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Autore: Hannibal Smith    07/01/2013    2 recensioni
Il più grande segreto della scienza moderna può diventare un grave pericolo per tutta l'umanità; mentre la seconda guerra mondiale infuria con tutta la sua devastante ferocia avvicinandosi sempre più al suo tragico epilogo, un gruppo di coraggiosi uomini tenterà di sventare un sadico piano di sterminio e distruzione ben peggiore di qualunque Soluzione Finale
Liberamente ispirato alla modalità "Zombie Nazisti" di "Call of Duty: Wolrd at War"
Avvertenza: il racconto postato di seguito non rispecchia la trama originale di Treyarch, ma rappresenta soltanto un sunto delle informazioni raccolte durante le sessioni di gioco
Genere: Guerra, Horror, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: Otherverse | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ciclo Zombie Nazisti'
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CAPITOLO III

Date, ricordi, sotterfugi

 

1

Quella sera il dottor Ludvig Maxis tornò a casa particolarmente avvilito: dato che gli esperimenti di quel giorno furono un notevole fallimento, sentì crollare addosso a sé tutto il "suo" mondo, il Generale gli aveva negato ogni aiuto, la scorta di Elemento 115 scarseggiavano e il tempo a sua volta si esauriva.
Mentre percorreva a testa bassa la strada dal cancello in ferro battuto del Gigante alla sua abitazione, rimuginò a fondo su tutto ciò che gli era successo durante l'orario lavorativo:
"Ammonito da un superiore, ammonito dalla mia consorte, due esperimenti falliti, impossibilità di procedere... ma cosa devo fare? - si guardò intorno: la fiumana di operai che andava verso la città, i soldati verso l'accampamento adiacente il confine cittadino, il profilo delle case con i loro tetti spioventi e il cielo rosso del tramonto leggermente oscurato da nuvole cariche di piogge in arrivo - che quello che mi è stato ordinato come capo del Gruppo 935 sia troppo?".
Mentre proseguiva il suo cammino lungo la strada lastricata, controllata ai margini dai sempre vigli soldati delle SS, una voce femminile chiamò il suo nome:
«Ludvig!».
Lui si girò subito trovandosi davanti a Sophia, che appariva piuttosto provata: «Sophia! Ma che diavolo...».
«Ho bisogno di parlarti Ludvig» disse con voce piatta.
Lui tese le braccia in direzione della città: «Intanto proseguiamo?».
Lei sospirò e si incamminò seguita dal dottore, che dopo qualche passo le si affiancò: «Sentiamo... cos'è mai accaduto?».
«Si tratta di Edward...».
Lui sgranò gli occhi con sorpresa: «Come? Edward? Che mai ha fatto?».
Lei gli si parò davanti e lo fissò dritto negli occhi, era veramente scioccata:«Ha preso Porter per il bavero, lo voleva strangolare per un'inezia».
Maxis si guardò intorno per prendere tempo ed elaborare una risposta, si accorse che le nuvole stavano espandendosi, minacciando davvero pioggia: «Edward è sempre stato un tipo un po'... sadico, sai cos'ha fatto quando era al Wittenau di Berlino, e il soprannome che si è guadagnato».
Lei annuì: «Il Dottore...».
Maxis ammiccò: «Vedi, Edward non è peggio di tanti nostri colleghi... pensa a quei medici di stanza nei campi di concentramento più grandi».
«Io sto cercando di capire perché questo suo cambiamento».
«Scusami, non riesco a capire cosa intendi esattamente...».
Sophia continuò a fissare il suo amante con quegli occhi azzurri chiari e penetranti come il ghiaccio, poteva quasi vederne l'anima: «Con noi non si è mai, mai comportato in quel modo!».
Maxis rifletté un istante, intanto la fiumana di operai e lavoratori si era esaurita ed era scomparsa tra le case e le vie della vicina Breslavia, perfino i soldati stavano per andarsene parlando fra di loro del maltempo e dell'eventuale prostituta che avrebbe fatto il giro della camerata.
Infastidito da quel vociare impiegò qualche secondo per riflettere, e intanto Sophia lo guardava con sguardo accusatorio, a braccia conserte e occhi sbarrati; poi si ricordò che aveva ammonito Edward per fare bella figura con i Gerarchi quando avrebbero ascoltato le comunicazioni registrate durante gli esperimenti: comprese che forse Edward si era infastidito da quel comportamento, dato che erano amici e colleghi da anni pur avendo ambiti di ricerca diversi.
Maxis corrugò la fronte pensando ad una soluzione.
«Allora?» lo intimò Sophia.
«Va bene... parlerò con Edward e chiederò scusa, speriamo che non se la sia presa troppo».
«Bene Ludvig - disse abbracciandolo e baciandolo - sono fiera di te».
Lui ricambiò gli abbracci e i baci, sussurrandole nell'orecchio: «E ti prometto che lo sarai ancora di più».
Con il mento appoggiato sulla spalla del dottore, lei deglutì: «Hai intenzione di parlare con Samantha?».
«Non solo - disse sorridendo - porterò a termine i nostri progetti, dovessi stare qui al Gigante altri dieci anni e oltre!».
«Dottor Maxis! - disse lei scostandosi e sciogliendo l'abbraccio - sa che la sottoscritta vi ama perché siete un uomo colto ed intelligente, quando volete?».

