CAPITOLO
III
Date,
ricordi, sotterfugi
1
Quella
sera il dottor
Ludvig Maxis tornò a casa particolarmente avvilito: dato che
gli esperimenti di
quel giorno furono un notevole fallimento, sentì crollare
addosso a sé tutto il
"suo" mondo, il Generale gli aveva negato ogni aiuto, la scorta di
Elemento 115 scarseggiavano e il tempo a sua volta si esauriva.
Mentre percorreva a
testa bassa la strada dal cancello in ferro battuto del Gigante alla
sua
abitazione, rimuginò a fondo su tutto ciò che gli
era successo durante l'orario
lavorativo:
"Ammonito da un
superiore, ammonito dalla mia consorte, due esperimenti falliti,
impossibilità
di procedere... ma cosa devo fare? - si guardò intorno: la
fiumana di operai
che andava verso la città, i soldati verso l'accampamento
adiacente il confine
cittadino, il profilo delle case con i loro tetti spioventi e il cielo
rosso
del tramonto leggermente oscurato da nuvole cariche di piogge in arrivo
- che
quello che mi è stato ordinato come capo del Gruppo 935 sia
troppo?".
Mentre proseguiva il suo
cammino lungo la strada lastricata, controllata ai margini dai sempre
vigli
soldati delle SS, una voce femminile chiamò il suo nome:
«Ludvig!».
Lui si girò subito
trovandosi davanti a Sophia, che appariva piuttosto provata:
«Sophia! Ma che
diavolo...».
«Ho bisogno di
parlarti Ludvig» disse con voce piatta.
Lui tese le braccia
in direzione della città: «Intanto
proseguiamo?».
Lei sospirò e si
incamminò seguita dal dottore, che dopo qualche passo le si
affiancò:
«Sentiamo... cos'è mai accaduto?».
«Si tratta di
Edward...».
Lui sgranò gli occhi
con sorpresa: «Come? Edward? Che mai ha fatto?».
Lei gli si parò
davanti e lo fissò dritto negli occhi, era veramente
scioccata:«Ha preso Porter
per il bavero, lo voleva strangolare per un'inezia».
Maxis si guardò intorno
per prendere tempo ed elaborare una risposta, si accorse che le nuvole
stavano
espandendosi, minacciando davvero pioggia: «Edward
è sempre stato un tipo un
po'... sadico, sai cos'ha fatto quando era al Wittenau di Berlino, e il
soprannome che si è guadagnato».
Lei annuì: «Il
Dottore...».
Maxis ammiccò: «Vedi,
Edward non è peggio di tanti nostri colleghi... pensa a quei
medici di stanza
nei campi di concentramento più grandi».
«Io sto cercando di
capire perché questo suo cambiamento».
«Scusami, non riesco
a capire cosa intendi esattamente...».
Sophia continuò a
fissare il suo amante con quegli occhi azzurri chiari e penetranti come
il
ghiaccio, poteva quasi vederne l'anima: «Con noi non si
è mai, mai comportato
in quel modo!».
Maxis rifletté un
istante, intanto la fiumana di operai e lavoratori si era esaurita ed
era
scomparsa tra le case e le vie della vicina Breslavia, perfino i
soldati
stavano per andarsene parlando fra di loro del maltempo e
dell'eventuale
prostituta che avrebbe fatto il giro della camerata.
Infastidito da quel
vociare impiegò qualche secondo per riflettere, e intanto
Sophia lo guardava
con sguardo accusatorio, a braccia conserte e occhi sbarrati; poi si
ricordò
che aveva ammonito Edward per fare bella figura con i Gerarchi quando
avrebbero
ascoltato le comunicazioni registrate durante gli esperimenti: comprese
che
forse Edward si era infastidito da quel comportamento, dato che erano
amici e
colleghi da anni pur avendo ambiti di ricerca diversi.
Maxis corrugò la
fronte pensando ad una soluzione.
«Allora?» lo intimò
Sophia.
«Va bene... parlerò
con Edward e chiederò scusa, speriamo che non se la sia
presa troppo».
«Bene Ludvig - disse
abbracciandolo e baciandolo - sono fiera di te».
Lui ricambiò gli
abbracci e i baci, sussurrandole nell'orecchio: «E ti
prometto che lo sarai
ancora di più».
Con il mento
appoggiato sulla spalla del dottore, lei deglutì:
«Hai intenzione di parlare
con Samantha?».
«Non solo - disse
sorridendo - porterò a termine i nostri progetti, dovessi
stare qui al Gigante
altri dieci anni e oltre!».
