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Autore: Whatadaph    10/01/2013    3 recensioni
Te l'ho detto, Albus. Noi non siamo come gli altri. Come noi ci siamo solo io e te, sarà sempre così.
Un ragazzo prodigio e un'estate che sembra il concentrato di tutti i suoi peggiori incubi. Un incontro inaspettato, che cambierà ogni cosa. Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera: qual è allora il confine tra bene e male?
Gellert aveva sete di potere, Albus di giustizia. Insieme, avrebbero potuto fare grandi cose.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Altro personaggio, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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- Questa storia fa parte della serie 'Licht und Schatten'
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Capitolo 12

 

"Interludio"

 

 

 

 

 

Non posso crederci, Albus.

 

NON PUOI avere l'influenza!

 

G.

 

 

-

 

 

Gellert,

 

puoi dirlo forte.

 

(Immagino che già lo stessi dicendo forte. O forse no. Le mie capacità intellettive, cognitive, intuitive, riassuntive, etc… sono notevolmente rallentate a causa dell'influenza. Inibite.)

 

Odio avere l'influenza. Non riesco a respirare e mi gira la testa come se avessi bevuto una pinta di Firewhiskey.

 

A. D.

 

 

 

-

 

 

Oh, voi inglesi con questo Whiskey… Dimmi, hai mai assaggiato la Vodka della Strega?

 

G.

 

 

-

 

 

 

No. Mi piacerebbe provarla assieme a un flacone di antidoto alla febbre, però. In questo stato non sono in grado di badare ad Ariana. Abe non vuole lasciarla sola e perciò mi devo tenere la febbre…

 

A.

 

 

 

-

 

 

Lo stai facendo apposta. Vuoi che io legga fra le righe.

 

G.

 

 

-

 

 

 

Che devo farci! Mi annoio da morire, ecco perché le mie facoltà intellettive sono inibite.

 

A.

 

 

-

 

 

D'accordo, accompagnerò l'antidoto da febbre fino alla tua stanza.

 

Sempre se non ti dispiace.

 

G.

 

 

-

 

 

Potrebbe mai dispiacermi?

 

Albus

 

 

****

 

 

La fronte di Albus scottava e i suoi occhi erano lucidi. Gellert l'aveva trovato a girare barcollando per la casa, le mani gelate e lo sguardo abbacinato.

 

Nel vederlo, l'altro aveva schiuso le labbra in un accenno di sorriso, per poi passarsi una mano sulla fronte con espressione improvvisamente sofferente.

 

"Ma quanto sei testardo," mormorò Gellert fra sé, sorreggendolo mentre salivano le scale. "Non ti reggi in piedi."

 

"Mi reggo in piedi benissimo!" si difese l'altro con espressione indignata.

 

"Come no," replicò lui, piatto, e improvvisamente ebbe una gran voglia di ridere. "Forza, Albus. Ancora pochi gradini… Ci siamo quasi."

 

"Cosa ci fai tu qui?"

 

La voce che era risuonata per il pianerottolo suonò più tagliente di mille coltelli. Gellert si fermò, voltandosi con lentezza misurata.

 

Aberforth era lì, con quello sguardo chiaro che trapassava come una lama, tipico anche di Albus – certo, non di Albus in quel momento.

 

Gellert schiuse le labbra in un sorriso che non sfiorò gli occhi, mostrando leggermente i denti. Si sentiva improvvisamente irritato dal modo in cui quel ragazzino – quel moccioso – osava mettersi in mezzo, interporsi fra lui e Albus.

 

"Sto accompagnando l'antidoto alla febbre in camera di tuo fratello," replicò in tono cortese.

 

Aberforth lo fissò. "Albus non mi ha detto nulla."

 

"L'ha detto a me." Gellert chinò la testa. "Con permesso."

 

Con cautela, si voltò e sorresse Albus fino alla porta della sua stanza, la nuca come perforata dallo sguardo di Aberforth.

 

Non poté negare di sentirsi sollevato, quando la porta si fu chiusa alle sue spalle.

 

Riuscì a sospingere Albus fino al letto sfatto, dove lo costrinse a stendersi nonostante le proteste, per poi rimboccargli le coperte, provando una certa costernazione nello scoprirsi impiegato in simili premure. 

 

Forse la cosa più strana era la più totale mancanza di imbarazzo.