«Mia cara... l'unico motivo per cui siamo qui è questo lavoro... Se riusciremo a portarlo a termine nei tempi previsti saremo una vera famiglia, tu, io e la piccola Samantha».
Toccata da quelle parole, Sophia rimase in silenzio, soltanto Maxis era riuscito a farla rimanere senza parole, poiché sia con i sottoposti che con i parigrado aveva, o doveva avere per inclinazione caratteriale, sempre l'ultima parola.
«Questo è ciò che mi spinge... certo, essere d'aiuto al proprio Stato sfruttando la propria Arte o Scienza è una cosa non poco gratificante, ma io voglio qualcosa di più: un futuro certo, sicuro - spiegò Maxis a cuore aperto - e qualunque sacrificio sarà ben accetto per raggiungere questo obbiettivo, non scordarlo mai...».
Maxis si guardò intorno, erano rimasti gli unici ad occupare la strada, in più le prime gocce cominciavano a cadere dal cielo: il sole e il suo rosso del tramonto avevano ceduto il posto alla nuvole scure, la calma e la pace erano ora sostituite dai fulmini e dai lampi; Maxis si perse a contemplare quell'incredibile forza che si esprimeva, e tutta quell'energia che andava irrimediabilmente persa.
Contrariamente da lui Sophia cominciò a correre verso la città, per evitare la pioggia, ma fu tutto inutile; una pioggia scrosciante cominciò a cadere, il dottore già fradicio raggiunse così la sua compagna, pensando che forse avrebbe dovuto sposarla una volta terminato il suo lavoro al Gigante.
Ebbro d'amore per quella donna, sorrise vedendola bagnarsi sotto la pioggia e gridare per le gocce fredde che picchiettavano sull'impermeabile in pelle nuovo di zecca; decise così di corrergli dietro per raggiungerla.
Sembravano così allegri e sereni, incuranti dei problemi che avrebbero dovuto affrontare nel prossimo futuro; arrivarono i città sempre in corsa cercando invano di non bagnarsi, attraversarono un paio di vie, incrociarono alcuni picchetti di soldati, che riconobbero i due scienziati lasciandoli tranquillamente passare, fino alla soglia di una casa con i mattoni a vista, che apparentemente on aveva niente di speciale o significativo.
Una casa con la porta in legno, le finestre anch'essere in legno e i vetri coperti dalle tende di seta bianca dall'interno; non aveva nulla di speciale, per questo Maxis la scelse come dimora provvisoria per il suo soggiorno a Breslavia, rifiutando gli alloggiamenti previsti per gli altri scienziati.
Maxis, accortosi di essere davanti a casa sua, affiancato da Sophia, salutò la sua "collega" con un lungo bacio; quella volta non si dissero nulla prima di lasciarsi davanti la villa, soltanto quel bacio appassionato e uno sguardo.
"Uno sguardo vale più di mille parole, dicono".
E lo sguardo che la dottoressa lanciò al dottore fu chiarissimo, Maxis non dovette nemmeno chiedere spiegazione, sapeva cosa fare.
Così mentre Sophia procedette verso la sua abitazione, sguardo in avanti, Maxis si girò a contemplare la facciata della sua casa, vide poi sbucare dalle tende il viso di un angelo che sorrideva guardandolo dalla finestra; lui sorrise a sua volta e il volto angelico sparì dalla finestra in un grido di pioggia.
"La mia piccolina - disse avvicinandosi alla porta - tutto questo lo faccio per lei".
Il dottore afferrò la maniglia ed aprì la porta, fece qualche passo in avanti, fermandosi su uno zerbino, fu travolto da una gioiosa voce femminile, e una bambina lo abbracciò; lui la prese in braccio: a quanto pare perfino un ruvido e analitico scienziato come Maxis aveva un cuore.
 ricambiò con affetto l'abbraccio e baciò sua figlia, stringendola sé; il Gigante poteva aspettare fino alla mattina dopo, e anche Gobbels, e tutte le altre cose che accadevano là dentro.
Il contatto tra i suoi abiti bagnati e il grembiule pulito e leggero della sua bambina lo fece rabbrividire... Che avrebbe fatto se avesse perso anche Samantha?
Tuttavia è vero che hai bambini non si può nascondere nulla; lei vide sul volto del padre un'espressione cupa, quindi, con tutta l'innocenza della sua tenera età lei disse, con una vocina leggermente stridula:
«Cos'hai, papà?».
Lui sciolse l'abbraccio, riponendola delicatamente a terra e si ricompose: «Niente, bambina... Sono solo un pò stanco... Perdonami».
Lei sorrise, lui invece si sentì in colpa per quella bugia; per farsi perdonare la prese per mano, conducendola dentro casa, mentre con l'altra mano chiuse la porta dietro di sé.
Anche se Maxis non ne aveva la più pallida idea, altre forze erano in gioco in quello stesso momento, forze dettate dalla pazzia di un uomo dalla psiche debole, catalizzata dall'odio e dalla rabbia repressa in tanti anni di maltrattamenti dati e subiti, di segreti, bugie e sete di potere, che andava conquistato.
Oltre a tutto ciò c'era anche una buona quantità di scheletri ben riposti nell'armadio; le leggende attorno alla figura di quest'uomo vogliono quegli scheletri con ancora la carne attaccata alle ossa.