«Dottor Maxis! -
disse lei scostandosi e sciogliendo l'abbraccio - sa che la
sottoscritta vi ama
perché siete un uomo colto ed intelligente, quando
volete?».
«Mia
cara... l'unico motivo per cui
siamo qui è questo lavoro... Se riusciremo a portarlo a
termine nei tempi
previsti saremo una vera famiglia, tu, io e la piccola
Samantha».
Toccata da quelle parole, Sophia
rimase in silenzio, soltanto Maxis era riuscito a farla rimanere senza
parole,
poiché sia con i sottoposti che con i parigrado aveva, o
doveva avere per
inclinazione caratteriale, sempre l'ultima parola.
«Questo è ciò che mi spinge... certo,
essere d'aiuto al proprio Stato sfruttando la propria Arte o Scienza
è una cosa
non poco gratificante, ma io voglio qualcosa di più: un
futuro certo, sicuro -
spiegò Maxis a cuore aperto - e qualunque sacrificio
sarà ben accetto per
raggiungere questo obbiettivo, non scordarlo mai...».
Maxis si guardò intorno, erano rimasti
gli unici ad occupare la strada, in più le prime gocce
cominciavano a cadere
dal cielo: il sole e il suo rosso del tramonto avevano ceduto il posto
alla
nuvole scure, la calma e la pace erano ora sostituite dai fulmini e dai
lampi;
Maxis si perse a contemplare quell'incredibile forza che si esprimeva,
e tutta
quell'energia che andava irrimediabilmente persa.
Contrariamente da lui Sophia cominciò
a correre verso la città, per evitare la pioggia, ma fu
tutto inutile; una
pioggia scrosciante cominciò a cadere, il dottore
già fradicio raggiunse così
la sua compagna, pensando che forse avrebbe dovuto sposarla una volta
terminato
il suo lavoro al Gigante.
Ebbro d'amore per quella donna,
sorrise vedendola bagnarsi sotto la pioggia e gridare per le gocce
fredde che
picchiettavano sull'impermeabile in pelle nuovo di zecca; decise
così di
corrergli dietro per raggiungerla.
Sembravano così allegri e sereni,
incuranti dei problemi che avrebbero dovuto affrontare nel prossimo
futuro;
arrivarono i città sempre in corsa cercando invano di non
bagnarsi,
attraversarono un paio di vie, incrociarono alcuni picchetti di
soldati, che
riconobbero i due scienziati lasciandoli tranquillamente passare, fino
alla
soglia di una casa con i mattoni a vista, che apparentemente on aveva
niente di
speciale o significativo.
Una casa con la porta in legno, le
finestre anch'essere in legno e i vetri coperti dalle tende di seta
bianca
dall'interno; non aveva nulla di speciale, per questo Maxis la scelse
come
dimora provvisoria per il suo soggiorno a Breslavia, rifiutando gli
alloggiamenti previsti per gli altri scienziati.
Maxis, accortosi di essere davanti a
casa sua, affiancato da Sophia, salutò la sua "collega" con
un lungo
bacio; quella volta non si dissero nulla prima di lasciarsi davanti la
villa,
soltanto quel bacio appassionato e uno sguardo.
"Uno sguardo vale più di mille
parole, dicono".
E lo sguardo che la dottoressa lanciò
al dottore fu chiarissimo, Maxis non dovette nemmeno chiedere
spiegazione,
sapeva cosa fare.
Così mentre Sophia procedette verso la
sua abitazione, sguardo in avanti, Maxis si girò a
contemplare la facciata
della sua casa, vide poi sbucare dalle tende il viso di un angelo che
sorrideva
guardandolo dalla finestra; lui sorrise a sua volta e il volto angelico
sparì
dalla finestra in un grido di pioggia.
"La mia piccolina - disse
avvicinandosi alla porta - tutto questo lo faccio per lei".
Il dottore afferrò la maniglia ed aprì
la porta, fece qualche passo in avanti, fermandosi su uno zerbino, fu
travolto
da una gioiosa voce femminile, e una bambina lo abbracciò;
lui la prese in
braccio: a quanto pare perfino un ruvido e analitico scienziato come
Maxis
aveva un cuore.
ricambiò
con affetto l'abbraccio e baciò sua
figlia, stringendola sé; il Gigante poteva aspettare fino
alla mattina dopo, e
anche Gobbels, e tutte le altre cose che accadevano là
dentro.
Il contatto tra i suoi abiti bagnati e
il grembiule pulito e leggero della sua bambina lo fece rabbrividire...
Che
avrebbe fatto se avesse perso anche Samantha?