 

"Piantala di fare il bambino," redarguì Albus al suo ennesimo tentativo di protesta, che – come i precedenti – sfociò in un borbottio indistinto e delirante.

 

Sfiorò la fronte dell'amico con la punta delle dita: era bollente.

 

"Albus, Albus…" sospirò. "Razza di testardo."

 

L'altro lo guardò, lo sguardo improvvisamente più presente. "Gellert." Lo chiamò, rauco. Le sue labbra si distesero in un sorriso. "Grazie di essere qui."

 

"Non dire sciocchezze." Replicò Grindelwald. "Pensa a riposarti, d'accordo?"

 

"No." Albus abbandonò la testa sul cuscino. "Sei qui. Parliamo."

 

"D'accordo." Gellert sospirò, condiscendente. Si tolse il mantello e lo appoggiò allo schienale di una sedia, quindi si sedette sul bordo del materasso. "Prima bevi questo, però."

 

Infilò la mano in tasca, traendone un flacone di antidoto alla febbre – attinto dalla scorta di Bathilda; tolse il tappo sigillato e si sporse in direzione di Albus. "Ecco."

 

Con delicatezza – sorreggendogli la testa – versò fra le sue labbra socchiuse qualche goccia di medicina. Si concesse alcuni istanti per osservare il volto di Albus prima di sfilargli gli occhiali con attenzione.

 

Il suo volto era livido per la febbre, la sua pelle leggermente lucida di sudore. Lo sguardo nei suoi occhi appariva fosco e quasi assente, ma in qualche modo anche più brillante del solito. I capelli rossicci erano in disordine e gli sfioravano le spalle, ma Gellert si rese conto di preferirlo così, con i capelli sciolti.

 

Gli parve attraente, in qualche modo.

 

"Mi stai guardando?" Il rauco mormorio di Albus giunse all'improvviso, facendolo sobbalzare.

 

Gellert osservò la linea squadrata della sua mascella, gli zigomi affilati. "Me lo chiedi?" replicò, soprappensiero.

 

"Non ci vedo bene, senza occhiali," fece l'altro, a mo' di giustificazione.

 

Gellert si ritrovò a sorridere. "Certo, scusa." Sospirò. "L'avevo dimenticato."

 

"Mi fa così male la testa…"

 

"Ti passerà." Distrattamente, allungò un braccio e gli accarezzò una ciocca di capelli. "Hai preso l'antidoto, lascia solo che agisca…" Si ritrovò a sfiorare la linea della sua mascella. Così, istintivamente. "Non ci metterà molto."

 

Albus strinse gli occhi, come se si stesse sforzando di vedere meglio. "Quando andiamo a vedere il cimitero?"

 

"Presto," gli assicurò Gellert. "Non appena starai meglio."

 

Aveva pensato di andarci da solo, più tardi, poiché gli era parso di non riuscire più ad aspettare. Tuttavia, qualcosa gli diceva che non sarebbe stato giusto.

 

Gellert Grindelwald si fidava del proprio istinto. Fu per questo che promise.

 

"Te lo prometto."

 

Albus emise una risata stentata. "Grazie anche per questo. So che ti preme andare lì."

 

"Mi preme andarci con te."

 

A quelle parole, seguì qualche istante di silenzio. Gellert guardava Albus senza vederlo davvero, sentendosi lì ma anche lontano mille miglia – la cosa gli causò una breve, brevissima stretta al cuore. Continuava ad accarezzare i capelli di Albus senza pensarci, mentre questi lo guardava con la sua espressione abbacinata e febbricitante.

 

Gellert deglutì. "Vuoi provare la Vodka della Strega, allora?"

 

 

 

****

 

 

 

Tre giorni più tardi il cielo sopra Godric's Hollow era di un azzurro tenue e quasi esitante; il sole spandeva i suoi raggi sui tetti e sui campi, messo in ombra da qualche nube che di tanto in tanto attraversava il cielo. 

 

Albus si era completamente rimesso in sesto. L'unico segno della malattia che solo pochi giorni prima l'aveva colpito era una leggera raucedine e un velo di pallore ormai pressoché impercettibile. Aveva di nuovo raccolto i capelli in quella sua coda bassa sulla nuca – chissà come mai, la cosa procurò a Gellert un vago moto di fastidio. Temeva forse che quell'atmosfera strana, isolata, che si era formata mentre Albus era ammalato, potesse spezzarsi per una tale minuzia, un particolare così bislacco.