 

2

Arrivata la sera, mentre alla fabbrica e al campo iniziava il turno di notte con il cambio della guardia, il Gigante chiuse, e coloro che ci lavoravano tornarono alle loro case; coloro che facevano parte dell'esercito erano di stanza nella caserma della città, coloro che erano invece di piantone per sorvegliare sia il Gigante che il lager potevano usufruire di una caserma interna al campo di concentramento medesimo.
Data l'importanza delle due strutture, un laboratorio segreto e un campo di prigionia, la sorveglianza era strettissima: i soldati si davano il cambio ogni tre ore ed erano tenuti a fare il controllo perimetrale ogni quarto d'ora, per controllare che le spie entrassero o i prigioniero filassero.
Dunque arrivata l'ora i sei soldati di pattuglia si divisero: due rimasero all'entrata, gli altri andarono a fare il giro di controllo in direzioni opposte, seguendo il pesante muro in mattoni a vista; una figura si avvicinò al cancello principale passando a piedi per la strada che collega Breslavia al complesso, notandola i due soldati subito si allertarono: «Achtung - gridò uno dei due puntando la figura, sempre più vicina, con il Kar-98 - questa è una zona militare riservata, indietreggiate o faremo fuoco»
Senza batter ciglio la figura continuò con decisione la sua marcia, alche anche l'altro soldato, più alto e snello del suo commilitone, puntò con il fucile il forestiero in arrivo: «Questo non molla - disse quello alto appoggiando il fucile alla spalla e seguendo con il mirino la figura - siamo costretti a sparare..».
La figura si avvicinò ancora di qualche passo ed alzò il braccio destro: «Heil Hitler!».   
I due soldati si guardarono poco convinti: «Meglio controllare - disse quello basso - non si sa mai...».
L'altro sbuffò: «Vado io, tienilo sottotiro, mi raccomando».
Il soldato più alto si avvicinò alla figura, che apparve anch'essa piuttosto alta: «Chiedo scusa dottore - disse lui sottomesso vedendo il volto dell'uomo - non pensavamo che anche di notte...».
«Limitatevi a sorvegliare il Gigante voialtri, che ai miei affari ci penso già abbastanza io».
«Ho ordine di controllare i documenti, caso mai foste una spia o simili, dovremmo anche sapere il motivo della vostra presenza fuori orario».
La figura sbuffò annoiata: «Devo finire stilare i rapporti da presentare a Gobbels domani mattina, se me lo concedete... altrimenti spiegherete voi al Generale perché non è stato aggiornato sullo stato del nostro lavoro, che è palesemente non di vostra competenza».
L'uomo rimasto nei pressi del cancello abbassò l'arma ad un cenno del commilitone, che rabbrividì; come tanti suoi degni colleghi, Gobbels era in un certo senso il prototipo dell'ufficiale nazista: freddo, esigenze ed estremamente pignolo, veterano di una guerra che aveva annientato completamente l'anima della Germania... finché un Demone non la estirpò sfruttandola per il suo folle ed utopistico piano di dominio assoluto.
In virtù poi della fama che Gobbels vantava, ovvero l'essere intransigente con i trasgressori, i soldati preferivano stargli alla larga il più possibile, evitando comportamenti per cui averlo davanti al naso in un colloquio faccia a faccia.
«E va bene - acconsentì il soldato con la faccia paffuta e crudele di Gobbels stampata nella mente - ma vi prego... fate presto».
«Il tempo che ci vuole soldato, il tempo che ci vuole...».
 
