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Autore: Ortensia_    09/01/2013    1 recensioni
Quattro differenti percorsi, e dieci gruppi destinati ad incontrarsi, a spezzarsi e perire, corrotti dall'odio che ogni anima riesce a far fiorire così rigoglioso nelle menti di ogni pedina.
Dopo Berkeley Square ed il Gioco, le Nazioni riusciranno finalmente a scoprire qualcosa sull'entità misteriosa e perversa che da mesi li perseguita?
Il dado è tratto.
[_Fra le storie più popolari dell'anno 2012/13 su Axis Powers Hetalia: più recensioni positive_]
Genere: Dark, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altri, Axis Powers/Potenze dell'Asse, Danimarca, Nuovo personaggio, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Can you hear the World?'
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XX – Bramosia




«Scozia-?» quell’appello insicuro, venato di stupore, lo spinse ad allentare la morsa delle sue dita intorno alle sbarre bianche del grande cancello e guardare oltre la propria spalla sinistra.
Le espressioni di ogni membro del gruppo, ora immobile alle sue spalle, erano perfettamente conformi con il tono di voce utilizzato poco prima per farlo voltare.
Probabilmente era stato Germania a rompere il silenzio: azzardò, ma neppure troppo interessato alzò appena le spalle, tornando ad osservare l’ultima casella, ancora inaccessibile.
«Veh, non si apre?»
Feliciano era molto più tranquillo, lo si capiva perfettamente dal suo tono di voce, magari non troppo fermo, ma piuttosto sereno e lineare. Forse era scioccamente convinto che tutto fosse destinato a concludersi dopo aver superato con successo un campo minato.
«Se si fosse aperto di sicuro non starei qui a parlare con voi, no?» Jack si rifiutò di scostare il proprio sguardo dall’ultima casella anche solo per un attimo, non degnando di una sola occhiata quei fastidiosi interlocutori alle sue spalle.
Sbuffò, e rafforzò la stretta intorno alle sbarre, portando la fronte pallida quasi aderente a quella trama precisa di ferro e metallo, quasi volesse allontanarsi sempre di più dalla conversazione che gli altri tre avevano appena intrapreso.
«Cosa pensi che possa significare l’uno rosso sull’arco del cancello, Doitsu-san?» il giapponese si rivolse volutamente al tedesco, continuando a tenere il proprio sguardo fisso su quel numero.
Preferì non rivolgere altre domande al rosso che ora gli dava le spalle, considerata la burbera risposta che era spettata all’italiano qualche attimo prima.
Ludwig seguì lo sguardo del giapponese, soffermandosi anch’esso sul numero, per poi negare appena.
«Abbiamo tutti dei numeri incisi sul braccio-»
Scozia, che se ne rimase ancora con il capo chino, quasi appoggiato al cancello, le mani talmente strette alle sbarre da aver perso qualsiasi tipo di colorazione intorno alle nocche, interruppe la riflessione dei due, attirando la loro attenzione e anche quella dell’italiano.
«Noi abbiamo un tre.»
«E siete in tre.
Io sono da solo, e infatti ho un uno.» tacque per un attimo, mordendosi appena il labbro, con ancora lo sguardo fisso davanti a sé.
«Credo che l’uno significhi semplicemente che una sola persona potrà entrare qui dentro.
E il rosso …»
«Il rosso è il colore dei nostri dadi-» Feliciano non poté fare a meno di intervenire, provocando così nello scozzese una pausa di riflessione troppo lunga: evidentemente Jack era rimasto infastidito da quell’osservazione ovvia, ma che ormai aveva preso in considerazione come unicamente di suo diritto.
«Quindi solo uno di noi quattro potrà entrare.»
«Quattro~?»
Quella voce cantilenante, vibrante di un bizzarro divertimento infantile, questa volta spinse anche lo scozzese a voltarsi, esattamente come fecero gli altri tre.
Quando Ivan ebbe la loro attenzione inclinò la testa appena di lato, accennando un lieve sorriso.
«West!»
La venuta dei due “nuovi arrivati” non poté che far roteare gli occhi allo scozzese, ora con lo sguardo nuovamente rivolto oltre le sbarre del cancello bianco.
Il giapponese si affiancò a lui, notando la presenza di altri tre cancelli, ma l’assenza di altri Paesi oltre a loro.
Intanto, sia gli occhi del russo che quelli dell’italiano, si soffermarono sull’abbraccio spontaneo ed impulsivo che Gilbert rivolse al fratello minore.
Feliciano si chiese esattamente in quel momento come stesse suo fratello, e se magari non ci fosse la possibilità di vederlo arrivare e poterlo abbracciare, proprio come aveva voluto la fortuna dei fratelli Beilschmidt .
Quando riuscì a scostare il proprio sguardo da loro, lo rivolse oltre, in cerca del viso di Lovino, al di là delle sbarre degli altri cancelli.
Ivan, invece, non riuscì a scostare i propri occhi da quel contatto. Piuttosto se ne rimase ad osservarli in silenzio, con le labbra contratte in una lieve smorfia amareggiata.
«Gli altri?» inconsciamente, Giappone spezzò quel momento di tensione, perché Gilbert sciolse l’abbraccio, e allora tutti gli occhi, compresi quelli di Feliciano e - soprattutto - di Ivan, furono puntati sulla figura dell'asiatico.
«Intendo, ci siamo rimasti solo noi sei?»
Rimasero in silenzio, scambiandosi alcune rapide occhiate.
«È probabile-» fu quello che, con un filo di voce, si limitò a dire il tedesco.