 

Ma non era quello il momento di pensare a simili facezie. 

 

Stavano procedendo lungo l'animata via centrale di Godric's Hollow, l'uno di fianco all'altro. Lo sguardo di Albus si perdeva talvolta a osservare i passanti, come se dopo quei tre giorni che aveva trascorso costretto a letto avesse bisogno di fare indigestione di vita vera. Gellert osservava la cosa con una punta di affettuoso divertimento. 

 

Trascorsero qualche altro minuto in silenzio, camminando vicini. Gellert di tanto in tanto sbirciava in direzione di Albus, aspettando una parola, una reazione… insomma, qualcosa. Ma Dumbledore continuava a distrarsi osservando quello che lo circondava. 

 

Si sentì pervaso da un improvviso nervosismo, accompagnato dal subitaneo impulso di afferrare Albus per le spalle e costringerlo a guardare lui

 

"Osservi la gente?" domandò in tono aspro.

 

Finalmente, l'altro gli gettò un'occhiata sorpresa. Quindi decise di soprassedere.

 

Diplomatico come sempre.

 

"Mi piace osservare la gente." Ammise Albus, voltando lentamente il capo come a voler raccogliere nel proprio sguardo tutto ciò che lo circondava. Gellert osservò il riflesso delle case sulle lenti dei suoi occhiali e di nuovo ebbe quella sensazione a mozzargli il fiato. Nelle lenti di Albus avrebbe voluto veder riflesso solo se stesso. 

 

L'altro tornò a guardarlo. "Mi piace osservare la gente e pensare che ogni persona ha una sua… identità. Penso sia incredibile il modo in cui le identità delle persone riescano a conciliarsi, ad avere una sorta di equilibrio."

 

"Questo è senz'altro arguto." Gellert avrebbe voluto liberarsi di quella sensazione. "Ma ricordati che loro non sono come noi."

 

Di nuovo vide riflessa negli occhi di Albus una genuina sorpresa. 

 

"Noi li salveremo tutti," concluse.

 

Adesso Albus osservava lui al posto della gente, e Gellert sostenne il suo sguardo penetrante con un sorriso. Si accorse solo in quel momento che si erano fermati al centro della strada acciottolata e che nessuno sembrava far caso a loro.

 

Forse era meglio così.

 

 

****

 

 

L'ultima visita di Albus al cimitero risaliva circa a un mese prima, per il funerale di Kendra. Era stata una cerimonia semplice e intima, di cui ricordava poco o niente. Sapeva di aver gettato la prima manciata di terra umida sulla bara, una volta che questa era stata calata nella fossa. 

 

Ricordava i fiori di Bathilda, l'espressione spaesata di Ariana – così poco abituata a uscire all'aria aperta; il volto sofferente e gli occhi lucidi di lacrime di Aberforth. Ma erano tutte immagini confuse, sfocate dal dolore. 

 

Il presente invece era così nitido. I confini del profilo di Gellert erano chiari e definiti, così come il volume occupato dal suo corpo nello spazio; la distesa di lapidi era chiara nella luce trasparente di quella mattina estiva, i cipressi in lontananza si stagliavano contro il cielo. 

 

Gellert parve capire cosa gli passasse per la testa, come sempre. Albus sentì il peso caldo e vivo della mano dell'altro posata sulla propria spalla in una stretta rassicurante. L'amico non lo guardava, ma era lì. "Cerchiamo di sostituire i ricordi tristi con ricordi felici." Fu solamente un sussurro, ma Dumbledore lo udì distintamente.

 

"Cerchiamo la tomba di Ignotus." Si limitò a suggerire.

 

Si divisero, allontanandosi l'uno dall'altro in quel labirinto di pietre verticali. L'aria era odorosa del profumo dei fiori sulle lapidi: delicato in quelli freschi, più forte e dolciastro negli altri. 

 

Ad ogni tomba, Albus si chinava per leggere il nome inciso sulla lapide, finché non udì un grido estatico in lontananza. "L'ho trovato! Albus, l'ho trovato!"

 

Non pensò a nulla. Corse e basta, a perdifiato, superando il crinale di una collina per raggiungere Gellert. Arrivò col fiato corto e trovò l'altro inginocchiato davanti a una lapide dall'aria antica, le dita che artigliavano il suolo e le ginocchia in mezzo all'erba. La sua espressione era  la rappresentazione stessa della felicità: sembrava che il suo viso si fosse in qualche modo scomposto, aveva perso ogni maschera, ogni controllo. 