I
soldati aprirono il cancello, formato da due ali chiuse da due spesse catene; con un frastuono metallico i due soldati rimossero faticosamente le catene e tirarono uno dei due lati verso l'esterno, in modo che fosse possibile entrare.
«Grazie, signori» ed entrò nella struttura mentre i soldati richiusero e bloccarono tutto nella speranza che nessuno notasse quello strappo alla regola.
Il cancello era posizionato sotto un arco di mattoni, alla cui sommità era fissata una targa bronzea: "Waffenfabrik - Der Riese".
La figura percorse alcuni metri nel cortile fino a trovarsi nell'area del mainframe, si fermò a contemplarlo, poi spostò lo sguardo verso una porta in acciaio su cui era inciso il simbolo del Gruppo 935: la rappresentazione di un apparecchio elettrico  con della valvole da cui scaturivano dei fasci elettrici circolari, sullo sfondo un ingranaggio sembrava racchiudere quel macchinario.
Era chiaro però che dietro quella porta c'era qualcosa di importante: tutte le porte che collegavano i vari ambienti del Gigante erano pitturate con quel simbolo, ma quella porta recava un segno, simile ad una sbavatura della vernice bianca del disegno per non destare sospetti; il misterioso dottore doveva esserne a conoscenza, perché aveva osservato tutte le porte per cercare quella cui stava davanti, sorrise soddisfatto mentre afferrava la maniglia e tirava orizzontalmente per accedere a ciò che voleva: una stanzino scuro e minuscolo, una sedia di legno, un tavolo di legno, una radio appoggiata su di esso e un lampada ad olio.
Il dottore si tolse il cappello marrone recante uno dei tanti simboli adottati del Terzo Reich (l'Acquila ad ali spiegate), ed il volto di Richtofen si rivelò; il dottore però arricciò subito il naso: la polvere, l'umidità e la pioggia appena cessata dovevano aver dato il loro contributo per riempire lo stanzino di uno strano odore stantio.
"Dovrò trovarmi un nuovo ufficio".
Chiudendo la porta che separava lo stanzino dal resto del Gigante, pensò "Se lassù va come previsto avrò un nuovo lavoro".
"Certo! Certoooh" rantolò una voce.
«Chi è là? T'avverto, non fare scherzi!» disse mentre istintivamente si ritrovò con la Luger d'ordinanza, di solito ben riposta nella fondina,  stretta nella mano destra.
«Chi vuoi che sia? Sono... Te!» rispose la voce.
«La voce! Ancora Tu! Cosa vuoi ancora?» disse Richtofen avvicinandosi a tentoni al tavolo.
«Cosa voglio? Quello che vuoi tu, naturalmente».
«Balle! - Sbottò il dottore - Tu vuoi solo portarmi lassù!» disse fregandosi le mani e accendendo  la lampada quasi bruciandosi con il fiammifero a causa di un improvviso tremolio nevrotico.
«Calunnie, Amico Mio! - disse la Voce con leggerezza - Voglio solo ciò che è meglio per entrambi, e poi sei stato Tu ad Osare di toccarCi!»
Richtofen, vedendo che ora lo stanzino era abbastanza illuminato, seppur in modo tenue, decise di chiudere la porta per evitare problemi, infine si sedette ed accese la radio, che cominciò a gracchiare con il sottofondo di un fastidioso e acuto sibilo.
«Se vuoi ritornare lassù sarà meglio ne valga la pena!» disse afferrando il microfono impolverato e, disse la Voce, con una smorfia di fastidio dipinta sul volto, girando le manopole nel tentativo di eliminare il maledetto sottofondo.
«Non immagini neppure cosa saremo in grado di fare per mezzo di te, mio Caro Amico».
«
Basta, sei solo la mia fervida immaginazione» disse mentre girava le manopole, alla ricerca della giusta frequenza; peccato la radio non funzionasse.
«Siamo, la tua fervida immaginazione... Ne sei convinto? Da quando hai toccato la Piramide una parte di Noi ora è in Te... Il trasferimento ora deve essere totale!».
«Basta, ho detto!» gridò assestando un pugno verticalmente sul telaio della radio, che si liberò di chissà quanto tempo di polvere adagiata su di esso; incredibilmente anche la voce sparì.
