -, sperando che questa volta Xander gli avrebbe risposto. Come minimo, ad un messaggio.

Insomma, qualcosa doveva provare.


***



Sembrava che stesse per tornare a piangere, di un pianto composto e silenzioso: di quelle lacrime che sul momento non capisci, ma che spingono e sgomitano per uscire e inondare gli occhi. Quasi lo facessero apposta, consce di essere immotivate, inopportune e ingestibili.

C’era un letto, nella mente di Sara. Un letto comodo e accogliente, su cui buttarsi e rimanere immobile per il resto dei tempi, in letargo.

Non c’era altro. Solo il letto.

Voleva quel dannatissimo letto. Non chiedeva nulla di particolare, no?

Solo un letto.

Per favore.

"Ascolta."

Ma perché è così dannatamente difficile non fidarsi di Riva?

Perché non puoi concederti il lusso di pensare che questa situazione sia strana, che magari ci sia sotto qualcosa, che sì, spaziamo sulle possibilità, magari ti hanno rapita e ti tengono lì perché ... perché... per qualche altrettanto assurdo motivo, insomma.

No, lasciamo perdere.

Il professor Riva aveva posato le mani sulle sue ginocchia, avvicinandosi leggermente a lei.

La ragazza levò lo sguardo, continuando, passivamente, ad eseguire gli ordini.

Ma sì, in fondo gli ordini di Riva si eseguivano volentieri.

Credeva.

"Hai due possibilità, Sara. Se vuoi, puoi benissimo far finta che non sia successo niente. Cancella questa giornata dalla tua testa e vai avanti. Sul serio."

L’idea l’attraeva.

"Ma se pensi, anche solo lontanamente, che tu non sia in grado di ignorare completamente questa cosa, è un altro paio di maniche."

Quella sembrò cercare di capire a fondo il significato della frase, sapendo, purtroppo, di averlo avuto ben chiaro sin dall’inizio.

"Se così fosse, domani pomeriggio da me. L’indirizzo lo trovi sulle pagine bianche. Non prima delle quattro."

Forse annuì.

"Ma se domani non ti vedo, non parlerò mai più, a te o ad altri, di questa faccenda. Chiaro?"

Il professor Rondi e la donna accanto a lui - di cui non aveva ancora capito identità e provenienza - annuirono.










____________________________________________________________________



NDA.


Motivo dell’atroce ritardo su questo capitolo (e su questo pezzo, in generale) è la mia totale incapacità di renderlo decente.

Missione fallita, ma chissenefrega. Ci rinuncio.

Andiamo avanti, va’.







   
 
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