 

"Guarda!" Sollevò una mano dal terreno e la strinse attorno al suo polso, tirando finché anche Albus non finì ginocchia a terra come lui, di fronte alla lapide.

 

Il nome – Ignotus Peverell – era inciso in lettere consumate dal tempo, ma ancora leggibili. Appena sopra la dicitura, un simbolo: un triangolo con iscritto un cerchio, bisecati da una sottile linea verticale. 

 

Automaticamente, senza pensarci, Albus sollevò una mano e seguì con i polpastrelli il profilo dell'incisione. "La bacchetta." Percorse la linea verticale. "La pietra." Le sue dita descrissero il cerchio. "E il mantello." Lasciò ricadere la mano.

 

"Capisci cosa significa?" La voce di Gellert era tremante di meraviglia. 

 

Albus si sentiva leggermente spaesato, forse solo troppo felice. "Che i Doni della Morte sono esistiti davvero."

 

"Se sono esistiti possiamo trovarli," fece Gellert, e lo strinse.

 

O meglio, gli si gettò addosso di peso, stringendolo all'altezza del petto. Albus riuscì a non sbilanciarsi solo grazie al braccio con cui si resse al suolo, il gomito solleticato dai fili d'erba. La testa di Gellert aveva trovato il modo di incunearsi fra il suo mento e la sua spalla, mentre le sue braccia gli serravano il torace in una morsa. 

 

Ricambiò l'abbraccio, reprimendo l'impulso di sollevare la testa dell'altro e premere le labbra sulle sue. 

 

Non è così che deve andare, Albus. Non è così.

 

 

****

 

 

Non riesco a dormire dall'entusiasmo, Gellert. 

 

Ci credi? Non è solo un sogno indistinto e lontano, non è solo una leggenda. I Doni sono una realtà, presto diverranno l'intera realtà. Un pensiero che mi colma di una tale trepidazione… Adesso ogni cosa mi sembra più raggiungibile, concreta. 

 

Siamo sulla via giusta, lo sento. Hai detto il giusto, stamane: NOI LI SALVEREMO TUTTI.

 

Prima o poi la convivenza fra Babbani e Maghi perderà il suo equilibrio, non sarà più conciliabile. Allora sarà il caos. Ma noi anticiperemo tutto questo: li salveremo tutti.

 

A.

 

 

-

 

 

 

Te l'ho detto, Albus. Noi non siamo come gli altri. Come noi ci siamo solo io e te, sarà sempre così.

 

Neanche io riesco a dormire, non che questo mi dispiaccia. Non sento addosso neanche un briciolo di sonno o stanchezza, o persino torpore. Ho bisogno di pensare, di agire. 

 

Sai che non sarà una strada facile. Dovremmo combattere, com'è probabile. Delle persone moriranno, forse. Ma questo è necessario al Bene Superiore. Una somma di mali non fa il Bene, ma qualche volta dei piccoli mali sono indispensabili per capire COSA è il Bene.

 

E naturalmente anche i Doni sono indispensabili.

 

G.

 

 

-

 

 

Ci sono cose che dobbiamo essere disposti a fare, e il più delle volte la strada più giusta non è quella più facile.

 

Non potremmo proseguire questo discorso di persona? Sono certo che tu sia perfettamente in grado di uscire di casa senza che Bathilda se ne accorga.

 

Albus

 

-

 

Scherzi? Imbrogliare la zietta è la cosa più facile del mondo.

 

Va bene, arrivo.

 

Gellert

 

 

 

 

 

 


 

Note dell’Autrice

 

Sono piuttosto vergognosa, lo so e me ne dispiaccio. Il fatto è che l’anno della maturità si sta rivelando parecchio impegnativo, e tenere dietro a tutto è un po’ difficile. Nonostante ciò, credo di potercela fare!

 

Non do date precise riguardo al prossimo aggiornamento (anche per non dire una cosa e poi venir meno all’impegno) ma in linea di massima posso dirvi che entro due/tre settimane dovrei farcela. 

 

Ad ogni modo, ringrazio tutti coloro che continuano a seguire questa long, e (anche se in ritardo) vi auguro un buon 2013!

 

Come sempre grazie a Giulia, la mia fantastica beta <3

 

Bisous,

 

Daphne

 

 

 

 

 

 

   
 
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