«Siamo quasi arrivati.» nonostante nei suoi passi fosse così meticoloso da apparire insicuro, con tutte quelle osservazioni accurate del terreno circostante e tutte quelle posizioni del piede ben calcolate a pochi centimetri da terra, prima di poggiarlo effettivamente sul suolo, la sua voce assunse fin da subito un tono fermo e saldo.
Un muoversi talmente lento e preciso, silenzioso e sofisticato, che Abel riuscì presto ad arrivare alla fine del campo, al contrario della lussemburghese, rimasta indietro di poco più di un metro.
«Abel-?»
«Dai Alice, è sicuro-
Ci sono passato io un attimo fa.»
La lussemburghese si fermò all’improvviso, prima rivolgendo una rapida occhiata al fratello, poi abbassando il proprio sguardo e soffermarsi sul terreno circostante e sul percorso intrapreso dall’olandese poco prima.
«Ma non è strano che non ce ne siano?»
«Siamo stati fortunati, abbiamo trovato un punto di distacco, evidentemente.» l’olandese la incitò con lo sguardo, ma vedendola ancora paralizzata decise di riprendere a parlare «dai Alice, non ci sono mine-»
Alice sentì un brivido avvolgerle la schiena.
Abel era stato troppo preciso, e nonostante la sua mole imponente, soprattutto rispetto a quella della lussemburghese, era riuscito ad attraversa il campo con un passo talmente leggero che anche la mina più sensibile avrebbe avuto difficoltà ad individuare la sua presenza.
Dopo poco si decise e mosse ancora qualche passo titubante, avvicinandosi cautamente al fratello.
L’ennesimo passo la spinse ad adagiare completamente la pianta del piede destro al terreno, ed immediatamente sentì la suola dell’anfibio tremare.
Fu un attimo: ebbe appena il tempo di sobbalzare, scattando subito all’indietro, ma non fu abbastanza rapida.
L’onda d’urto generata dalla mina le colpì il piede, facendola cadere con violenza sulla schiena e gemere di dolore.
«Alice!»
Questa volta, nonostante si trovasse sul campo minato, Abel trovò il coraggio di accelerare il proprio passo, fino a correre da lei, raggiungendola subito.
Chinatosi al suo fianco la vide portare immediatamente le mani sull’anfibio che le copriva piede e gamba destri, gemendo di dolore.
«A-Abel-» quel richiamo sommesso, rotto dagli spasmi di sofferenza, lo fece pentire per come si era permesso di agire poco prima: non solo aveva rimproverato Alice per la sua pesantezza - che poi non era cosa effettivamente vera – ma per di più aveva camminato talmente piano da essere riuscito ad eludere la sensibilità della mina, evidentemente urtata dal passo della sorella, forse troppo calcato e distinto. Quella mina poteva scoppiare sotto i suoi piedi.
Doveva.
Doveva ferire lui, e non Alice.
Piano, cercò di sfilarle l’anfibio, ma nel sentirla gemere continuamente per il dolore si fermò dopo poco, senza nemmeno essere riuscito ad arrivare a scoprirle il piede.
«F-fa piano-» gli parve un singhiozzo, quello della sorella, che in un gesto evidentemente istintuale gli afferrò le mani con le sue, in modo da impedirgli di togliere del tutto l’anfibio: gli avrebbe fatto troppo male.
«Alice, va … va tolto.
Se ti sei rotta qualcosa il piede si gonfierà, e dopo sarà ancora più complicato. E più doloroso-»
Neppure lui avrebbe sinceramente voluto toglierle quell’anfibio e sentirla urlare di dolore, ma aveva ragione a dirle che dopo sarebbe stato peggio. Dopotutto lo faceva per il suo bene.
Già da quei mugolii frequenti era facile intuire che ci fosse qualcosa di rotto.
Dopo poco vide quelle piccole mani fragili scivolare via dalle sue, molto più grandi. In quel momento pensò che avrebbe potuto farle male perfino tenendogli la mano, e quindi ebbe alcuni attimi di esitazione nello sfilarle dalla gamba e dal piede l’anfibio, quando tornò ad afferrarlo.
Quando sentì parte dell’anfibio toccare le dita dei suoi piedi, Alice si morse il labbro inferiore con i denti, stringendolo forte ed abbassando il capo, quasi a voler nascondere la propria espressione sofferente ed obbligandosi a trattenere qualsiasi ulteriore spasmo o singulto.
Solo dopo poco, quando vide Abel adagiare l’anfibio a terra, al suo fianco, realizzò che fosse finalmente finita.
«Vieni-» la aiutò lentamente a sollevarsi, lasciando che si sorreggesse a lui, a causa del piede che ora, ovviamente, teneva alzato da terra.
Alice rimase confusa, quando lo vide voltarle la schiena e chinarsi, allungando le mani per cercare lei ed afferrarla appena sotto i glutei.
«Dai, aggrappati.»
Allora Abel non pensava veramente che fosse ingrassata, vero?
Alice riuscì ad ignorare per un momento il dolore ed accennare un sorriso, mentre portava le braccia ad avvolgere il collo del fratello, lasciando che questo la sollevasse per portarla in spalla.
Non riuscì a dire nulla per quel breve tratto, ma ne approfittò per stringersi appena di più al fratello, con le gote arrossate: sola con Abel cambiava completamente carattere. Sarebbe stata irriconoscibile agli occhi di chiunque.
Così la conosceva solo suo fratello, perché con lui si era sempre sentita autorizzata a comportarsi in un modo differente, anche se ciò significava abbattere ogni sua singola difesa.
Pochi attimi e furono davanti al cancello bianco, contrassegnato da un numero uno di colore arancione che entrambi notarono, ma sul quale nessuno osò proferire parola.
Mentre Abel la adagiava delicatamente a terra, la lussemburghese ebbe modo di osservare alla propria sinistra, riuscendo a scorgere un altro cancello e delle sagome dietro di esso.
Mettendo a fuoco quella piccola zona che il suo campo visivo le aveva offerto tanto gentilmente, riuscì a riconoscere Ivan, e per una qualche strana ragione sentì un sussulto al cuore, un nodulo alla gola che non se ne volle andare neppure quando si schiarì più volte la voce, senza più guardare colui che l’aveva spinta a reagire e cercare il sangue, ancora una volta.
Quando vide Feliciano fu anche peggio.
Non riusciva a capire.
Non era rimorso: in un certo senso non le dispiaceva aver ucciso Lovino. Azzardò potesse trattarsi soltanto del pensiero di essere anche essa stessa una sorella, una sorella che teneva al proprio fratello.
Per un momento immaginò di mettersi nei panni di Feliciano, e sentì un dolore al petto che la spinse a chiudere gli occhi, strizzandoli appena.
«Giappone …» Abel sollevò una mano in segno di saluto, e la abbassò dopo poco, quando vide l’asiatico ricambiare: nonostante fossero lontani, separati da una casella e da due cancelli bianchi, l’olandese aveva intenzione di collaborare.
«Scozia non era con noi all’inizio del Gioco-»
Alice sollevò il proprio sguardo verso il fratello, per poi soffermarsi sulla sagoma dello scozzese, letteralmente attaccata alle sbarre del cancello.
Le bastò ricordare come era finita con lui e Spagna per tornare con il capo chino, ad osservare di sottecchi il campo minato che ormai si erano lasciati alle spalle.