Tuttavia è vero che hai bambini non si
può nascondere nulla; lei vide sul volto del padre
un'espressione cupa, quindi,
con tutta l'innocenza della sua tenera età lei disse, con
una vocina
leggermente stridula:
«Cos'hai, papà?».
Lui sciolse l'abbraccio, riponendola
delicatamente a terra e si ricompose: «Niente, bambina...
Sono solo un pò
stanco... Perdonami».
Lei sorrise, lui invece si sentì in
colpa per quella bugia; per farsi perdonare la prese per mano,
conducendola
dentro casa, mentre con l'altra mano chiuse la porta dietro di
sé.
Anche se Maxis non ne aveva la più
pallida idea, altre forze erano in gioco in quello stesso momento,
forze
dettate dalla pazzia di un uomo dalla psiche debole, catalizzata
dall'odio e
dalla rabbia repressa in tanti anni di maltrattamenti dati e subiti, di
segreti, bugie e sete di potere, che andava conquistato.
Oltre a tutto ciò c'era anche una
buona quantità di scheletri ben riposti nell'armadio; le
leggende attorno alla
figura di quest'uomo vogliono quegli scheletri con ancora la carne
attaccata
alle ossa.
2
Arrivata
la sera, mentre alla fabbrica e al campo
iniziava il turno di notte con il cambio della guardia, il Gigante
chiuse, e
coloro che ci lavoravano tornarono alle loro case; coloro che facevano
parte
dell'esercito erano di stanza nella caserma della città,
coloro che erano
invece di piantone per sorvegliare sia il Gigante che il lager potevano
usufruire di una caserma interna al campo di concentramento medesimo.
Data l'importanza delle due strutture, un
laboratorio segreto e un campo di prigionia, la sorveglianza era
strettissima:
i soldati si davano il cambio ogni tre ore ed erano tenuti a fare il
controllo
perimetrale ogni quarto d'ora, per controllare che le spie entrassero o
i
prigioniero filassero.
Dunque arrivata l'ora i sei soldati di pattuglia si
divisero: due rimasero all'entrata, gli altri andarono a fare il giro
di
controllo in direzioni opposte, seguendo il pesante muro in mattoni a
vista;
una figura si avvicinò al cancello principale passando a
piedi per la strada
che collega Breslavia al complesso, notandola i due soldati subito si
allertarono: «Achtung - gridò uno dei due puntando
la figura, sempre più
vicina, con il Kar-98 - questa è una zona militare
riservata, indietreggiate o
faremo fuoco»
Senza batter ciglio la figura continuò con decisione
la sua marcia, alche anche l'altro soldato, più alto e
snello del suo
commilitone, puntò con il fucile il forestiero in arrivo:
«Questo non molla -
disse quello alto appoggiando il fucile alla spalla e seguendo con il
mirino la
figura - siamo costretti a sparare..».
La figura si avvicinò ancora di qualche passo ed
alzò il braccio destro: «Heil Hitler!».
I due soldati si guardarono poco convinti: «Meglio
controllare - disse quello basso - non si sa mai...».
L'altro sbuffò: «Vado io, tienilo sottotiro, mi
raccomando».
Il soldato più alto si avvicinò alla figura, che
apparve anch'essa piuttosto alta: «Chiedo scusa dottore -
disse lui sottomesso
vedendo il volto dell'uomo - non pensavamo che anche di
notte...».
«Limitatevi a sorvegliare il Gigante voialtri, che
ai miei affari ci penso già abbastanza io».
«Ho ordine di controllare i documenti, caso mai
foste una spia o simili, dovremmo anche sapere il motivo della vostra
presenza
fuori orario».
La figura sbuffò annoiata: «Devo finire stilare i
rapporti da presentare a Gobbels domani mattina, se me lo concedete...
altrimenti spiegherete voi al Generale perché non
è stato aggiornato sullo
stato del nostro lavoro, che è palesemente non di vostra
competenza».
L'uomo rimasto nei pressi del cancello abbassò
l'arma ad un cenno del commilitone, che rabbrividì; come
tanti suoi degni
colleghi, Gobbels era in un certo senso il prototipo dell'ufficiale
nazista:
freddo, esigenze ed estremamente pignolo, veterano di una guerra che
aveva
annientato completamente l'anima della Germania... finché un
Demone non la
estirpò sfruttandola per il suo folle ed utopistico piano di
dominio assoluto.
In virtù poi della fama che Gobbels vantava, ovvero
l'essere intransigente con i trasgressori, i soldati preferivano
stargli alla
larga il più possibile, evitando comportamenti per cui
averlo davanti al naso
in un colloquio faccia a faccia.