Scrollando la mano per far cessare un leggero dolore alla mano, Richtofen si chiese se anche quella sera sarebbe riuscito a farla franca, non si era ancora abituato a quella voce che ogni tanto saltava fuori dai recessi della sua mente; essa aveva gridato più volte nel corso dell'ultimo periodo, invitandolo ad uccidere, ordinando senza esitazione di far soffrire chi lo sfidava, ma era sempre riuscito a soffocarla... Fino a quando Porter non mise in dubbio le sue conoscenze dell'Ununpentio.
"Dannato 115 - pensò confortato dall'assenza della Voce - sarai la mia fortuna o la mia rovina? Bah, non m'importa!".
Pochi secondi di attesa, che parvero secoli, e Richtofen capì che la fortuna girava, almeno in quel momento, a suo favore; dall'altra parte del collegamento radio, dovunque fosse, una voce profonda e tranquilla rispose:
«Qui Stazione Grifone - disse con la tipica cadenza della parlata tedesca - passo».
Richtofen avvicinò il volto al microfono: «Qui Nido dell'Aquila a Stazione Grifone, ci sono aggiornamenti, Dottor Groph?».
«Temo di no dottore... Abbiamo cercato di capire il funzionamento della macchina, ma fin'ora... Niente! Non riusciamo a capire... Non solo è sigillata, ma reagisce con scariche elettriche al contatto diretto con la cute, dobbiamo controllare più a fondo... Lei invece? Sente ancora quella Voce?».
«Purtroppo sì dottor Groph, oggi durante un esperimento si sono scatenate... Ho paura che non se ne andrà fin quando non avrete finito lassù».
«Appena sapremo qualcosa riferiremo immediatamente dottore... Ora mi scusi se mi permetto ma di quale esperimento si trattava?».
Richtofen fece spallucce: «Un semplice tentativo di teletrasporto, Maxis si aspettava un morto vivente addomesticato, invece si è trovato in mezzo al magazzino di un macellaio!».
Rabbrividì pensando all'immagine delle interiora di quel prigioniero sparse ovunque, e di quanto a quella vista, in quel momento, godette.
«Capisco - disse Groph - Forse la chiave non è l'elettricità... Ma l'Elemento stesso... Avete provato con l'irradiamento diretto?».
«Purtroppo no - rispose Richtofen con dispiacere - Non abbiamo abbastanza Elemento...».
«Non si ricorda di
« quel frammento nel Pacifico? - chiese Groph - Se non sbaglio da quelle parti c'è un avamposto...»
A quelle parole un lampo gli attraversò il cervello, e si ricordò di un dettaglio che era rimasto in letargo nella memoria fino ad allora.
«Dottore, la prego di perdonarmi, ma mi sono reso conto di qualcosa di importante che non avevamo ancora considerato... Tornate al lavoro e buona fortuna, Nido dell'Aquila, chiudo».
«D'accordo Nido dell'Aquila, proseguiremo con gli esperimenti... Mi rifarò vivo io nel caso di aggiornamenti... Stazione Grifone - annunciò sospirando - passo e chiudo».
Quindi la radio si spense con uno scatto sordo, e calò il silenzio; Richtofen si lasciò andare sulla sedia, che scricchiolò minacciosa, ed abbandonò il suo sguardo alla fiammella della lampada, che ondeggiava nel vetro in modo ipnotico.
«Bene, bene - disse la Voce - Adesso sì che si ragiona... Quando hai intenzione di mettere in atto il nostro schema? Eh?! Eh?!».
«Non ti riguarda - l'ammonì - Prima dobbiamo verificare un dettaglio, poi si vedrà».
«Ooooh - disse la Voce con stupore, come se avesse visto un oggetto prezioso - Non mi avevi ancora mostrato questo nei tuoi pensieri...».
Richtofen, forse inconsciamente, sorrise in modo beffardo, nella penombra.

 

3

Nel momento in cui Maxis abbracciava sua figlia e Richtofen guardava la fiamma ardere nella lampada ad olio, un brivido corse sulla schiena di entrambi, portandoli sulla macchina del tempo più efficiente che l'uomo avesse mai costruito: i ricordi...
Essi li trasportarono indietro nel tempo... A quando tutto, nel bene e nel male, ebbe inizio.

  
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