«Holanda! Luxemburgo!»
Alice sollevò subito il viso, e dal canto suo, Abel, scostò il proprio sguardo dal gruppo al di là dell’altro cancello, osservando oltre la sua spalla.
«Esperanza …»
Quando la portoghese udì quel sibilo accennò un lieve sorriso, sollevando appena il viso ed inclinandolo, senza scostare gli occhi da quelli dell’olandese, come se non vedesse l’ora di ascoltare il resto del discorso.
«Dov’è Spagna?»
Fu la voce della lussemburghese ad interrompere quello scambio di sguardi.
Abel notò subito lo sguardo della portoghese soffermarsi su Alice, poi fuggire altrove.
Esperanza si scostò, affiancandosi all’olandese per osservare oltre le sbarre del cancello bianco.
«Non vi riguarda.»
Abel non seppe davvero capire se fosse morto da solo, o se fosse stata lei a dargli il colpo di grazia.
Era possibile che si potesse trattare della seconda ipotesi, trattandosi di una testa calda come la portoghese, ma anche molto probabile che Antonio fosse morto dissanguato, vista la situazione penosa in cui era ridotto.
«Non vi riguarda.» si ripeté. Furono quelle le uniche parole della portoghese, ora con le dita strette intorno alle sbarre del cancello, gli occhi rivolti a quello di fronte al loro, ancora circondato dal nulla, e forse destinato a rimanere così, chiuso ed inviolabile.