«E va bene - acconsentì il soldato con la faccia
paffuta e crudele di Gobbels stampata nella mente - ma vi prego... fate
presto».
«Il tempo che ci vuole soldato, il tempo che ci
vuole...».
I soldati
aprirono il cancello, formato da due ali
chiuse
da due spesse catene; con un frastuono metallico i due soldati
rimossero
faticosamente le catene e tirarono uno dei due lati verso l'esterno, in
modo
che fosse possibile entrare.
«Grazie, signori» ed
entrò nella struttura mentre i soldati richiusero e
bloccarono tutto nella
speranza che nessuno notasse quello strappo alla regola.
Il cancello era
posizionato sotto un arco di mattoni, alla cui sommità era
fissata una targa
bronzea: "Waffenfabrik - Der Riese".
La figura percorse
alcuni metri nel cortile fino a trovarsi nell'area del mainframe, si
fermò a
contemplarlo, poi spostò lo sguardo verso una porta in
acciaio su cui era
inciso il simbolo del Gruppo 935: la rappresentazione di un apparecchio
elettrico con della
valvole da cui
scaturivano dei fasci elettrici circolari, sullo sfondo un ingranaggio
sembrava
racchiudere quel macchinario.
Era chiaro però che
dietro quella porta c'era qualcosa di importante: tutte le porte che
collegavano
i vari ambienti del Gigante erano pitturate con quel simbolo, ma quella
porta
recava un segno, simile ad una sbavatura della vernice bianca del
disegno per
non destare sospetti; il misterioso dottore doveva esserne a
conoscenza, perché
aveva osservato tutte le porte per cercare quella cui stava davanti,
sorrise
soddisfatto mentre afferrava la maniglia e tirava orizzontalmente per
accedere
a ciò che voleva: una stanzino scuro e minuscolo, una sedia
di legno, un tavolo
di legno, una radio appoggiata su di esso e un lampada ad olio.
Il dottore si tolse
il cappello marrone recante uno dei tanti simboli adottati del Terzo
Reich
(l'Acquila ad ali spiegate), ed il volto di Richtofen si
rivelò; il dottore
però arricciò subito il naso: la polvere,
l'umidità e la pioggia appena cessata
dovevano aver dato il loro contributo per riempire lo stanzino di uno
strano
odore stantio.
"Dovrò trovarmi
un nuovo ufficio".
Chiudendo la porta
che separava lo stanzino dal resto del Gigante, pensò "Se
lassù va come
previsto avrò un nuovo lavoro".
"Certo! Certoooh"
rantolò una voce.
«Chi è là? T'avverto,
non fare scherzi!» disse mentre istintivamente si
ritrovò con la Luger
d'ordinanza, di solito ben riposta nella fondina,
stretta nella mano destra.
«Chi vuoi che sia?
Sono... Te!» rispose la voce.
«La voce! Ancora Tu!
Cosa vuoi ancora?» disse Richtofen avvicinandosi a tentoni al
tavolo.
«Cosa voglio? Quello
che vuoi tu, naturalmente».
«Balle! - Sbottò il
dottore - Tu vuoi solo portarmi lassù!» disse
fregandosi le mani e accendendo la
lampada quasi bruciandosi con il fiammifero
a causa di un improvviso tremolio nevrotico.
«Calunnie, Amico Mio!
- disse la Voce con leggerezza - Voglio solo ciò che
è meglio per entrambi, e
poi sei stato Tu ad Osare di toccarCi!»
Richtofen, vedendo che
ora lo stanzino era abbastanza illuminato, seppur in modo tenue, decise
di
chiudere la porta per evitare problemi, infine si sedette ed accese la
radio,
che cominciò a gracchiare con il sottofondo di un fastidioso
e acuto sibilo.
«Se vuoi ritornare
lassù sarà meglio ne valga la pena!»
disse afferrando il microfono impolverato
e, disse la Voce, con una smorfia di fastidio dipinta sul volto,
girando le
manopole nel tentativo di eliminare il maledetto sottofondo.
«Non immagini neppure
cosa saremo in grado di fare per mezzo di te, mio Caro Amico».
«Basta,
sei solo la
mia fervida immaginazione» disse mentre girava le manopole,
alla ricerca della
giusta frequenza; peccato la radio non funzionasse.
«Siamo, la tua
fervida immaginazione... Ne sei convinto? Da quando hai toccato la
Piramide una
parte di Noi ora è in Te... Il trasferimento ora deve essere
totale!».