Dal momento in cui l’aveva salvata, l’attimo esatto in cui gli parve che Elisabeta si fosse trattenuta veramente troppo con le mani intorno al suo braccio, il corpo stretto al suo, era calato un silenzio imbarazzante.
Pareva quasi frutto di uno di quegli incantesimi impossibili da spezzare, tanto che Vladimir aveva provato più volte a parlarle, ma si era ritrovato a zittirsi sempre, imponendo alla propria mente irrequieta l’idea che fosse meglio rispettare quel silenzio.
Quando poi si ritrovarono in prossimità del cancello, e Vladimir notò che l’attenzione dell’ungherese era rivolta all’uno di colore verde sull’arco di questo, proprio come la sua, si decise finalmente a parlare.
«Cosa potrebbe significare?»
L’ungherese negò appena, in segno della sua più totale incapacità di capire quale potesse essere il suo significato: l’unica cosa di cui era sicura era il fatto ormai ovvio che presto avrebbero avuto sicuramente a che fare con qualcosa di pericoloso.
«Guarda là-» ancora in silenzio, Elisabeta, cercò appoggio su una delle sbarre bianche, provando a mettere a fuoco il gruppo di fronte a loro, a diversi metri di distanza.
«Uh-» brontolò non appena notò Gilbert: se le avessero proposto uno scambio fra lui e Vladimir avrebbe scelto sicuramente l’albino, che almeno se ne stava in silenzio dopo qualche padellata in testa, certo, ma era ovvio che non ci sarebbe stato alcuno scambio e che sarebbe stata costretta a rimanere con il rumeno: le bastava che non se li ritrovasse tutti e due appresso. Un idiota era più che sufficiente.
«Mi pento seriamente di non essere rimasta con il Signor Austria …»
«Pft.
Piuttosto, guarda lì-» Vladimir le si affiancò, e con un cenno rapido della mano indicò verso la loro sinistra, in modo che Elisabeta rivolgesse la propria attenzione anche altrove.
In sostanza, al cancello alla loro sinistra, erano fermi Olanda, Portogallo e Lussemburgo, seduta a terra, invece di fronte avevano Russia, Prussia, Scozia ed un vecchio trio che l'ungherese ricordò come “Asse”. Alla loro destra l’etere rimaneva svuotato di presenze e voci.