«Basta, ho detto!»
gridò assestando un pugno verticalmente sul telaio della
radio, che si liberò
di chissà quanto tempo di polvere adagiata su di esso;
incredibilmente anche la
voce sparì.
Scrollando la mano
per far cessare un leggero dolore alla mano, Richtofen si chiese se
anche
quella sera sarebbe riuscito a farla franca, non si era ancora abituato
a
quella voce che ogni tanto saltava fuori dai recessi della sua mente;
essa
aveva gridato più volte nel corso dell'ultimo periodo,
invitandolo ad uccidere,
ordinando senza esitazione di far soffrire chi lo sfidava, ma era
sempre
riuscito a soffocarla... Fino a quando Porter non mise in dubbio le sue
conoscenze dell'Ununpentio.
"Dannato 115 -
pensò confortato dall'assenza della Voce - sarai la mia
fortuna o la mia
rovina? Bah, non m'importa!".
Pochi secondi di
attesa, che parvero secoli, e Richtofen capì che la fortuna
girava, almeno in
quel momento, a suo favore; dall'altra parte del collegamento radio,
dovunque
fosse, una voce profonda e tranquilla rispose:
«Qui Stazione Grifone
- disse con la tipica cadenza della parlata tedesca - passo».
Richtofen avvicinò il
volto al microfono: «Qui Nido dell'Aquila a Stazione Grifone,
ci sono
aggiornamenti, Dottor Groph?».
«Temo di no
dottore... Abbiamo cercato di capire il funzionamento della macchina,
ma
fin'ora... Niente! Non riusciamo a capire... Non solo è
sigillata, ma reagisce
con scariche elettriche al contatto diretto con la cute, dobbiamo
controllare
più a fondo... Lei invece? Sente ancora quella
Voce?».
«Purtroppo sì dottor
Groph, oggi durante un esperimento si sono scatenate... Ho paura che
non se ne
andrà fin quando non avrete finito
lassù».
«Appena sapremo
qualcosa riferiremo immediatamente dottore... Ora mi scusi se mi
permetto ma di
quale esperimento si trattava?».
Richtofen fece
spallucce: «Un semplice tentativo di teletrasporto, Maxis si
aspettava un morto
vivente addomesticato, invece si è trovato in mezzo al
magazzino di un
macellaio!».
Rabbrividì pensando
all'immagine delle interiora di quel prigioniero sparse ovunque, e di
quanto a
quella vista, in quel momento, godette.
«Capisco - disse
Groph - Forse la chiave non è l'elettricità... Ma
l'Elemento stesso... Avete
provato con l'irradiamento diretto?».
«Purtroppo no -
rispose Richtofen con dispiacere - Non abbiamo abbastanza
Elemento...».
«Non si ricorda di«
quel frammento nel Pacifico? - chiese Groph - Se non sbaglio da quelle
parti
c'è un avamposto...»
A quelle parole un
lampo gli attraversò il cervello, e si ricordò di
un dettaglio che era rimasto
in letargo nella memoria fino ad allora.
«Dottore, la prego di
perdonarmi, ma mi sono reso conto di qualcosa di importante che non
avevamo
ancora considerato... Tornate al lavoro e buona fortuna, Nido
dell'Aquila,
chiudo».
«D'accordo Nido
dell'Aquila, proseguiremo con gli esperimenti... Mi rifarò
vivo io nel caso di
aggiornamenti... Stazione Grifone - annunciò sospirando -
passo e chiudo».
Quindi la radio si
spense con uno scatto sordo, e calò il silenzio; Richtofen
si lasciò andare
sulla sedia, che scricchiolò minacciosa, ed
abbandonò il suo sguardo alla
fiammella della lampada, che ondeggiava nel vetro in modo ipnotico.
«Bene, bene - disse
la Voce - Adesso sì che si ragiona... Quando hai intenzione
di mettere in atto
il nostro schema? Eh?! Eh?!».
«Non ti riguarda -
l'ammonì - Prima dobbiamo verificare un dettaglio, poi si
vedrà».
«Ooooh - disse la
Voce con stupore, come se avesse visto un oggetto prezioso - Non mi
avevi ancora
mostrato questo nei tuoi pensieri...».
Richtofen, forse
inconsciamente, sorrise in modo beffardo, nella penombra.
3
Nel
momento in cui
Maxis abbracciava sua figlia e Richtofen guardava la fiamma ardere
nella
lampada ad olio, un brivido corse sulla schiena di entrambi, portandoli
sulla
macchina del tempo più efficiente che l'uomo avesse mai
costruito: i ricordi...
Essi li trasportarono
indietro nel tempo... A quando tutto, nel bene e nel male, ebbe inizio.