Il silenzio regnava sovrano, aleggiava intorno all’ultima casella, ancora inaccessibile, quando, d’un tratto, la sfera al centro parve essere scossa da un bagliore di luce bianca proveniente dal suo interno.
Gli occhi di tutti furono improvvisamente rivolti ad essa: sembrava quasi che vi fosse un turbinio luminoso, al suo interno.
Attesero diversi attimi, e a tutti parve di sentire il terreno tremare, un rombo lontano strappare le nuvole, quasi come se un temporale violento fosse in arrivo.
Dopo diversi minuti con il fiato sospeso, gli occhi fissi sulla sfera, poterono trarre tutti un sospiro di sollievo; anche Scozia, nonostante la sfera stesse mostrando il suo viso: finalmente era arrivata la sua occasione.
Il cancello bianco scattò, e allora allentò la presa delle dita intorno alle sbarre, fino a lasciarle, arretrando appena.
Non esitò.
Intravide la scritta che si era generata all’interno della sfera, e spinto dalla curiosità varcò la soglia del cancello, senza badare al fatto che si fosse chiuso subito dopo alle sue spalle, con un tonfo violento.
Il comando apparso all’interno della sfera era molto semplice: “Scegli”, diceva.
Jack guardò prima alla sua destra, poi di fronte a sé: i due cancelli si erano spalancati in un cigolio stridulo e lacerante che, per un solo attimo, gli provocò una smorfia di fastidio in volto.
Era arrivato il momento di divertirsi.
Voleva due avversari forti, due avversari che potessero amare il sangue quanto lo stava amando lui in quel momento, già soltanto pregustando lo scontro che presto si sarebbe acceso nello scenario dell’ultima casella.
«Romania.» facile, quella scelta. Chiamò il suo nome, rivolgendogli un sorriso beffardo.

«Vladimir-
Aspetta-»
«Non preoccuparti, mi sbarazzo dell’idiota e torno.»
Elisabeta non riuscì a dire altro, neppure quando lo vide solcare l’entrata, o poco dopo, quando la sua figura fu deformata dalle sbarre bianche che ora la separavano dall’ultima casella, impedendole nuovamente il passaggio.

«E …»
Scozia rimase a fissare l’altro gruppo.
Si dispiacque del fatto che Lussemburgo fosse ferita: se l’avesse chiamata l’avrebbe uccisa subito, senza gusto, perciò si soffermò sull’olandese e sulla portoghese: tutti e due molto forti dal punto di vista fisico, piuttosto impetuosi, ma soltanto uno dei due sarebbe stato disposto a tingere di rosso ogni cosa.

«Portogallo.»

«Non aspettavo altro.»
Sembrò quasi accennare un ringraziamento, con un piccolo movimento del capo, e sorridendo divertita solcò la soglia.
«Sarei potuta andare io-»
Abel rivolse subito un'occhiata alla sorella, quando la sentì brontolare.
«Alice, non dire idiozie.» non ci pensò due volte, e volle subito riportarla con i piedi per terra.
«Mhn-»


Jack, Vladimir ed Esperanza circondarono la sfera, ancora illuminata, e rimasero in silenzio, guardandosi negli occhi quasi come cani affamati e pronti a lottare, a strappare ogni cosa con i denti, pur di trionfare.
Lo scozzese rimase amaramente deluso quando vide che il comando apparso sulla sfera non era quello sperato: l’entità chiedeva semplicemente ai tre di tirare i loro dadi.
Poco dopo tre dadi, uno rosso, uno arancione ed uno verde, caddero a terra, mostrando diversi numeri.
L’arancione un uno, il verde un due ed il rosso un tre.

Quando poi, Jack, vide diverse armi materializzarsi davanti ai loro occhi, sorrise.

La sfera, ora, mostrava un nuovo comando: “Morite”.
   
 
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